mercoledì 30 gennaio 2019

Our Survival Depends on Us - Melting the Ice in the Hearts of Men: entrino i curiosi e coraggiosi

(Recensione di Melting the Ice in the Hearts of Men degli Our Survival Depends on Us)


Certe volte il mondo sembra un grande tabellone di gioco. Chi è più furbo a interpretare e capire le regole va avanti, spesso usando chi, invece, non riesce a stare al passo. Tutto è una macchina che si muovo instancabile, alla costante ricerca di "regalare" felicità e potere. Tutto è frenetico, tutto è un meccanismo che ti fa alimentare questa partita senza senso, quest'imposizione. O t'inserisci nelle regole della società o sei tagliato fuori. Ci illudono dicendoci che esiste la libertà ma non è così, come bestie in gabbie possiamo muoverci fino a un certo punto ma guai ad avventurarsi oltre. La ribellione ora è l'indignazione degli ignoranti.

Melting the Ice in the Hearts of Men è il quarto album degli austriaci Our Survival Depends on Us. Ed è un mondo fuori dal mondo. E' inutile cercare paragoni, interpretazioni, influenze e punto d'arrivo. Questo disco va vissuto come un'esperienza tanto rara ed unica da lasciare una forte impronta in chi la vive. E' una di quelle situazioni nelle quali non si capisce bene come ci si siano finiti dentro perché assolutamente lontane dalla "normalità" e già soltanto quello le regala il timbro di unico, di mitico, d'irripetibile, di sacro con quella sacralità soggettiva che diventa il tesoro maggiore che ciascuno ha. Questo è un disco trascendentale, pieno di misticismo senza cadere in una dinamica new age da due spicci. Questo è un disco trascinante senza che ne serva forza per spingerci. Nessun obbligo, nessuna porta chiusa, ma una volta che ci si finisce dentro nessuna voglia di uscire.
Perché è così? Perché questo è un lavoro magico. La magia non è necessariamente qualcosa di irreale o di surreale. La magia è quel punto dove facendo le stesse cose che in tanti potrebbero fare si raggiunge un punto dove scattano altre cose senza che ci sia necessariamente una spiegazione logica. E' un canto tibetano in mezzo a una stazione di metropolitana, è una ballerina di musica classica che danza sulle sole note del vento.

Melting the Ice in the Hearts of Men

Per raggiungere questo risultato gli Our Survival Depends on Us sanno che devono catturare, addomesticare, guidare e sorprendere. Questo è quello che succede con questo Melting the Ice in the Hearts of Men. Ci catturano con delle costruzioni melodico armoniche di raffinata bellezza, ci addomesticano usando dei loop che fanno dimenticare tutto il resto, ci guidano verso paesaggi inesplorati e ci sorprendono aprendoci gli occhi. Nulla è scontato, nulla è veramente bello, tutto ha un lato oscuro. 
Musicalmente come ci si riesce? Fregandosene di etichette. Com'è la loro musica? Magica, intensa, psichedelica, colorata, ipnotica. Cioè, fanno pschy metal o pschy rock? No, cioè sì ma non solo. Cos'altro c'è nella loro musica? Un'intenzione, una voglia, una volontà. Un modo di parlare raccontando storie, di utilizzare la musica come metafora, di spiegare con sensazioni quello che con le parole non è mai semplice da spiegare. Per quello sono post rock, doom, psych rock, dark metal. Per quello sembrano camminare affianco al black metal senza mai addentrarci. Per quello sono sciamanici senza voler portare a termine un vero e proprio rito, per quello sono complessi anche quando il loop che suonano sembra di una grande semplicità. 

Voglia di evadere? Voglia di guardare tutto da un'altra prospettiva? Non importa. Tutte le storie più belle parlano di fiumi, ebbene addentratevi nelle acque di questo Melting the Ice in the Hearts of Men e lasciatevi trasportare. Non sarà un percorso semplice ma sarete così tanto concentrati da non poter ne voler uscire. Questa è la magia di questo disco, di quello fatto dagli Our Survival Depends on US, nulla di sovrannaturale ma qualcosa che solo in pochi riescono a fare.

Our Survival Depends on Us

Essendo questo un disco di sole quattro tracce molto lunghe prendo una sola da guardare più da vicino.
Questa è Galhad - "Dissolving the Illusion of all Wordly Things". Ecco, il titolo è già così evocativo di capire di fronte a cosa siamo. Questo è un rito, con una porta d'ingresso che fa la prima cernita su chi deve entrare e chi non deve farlo. Si entra con curiosità e timore riverenziale, si guarda intorno, si cerca di sentirsi al proprio agio anche se tutto quello che si vede è lontano dalla realtà e improvvisamente.... tutto si muove, tutto fluttua, tutto appartiene a una dimensione dove il movimento non risponde alle leggi della fisica che conosciamo e con le quali abbiamo sempre convissuto. Siamo alieni in un mondo non nostro ma così simile da farci dubitare di dove siamo. Ormai è troppo tardi per uscire, ormai è troppo tardi per ribellarsi, ormai siamo dentro e forse, per la prima volta vediamo tutto con gli occhi della verità.


Melting the Ice in the Hearts of Men è una guida, una di quelle che mostrano una strada da percorrere con la forza della curiosità, di spingersi oltre al limite di quello che normalmente conosciamo. Our Survival Depends on Us c'insegnano la strada da percorrere. Adesso dipende soltanto di noi quanto profondamente ci spingeremo e quante cose della nostra vita passata abbandoneremmo, ma più ne lasceremmo e meno pesante sarà l'ancora che c'immobilizza

Voto 9/10
Our Survival Depends on Us - Melting the Ice in the Hearts of Men
Ván Records
Uscita 08.02.2019

lunedì 28 gennaio 2019

Innero - Chaos Wolf: dentro all'universo del black metal

(Recensione di Chaos Wolf degli Innero)


In un certo un gruppo è come una relazione sentimentale. Ci si entra e ci si rimane dentro sperando che tutto vada bene, che col tempo tutto cresca, migliori e sia sempre motivante. Ci sono gruppi che durano anni ed anni perché tutti stanno bene dentro. Altri, invece, soffrono costanti cambi o hanno una durata limitata, come se si trattasse di una relazione travagliata. Per quello quando si para di mettere in piede una nuova band c'è sempre la voglia di non ripetere eventuali errori del passato e fare funzionare tutto nel giusto verso.

Chaos Wolf è il primo album degli italiani Innero ma i musicisti che conformano questo progetto sono tutt'altro che neofiti nel mondo musicale. Infatti quello si sente perché questo lavoro non ha quelle evidenti lacune che si colmano solo col tempo. Un'altro aspetto che rimane in evidenza, e che indubbiamente è il grande pregio di questo disco, è che c'è una comunione di generi che donano grande originalità, spessore e dinamicità a tutto questo lavoro. Nulla è scontato, nulla è ripetitivo. E per chi, come me, cerca del movimento in un album si viene fortemente appagati. Dietro a questo pregio c'è indubbiamente un'idea molto chiara e un'uniformità d'intenti tra i diversi musicisti di questa band. Sanno cosa vogliono raccontare, sanno che ogni brano dev'essere un contenitore di storie precise e quella è la strada che percorrono. Una strada che mescola misticismo, mistero e natura e che fa capire qual è il mondo che colora queste tracce. Come capita spesso quando si parla di natura, di quella parte più affascinante e oscura molto spesso si ha a che fare con aspetti ancestrali, con paure e misteri che passano di generazione in generazione, quasi come si servisse essere attenti con quello che è la natura, con la sua grandezza che annienta e cancella l'uomo.

Chaos Wolf

Immagino che in tanti di voi, arrivati a questo punto, abbiate già fatto due più due e abbiate messo insieme tutti i pezzi che fanno capire che il lavoro che abbiamo di fronte è un lavoro di black metal. Tematiche molto care a questo genere che riesce a essere molto importante proprio perché racchiude in sé una estetica che da sempre piace tanto a parecchie persone. Chaos Wolf però è molto più ricco di questa semplice definizione. Quello che viene fatto dagli Innero non è replicare tematiche già notte da tempo immemore e giovare su una buona riuscita percorrendo la strada più semplice. No, questo loro debutto si basa su tutta una serie di contaminazioni. Il loro black metal è il punto di partenza ma l'aggiunta di elementi sciamanici, atmosferici ed arcaici regalano uno spettro musicale complesso e ricco. Ma la cosa intelligente, e che sicuramente darà risultati positivi, è che tutte queste aggiunte permettono di puntare tranquillamente allo zoccolo duro degli ascoltatori black metal portandoli poi su altre direzioni senza che sia un atto violento o un'imposizione. Caratteristiche queste che si ritrovano nei dischi intelligenti.

Grazie a questo Chaos Wolf mi viene da fare una considerazione importante. Cioè che la musica costruita dagli Innero sia perfettamente funzionale perché è completamente dentro a un universo musicale solido e ormai conclamato. Credo che pochi generi come il black metal abbiamo un fascino così grande che intrappola i propri ascoltatori diventando una parte fondamentale della propria vita.

Innero

Credo che osservare da vicino un paio di brani di questo lavoro permetta più chiaramente di capire che cosa abbiamo di fronte.
Il primo che scelgo è Among the Wolves. Si sente con chiarezza quel contrasto tra quelle che possono essere le regole più ferree del black metal tradizionale e aspetti di modernità che non stravolgono ma accrescono il discorso musicale. Brano da divorare perché veramente cattivante.
Il secondo è Unbowed, Unbent, Unbroken. Parlavo prima di tutto quello che è extra e viene aggiunto a questo lavoro, tutta quella parte sciamanica ed arcaica. Questo brano permette di illustrare fedelmente questa parte. Un insieme di elementi che s'intrecciano e danno nascita a un brano in costante evoluzione che arriva a sorprendere per come cambia.


Chaos Wolf è dunque un eccellente debutto, una dimostrazione del fatto che la musica regala sempre nuovi elementi, come se fosse una fonte inesauribile che darà sempre da bere a chi si avvicinerà. Senz'altro bisogna essere riconoscenti verso gli Innero, bravissimi a fare capire ulteriormente che il black metal è un universo che affascina e nel quale vi invito ad addentrarvi. 

Voto 8,5/10
Innero - Chaos Wolf
Third I Rex
Uscita 27.01.2019

mercoledì 23 gennaio 2019

Ghostheart Nebula - Reveries: l'oscurità è la mia miglior amica

(Recensione di Reveries dei Ghostheart Nebula)


Perché si scrive? E perché si ha la necessità di scrivere le parole di un brano? L'arte è versatile e sia chi fruisce che chi crea cercano la via migliore per esprimere quello che sentono e vogliono. Perché alla fine un'opera, di qualsiasi natura essa sia, non è altro che un ponte che unisce creatore e fruitore. Ma occhio, non è un ponte banale. Ci si ritrova a fare delle letture assolutamente personali e il valore che acquista un determinato lavoro vale solo per una determinata persona. E' lì il tesoro infinito, il fatto che un'opera diventi a tutti gli effetti parte integrante di quello che siamo. Possiamo ascoltare un brano alla distanza di anni e provare le stesse emozioni del primo ascolto. E nessuno ci toglierà mai quelle emozioni. Per quello l'arte è prezioso e va difeso sempre.

Quest'introduzione può sembrare strana e disconnessa con l'EP del quale vi parlo oggi. Ma c'è una logica dietro ed è il fatto che ascoltando e leggendo le parole di Reveries dei Ghostheart Nebula mi è subito venuto in mente una riflessione, cioè che certe tematiche sono comuni a tanti brani e possono essere collegati in modo più particolare a determinati generi. In particolare in questo lavoro è l'oscurità nelle sue più svariate forme a essere protagonista. Un'oscurità che sembra essere il fardello da portarsi addosso in un'esistenza che non è mai troppo chiara. Perché vivere se, in un modo o nell'altro, dobbiamo soffrire? Non voglio fare un discorso pessimistico ma qualche volta viene a chiedersi proprio questo. Sembra che la vera felicità sia effimera e non si sappia veramente se sia reale o meno, una "reverie" insomma. Ma vivere in quello stato di mente vuol dire dislocarsi completamente della verità, per quello prima o poi si rinuncia anche a queste fantasticherie. Sicuramente se siete arrivati a questo punto nella vostra lettura penserete che questo disco sia triste e deprimente. Non è così, cioè, da una parte lo è ma la tristezza può essere lavorata in tanti modi e il risultato di quello che fa questa band è bello perché diventa intenso e presente, come se la tristezza e l'oscurità diventassero i nostri migliori amici. 

Reveries

Infatti qui c'è l'aspetto più interessante di questo Reveries. Quando qualcosa che, in genere, si reputa negativamente diventa una parte fondamentale del nostro essere cambia connotati e diventa una specie d'amico, una presenza che ci dispiacerebbe che non ci fosse più. Ecco, per i Ghostheart Nebula l'oscurità è quell'amico. Un amico che trasforma la loro musica in un mix di doom metal e post metal molto ben suonato e piacevolissimo, di altissimo livello considerando che questa è la prima opera di questa band. Ma vorrei soffermarmi maggiormente su questo insieme perché dal mio punto di vista non risulta scontato e credo che faccia la fortuna della band. Il cuore di questo lavoro è indubbiamente doom ma tutto quello che lo fa crescere è quella capacità di dipingere dei quadri atmosferici molto articolati che abbracciano l'idea del post metal. Per quello c'è un messaggio di bellezza dentro a quello che viene fatto. Nulla è banale e scontato ma diventa complesso e completo. Perché, come detto prima, l'oscurità diventa una parte fondamentale dell'essere.

Reveries

Reveries è un EP che ha la grande capacità di creare una totale empatia con l'ascoltatore. Chi apprezzerà questo lavoro dei Ghostheart Nebula s'identificherà con tutto quello che viene suonato, perché capirà che quell'oscurità diventata amica è la stessa che l'accompagna tutti i giorni e senza la quale si sentirebbe un vuoto immenso.

Ghostheart Nebula

Prendo due brani di quest'EP anche se contando con solo quattro tracce è quasi imperativo ascoltarlo per completo.
Il primo è Dissolved, brano che apre il lavoro è ce diventa un fedelissimo biglietto di visita della band. Le sonorità dei due generi descritti prima s'intrecciano facendo anche un bel ponte tra gli anni 90 e la decade attuale. Tutto bello, e triste, e interessante. Un brano che gira perfettamente e che cattura l'ascoltatore sin dall'inizio.
Il secondo è Denialist che conta con la voce femminile della norvegese Therese Tofting. Come al solito il contrasto tra voce maschile e femminile giova tanto e ci regala degli elementi veramente interessanti, perché alla fine l'oscurità com'è? E' femminile o maschile? Bellissimo brano che chiude perfettamente questo lavoro.


L'idea che viene fuori dopo aver ascoltato Reveries è che i Ghostheart Nebula abbiano tanto da dire e da regalare al loro proprio pubblico. Questo è un primo assaggio di qualcosa di promettente che è stato costruito molto bene. La scelta dei generi da mettere in gioco è più che giusta e il modo nel quale vengono messi in gioco è un piccolo grande trionfo. Rimango in attesa di ascoltare altro ancora.

Voto 8,5/10
Ghostheart Nebula - Reveries
Auto-prodotto 
Uscita 17.12.2018

martedì 22 gennaio 2019

Der Rote Milan - Moritat: la devastazione dell'anima in guerra

(Recensione di Moritat dei Der Rote Milan)


Per via dei tempi che viviamo e dove viviamo le nostre sensazioni su quello che è una guerra sono molto limitate. Sono figlie dei racconti di chi ha vissuto qualche guerra o dagli scritti storici che documentano parte di quello che significa un conflitto armato. E anche se le testimonianze del terrore che si vive in guerra sono molto toccanti sembra che ancora ci sia parecchia gente affascinata con gli eventi come quello. Per quello non credo che bisogna essere pacifista per moda e per bontà di quello che significa esserlo ma bensì per l'intelligenza di capire che uno dei principi basilari deve essere quello. La guerra significa sempre un prezzo troppo caro che paga chi non dovrebbe.

Per molti storici la guerra dei trent'anni è stato il conflitto più devastante della storia europea. Per quello non è strano se una band come i Der Rote Milan ha scelto proprio una vicenda collegata a quel conflitto per costruire il loro ultimo lavoro intitolato Moritat. Sebbene a livello linguistico, essendo cantato in tedesco, io non sia in grado di capire e dunque di dare un'opinione, per quanto riguarda la parte musicale non c'è alcun dubbio nel dire che siamo di fronte a un disco che si sviluppa parallelamente su due livelli: quello della devastazione e quello dell'introspezione e dell'animo alterato. Proprio quello fa da questo lavoro qualcosa di estremamente interessante. Raccontare musicalmente quello che significa vedere interi paesi razzi al suolo più o più volte, con la violenza dei saccheggi, degli stupri, come se la vita e qualsiasi tipo di dignità umana non esistessero minimamente. Ma c'è anche l'altro aspetto, quello di chi subisce la violenza e rimane in vita; di tutte quelle persone che magari hanno sofferto sulla propria pelle il dolore di essere mutilati, umiliati, violentati, di vedere perdere tutta la famiglia e di rimanere con quel fardello di fronte al mondo. Che pensieri passano per la testa di qualcuno che vive qualcosa del genere? Che domande esistenziali trovano risposte importanti? Mi è impossibile rispondere a queste domande.

Moritat

Musicalmente Moritat è indubbiamente un disco black metal ma con delle aperture molto interessanti verso il blackgaze e un certo genere di post metal. Un contrasto che funziona perfettamente e che va a alimentare quella doppia direzione che prende questo lavoro. Come se la parte predominante fosse quella della devastazione, della rabbia ceca che spazza via tutto quanto. Ma le altre sfumature messe in atto dai Der Rote Milan sono quelle che ci parlano della introversione dell'anima ferita, del modo nel quale si osserva la distruzione dopo che questa ti ha spazzato i luoghi, gli spazi ma, soprattutto, l'affetto. Per quello se c'è qualcosa che non appartiene a questo disco quello è la banalità. Questo contrasto diventa chiave, diventa il motore che porta avanti tutto questo lavoro. Una macchina senza freni che improvvisamente scompare per entrare nella testa di chi ha vissuto un atto traumatico, come se alla regia di un film trovassimo un artista pronto a raccontare la sua storia su due livelli molto diversi.

Moritat ha dunque il merito di offrire due letture molto diverse. Ci fa capire la violenza e la cecità che la genera quando si vuole prevalere su qualunque altro. Ma ci fa anche sentire le conseguenze di chi si ritrova a vivere tutto ciò sulla propria pelle. Non è una scelta scontata, quella dei Der Rote Milan, e neanche semplice, perché riescono a intrecciare due sensazioni molto diverse con un gran bel risultato. 

Der Rote Milan

Prendo due brani da questo lavoro.
Il primo è Die Habsucht. L'intro non fa presupporre quello che ci sarà dopo, anzi, sembra di essere di fronte a un disco che non ha grande presenza di black metal, ma ecco che passa qualche secondo e veniamo investiti da una potenza sonora dissacrante e quando siamo sfiniti ecco un altro respiro di malinconica speranza. Un'altalena di emozioni.
Gnosis der Vergänglichkeit è il secondo brano che seleziono. Qui la violenza è più contenuta, come se invece di essere fisica si muovesse a un livello psicologico. Non per quello il brano è meno devastante degli altri, anzi, può anche esserlo di più, perché tocca certi livelli molto più difficili da raggiungere.


Dentro all'immaginario popolare di quello che è il black metal ci sono una serie di idee e concetti che non combaciano neanche parzialmente con questo disco. Anzi, certi momenti e certi brani dovrebbero essere fatti ascoltare a chi questi sbagliati preconcetti. Sicuramente si scoprirebbe che la profondità presente in Moritat non è qualcosa di scontato. Già solo per quello bisogna applaudire il lavoro dei Der Rote Milan.

Voto 8/10
Der Rote Milan - Moritat
Unholy Conspiracy Deathwork
Uscita 01.02.2019

lunedì 21 gennaio 2019

Imaginary Dreamers - Imaginary Dreamers: l'urgenza della passione

(Recensione di Imaginary Dreamers degli Imaginary Dreamers)


Cosa serve per fare musica? Può sembrare una domanda banalissima, scontata, che ritroverà altrettante risposte simili. Invece non lo è. O piuttosto la risposta è molto semplice ma racchiude tante altre cose. Cosa serve per fare musica? Passione. Passione che ti porta a buttarti dentro a un pozzo del quale non si vede il fondo. Non importa se sei bravo, se hai studiato infinitamente, se ti eserciti tutti i giorni. Tutto quello è inutile se non hai la passione. Se non hai l'urgenza di comporre, di scrivere, di buttarti.

Questo blog da sempre è nato con l'intenzione di essere un contenitore variopinto di quello che è la musica che mi piace. In quel senso non ho mai voluto mettere limiti. Non ho voluto che la musica da raccontare fosse soltanto quella che è più "famosa" per quanto famosa possa essere la musica che io ascolto. Per quello ogni volta che qualcuno ha "bussato" alle diverse porte virtuali che permettono di mettersi in contatto con me mi sono sempre dato disponibile a ricevere ed ascoltare il materiale di qualsiasi artisti, senza che fosse importante se questo artista fosse sotto contratto con qualche casa discografica o altro. Purtroppo, per motivi di tempo e di lavoro, ci sono tante opere che ho ascoltato ma che fino ad oggi non sono riuscito a recensire. Mi sono imposto che questo non accada più, per quello in questo 2019, sempre che le circostanze lo permettano, recensirò tutto quello che gli artisti abbiano il piacere di farmi arrivare.
Per quello oggi mi ritrovo a parlarvi di un power trio inglese chiamato Imaginary Dreamers che ci ha tenuto a farmi ascoltare il loro primo album, frutto di diverse composizioni del cantante e chitarrista, Kevin, nate in diversi periodi e poi perfezionate con il lavoro d'insieme e gli arrangiamenti di tutto il gruppo. 
In questo disco c'è qualcosa che mi piace perché mi ricorda l'ambiente della sala prova, dei primi piccoli e grandi traguardi che ogni band si conquista, cioè un suono rozzo, aggressivo, non curato praticamente per nulla. E' una presa diretta selvaggia, è come tutti i tipi di registrazioni di questo genere il gioco è doppio, da una parte non c'è spazio ha abbellimenti, a ritocchi, a arrangiamenti molto elaborati ma d'altra c'è l'anima della musica, la furia di fare sentire esattamente quello che si è, senza travestimenti, senza veli. Musica nuda e pura. E in un mondo dove tecnologicamente diventa sempre più semplice correggere tutto è da ringraziarsi che ci sia ancora chi ha il coraggio di farsi vedere per quello che si è.


Ma cosa fanno gli Imaginary Dreamers? La scelta della quale vi ho parlato prima si giustifica anche per quello. La loro musica è un alternative rock che spazia tra altri generi, avendo una chiara radice negli anni 90. Attraverso i nove brani di questo disco andiamo da quei momenti alt a altri quasi sludge rock, a qualche tocco grunge e una certa ricerca psych rock. Tutto con l'imposizione, bella, del power trio, di suonare quello che è nelle proprie possibilità, senza aggiungere altro e senza togliere nulla. Per quello tutto diventa essenziale, ma occhio, essenziale non vuol dire semplice. Infatti l'energia spessa in questo disco è importante e i brani che ne formano parte diventano una serie di carte che vengono fuori dal mazzo senza prevedibilità. Per quello questo è un disco che si ascolta senza annoiarsi, senza avere l'impressione di avere già ascoltato tutto con le prime tracce. Per completezza e coerenza devo, in tutti casi, essere assolutamente obbiettivo e indicare certi aspetti che potrebbero essere migliorati e che sono le carenze di questo lavoro. Come detto prima questo è un disco grezzo, diretto e questo da due diverse letture. Da una parte è una scelta artistica coraggiosa e condivisibile, d'altra si stende in elementi che devono per forza essere migliorati. A livello sonoro il mix non è sempre perfetto e per ogni strumento si poteva fare delle scelte diverse. Manca un po' di definizione. Inoltre la voce non sempre è perfetta, ci sono piccole stonature che stanno nel limite tra una sfumatura caratteriale, che va benissimo, e una carenza tecnica. Non sono grande cose ma soprattutto per quanto riguarda la parte sonora è difficile che una casa discografica possa voler decidere di distribuire questo disco così com'è. 

Per tutto ciò questo primo lavoro degli Imaginary Dreamers deve essere visto come una materia grezza, il punto di partenza dal quale si può ricavare tanto altro. I presupposti ci sono, c'è la padronanza musicale di quello che si suona, c'è l'originalità nel proporre una serie di brani molto diversi che girano bene. C'è un piacevole affiatamento, cosa fondamentale quando si parla di un power trio. Manca soltanto pulire, affinare, correggere piccole cose. Perché la musica, come la vita, è un percorso inesauribile.


Prendo due brani da questo disco, sicuramente molto illuminanti sulle diverse intenzioni sonore della band.
Il primo è Azalea, brano che apre il disco è che fa pensare di essere di fronte a un disco sludge. Molto potente, acido, crudo e interessante. Si sente l'energia, si gioca molto, e bene con la dinamica. Uno dei brani meglio riusciti di questo lavoro.
 Il secondo è Secrets of May. Molto, molto anni 90. Più intimo del brano precedente. Ma anche se sembra essere un brano più calmo in realtà racchiude una grande dose di grigia malinconia. Un bel salto indietro nel tempo.


Imaginary Dreamers è un lavoro che viene fuori dalla passione, dalla necessità, che spesso diventa un'urgenza di costruire dei brani che siano riflesso di quello che si sente, di quello che si vive e di quello che ci ha "cresciuto" musicalmente. Essendo il primo lavoro di questo progetto credo che si possano perdonare certe sbavature da curare meglio in un secondo disco.

Voto 7/10
Imaginary Dreamers - Imaginary Dreamers
Autoprodotto
Uscita 17.11.2018

giovedì 17 gennaio 2019

Inferitvm - The Grimoires: il mistero dell'ignoto

(Recensione di The Grimoires degli Inferitvm)


Ultimamente sto portando d'avanti un discorso abbastanza divertente su Instagram. Sto vedendo quale nazione, secondo i miei followers, ha le migliori band metal. Per farlo sto seguendo uno schema simile a quello di un mondiale di calcio, cioè sto mettendo a confronto 64 nazioni accoppiandole e andando avanti a eliminazione. Ancora sono alla prima tappa ma è molto interessante vedere come, anche dietro al suggerimento dei miei propri follower, escano fuori delle realtà musicali che non conoscevo minimamente. Perché alla fine la musica non ha alcun confine.

Sicuramente se si pensa alle isole Baleares la prima immagine che viene in mente è quella del divertimento sfrenato di Ibiza, collegato molto spesso alla musica elettronica. Ma per fortuna, come dovrebbe capitare ovunque, c'è spazio per tanta altra musica. La dimostrazioni ci viene offerta dagli Inferitvm, capaci di costruire senza alcun problema un secondo interessante disco, intitolato The Grimoires. Un disco che potrebbe perfettamente essere nato nei paesi nordici o in latitudini che si allontanano molto dalla Spagna. E utilizzo volutamente questo stereotipo perché voglio che si rifletta su come associamo certi generi a certe regioni del mondo. Cosa che in un ambito folkloristico viene perfetto ma che, antropologicamente, ancora non è successo portando la musica a altri livelli. Per quello lascio sospesa la domanda: è giusto considerare certi generi musicali, per esempio il black metal, come fedele rappresentazione di un paese e della sua storia? Sarebbe interessante trovare le risposte.

The Grimoires

Ma concentriamoci su The Grimoires. Quello che ci viene offerto in questo secondo disco degli Inferitvm è un disco energico, figlio di un black metal di scuola nordica che non diventa mai estremo. Abbiamo un compendio di brani e di note, spesso dissonanti, che scivolano creando un'atmosfera particolare. Musica che ci parla del passato remoto, di civiltà che ormai sono soltanto un vago ricordo o un racconto sospeso che ha attraversato i secoli dei secoli. Insomma, il mistero che è sempre presente su tutto quello che ancora non ha una spiegazione esaustiva. La nostra evoluzione come specie non è mai stata lineare e tanti insegnamenti del passato si sono persi definitivamente. Tutto ciò è presente in questo disco, che si nutre di quel mistero, del gioco di cercare d'indovinare come sono andate le cose. Per quello tutto quello che serve è che musicalmente la direzione sia molto chiara per procedere dritto. 

Insomma, The Grimoires si occupa di tutto quello che da una parte sembra oscuro e superato e dal'altra è ancora frutto di dibattiti e confronti di tesi diverse. Tutto quello viene messo in musica, ciascuna nota suonata dagli Inferitvm sembra chiaramente indirizzata nella loro intenzione musicale e artistica. E anche se magari questa è una tematica comune a tanti gruppi non è stancante e non è assolutamente ripetitiva.

Inferitvm

Prendo un paio di brani da questo lavoro.
Il primo è Goetia of Shadows. Molto interessante la melodia di tastiera dell'intro, figlia di una grande nostalgia messa a gioco del brano. Successivamente il brano ci mostra la faccia più chiara dell'intenzione black metal della band ma mettendo insieme una serie di elementi che possono anche sembrare contrastanti. Un bel risultato finale.
La seconda è De Occulta Philosophia. Parlavo di tutti gli aspetti antichi, che ci riportano a vecchie civiltà presenti in questo disco. Questo brano ne è fedele dimostrazione. Sonorità che ci riportano all'antico Egitto e tutto il mistero delle arte oscure, mai svelato completamente. Il brano gira perfettamente, funziona come dovrebbe, portando l'ascoltatore dentro al cuore stesso del mistero.


The Grimoires è dunque figlio di un modo molto interessante di sintetizzare le esigenze artistiche e la voglia di raccontare certe storie. Poco importa da dove provengono gli Inferitvm, il risultato della loro musica diventa universale, perché la loro intenzione non può, ne deve, essere collegata al punto d'appartenenza geografico. E nello stesso modo questo disco sarò apprezzato da chi ama queste tematiche e questo genere musicale.

Voto 7,5/10
Inferitvm - The Grimoires
Inverse Records
Uscita 25.01.2019

lunedì 14 gennaio 2019

Komodor - Komodor: guardare il passato per capire il futuro

(Recensione di Komodor dei Komodor)


Il tempo nella musica è un elemento molto curioso. Non mi riferisco al tempo ritmico ma a quello anagrafico. La musica non ha un'evoluzione frontale. Cioè, mi spiego meglio, la musica è una serie di linee che percorrono un piano parallelamente. Di queste linee qualcuna avanza vertiginosamente, qualcuna invece sembra essersi fermata o, addirittura, pronta a indietreggiare. L'evoluzione è sacra ma molti musicisti sembrano avere un grande bisogno di rimanere nel passato e di continuare a sviluppare un discorso che sembra assolutamente anacronistico. E l'ascoltatore stesso ha anche questa necessità, quella di, ogni tanto, rituffarsi nelle sonorità del passato.

Komodor è il debutto dell'omonima band. Un mini LP che è pronto a farci tuffare nel passato, in quel rock psichedelico che ha fatto le delizie della musica negli anni 70. Genere che non ha mai abbandonato il panorama musicale internazionale al punto che gruppi come i Blues Pills godano di grande successo. Infatti non è un caso se in questo disco siano presenti, nelle vesti di musicisti ospiti, tutti i membri di quella rinomata band multinazionale. Un tuffo nel passato che permette anche di riflettere su diversi aspetti, come il fatto che ci sia sempre una grande contrapposizione tra le modalità di composizione attuali e quelle di prima. Adesso la musica può essere molto più individuale e spesso prescinde dal lavoro della sala prove. Diventa tutto un collage sonico. Prima invece era fondamentale il lavoro d'insieme,il trovare una quadratura musicale con gli strumenti che si avevano a disposizione e basta. E questo disco restituisce quella sensazione. Sembra di essere di fronte a un disco nato con l'idea di mettere insieme il meglio che nasce dal compromesso al quale si arriva componendo tutti insieme, dove le idee di ciascuno crescono con l'aggiunta degli altri.

Soulseller Records

Komodor ha quella capacità, che personalmente mi fa ricordare i primi anni che suonavo, quando con amici fraterni improvvisavamo solo con la gioia di vedere cosa sarebbe venuto fuori. Ecco, questo mini LP sembra regalarci quello, il sudore della sala prove, l'affiatamento delle band che riescono a colmare qualsiasi lacuna col ruolo di ciascuno. Non serve altro, non serve tagliare e cucire perché la macchina si mette in moto da sola. E non bisogna fermarla. Forse questa è l'eredità che ci hanno lasciato celebri band del passato ed è importante riprenderla, perché inevitabilmente tutta la evoluzione, che oggi ci permette di avere tanti generi diversi, è passata da lì. Sono state tutte risposte alle risposte e, in un mondo dove si tende a dimenticare troppo facilmente il passato, risulta fondamentale fare un salto indietro, così si capisce molto di più. Tutto questo viene fuori dalle quattro energiche tracce di questo mini LP che lascia la promessa di andare a sentire tanto altro di questa nascente band.

Soulseller Records

A questo punto è più che valido chiedersi se vada bene, nel 2019, che una band riprenda discorsi musicali di cinquant'anni fa. Io non ho risposte a questa domanda perché se c'è qualcosa che non bisogna mai fare nella musica è imporre dei pareri, cosa che invece succede, in modo più o meno evidente, a livello mainstream. Komodor è un disco che personalmente mi ha suscitato delle riflessioni, e già quello lo fa diventare valido. Non ho dubbi che avrà gli stessi effetti su tanti di voi.

Soulseller Records

Visto che si tratta di un mini LP prendo una traccia d'approfondire. 
Questa è Join the Band. L'ho scelta perché riflette ulteriormente le indicazioni che o fornito prima. La musica come una festa dove il musicista diventa la guida ma è l'insieme pubblico/band quello che genera il vero spettacolo, spettacolo che diventa filosofia di vita. Bisogna vivere sempre dentro allo spirito della musica che si ascolta e questo brano ce lo racconta molto bene. Rock energico, allegro e coinvolgente.



E dunque, sia che siete dei nostalgici e pensiate che tutto tempo passato è stato migliore, sia che siete degli avanguardisti che state due passi avanti a tutto e tutti questo è un disco che fa bene. Fa bene perché ci fa tuffarci nel passato per guadare il futuro con altri occhi, per ricordare il perché e il come. Adesso non rimane altro che aspettare altre novità dei Komodor.

Voto 7,5/10
Komodor - Komodor
Soulseller Records
Uscita 11.01.2019

martedì 8 gennaio 2019

Void Rot - Consumed by Oblivion: una pillola di nero di marte

(Recensione di Consumed by Oblivion dei Void Rot)


Quando si fa musica necessariamente bisogna fare delle scelte. Molto spesso queste scelte vengono fuori in modo naturale perché corrispondono a quello che si ama dentro all'universo musicale. Di conseguenza anche le tematiche e il modo di trattarle vengono fuori spontaneamente. E la riflessione che mi viene da fare è che risulta molto interessante vedere come percorrendo strade diverse e facendo scelte diverse molto spesso di giunge allo stesso punto. 

Il disco del quale mi occupo oggi è già uscito qualche mese fa ma la "scusa" che mi permette di occuparmene è la nuova edizione in vinile. Si tratta di Consumed by Oblivion, mini LP degli statunitensi Void Rot. Un disco che, anche se corto, è molto massiccio e mi fa riagganciare al concetto del quale parlavo prima. L'energia e la potenza di questo lavoro non ha bisogno di ritmiche impazzite o di scelte sonore estreme. Naturalmente non si tratta neanche di un disco "tranquillo" ma le scelte operate danno come risultato un'ondata d'urto impattante lunga 15 minuti. Questo è un disco oscuro, fatto di quella tonalità che viene definita come nero di marte, cioè il nero più nero che ci sia. E la cosa impattante è che questo livello emotivo è presente in tutta la durata del disco. Non ci sono pause o stacchi, dalla prima all'ultima nota si è vittime, consapevoli o meno.

Void Rot


Ma come viene costruita l'oscurità di Consumed by Oblivion? A livello di genere musicale quello che viene offerto dai Void Rot è death-doom metal. La potenza del death abbraccia le ritmiche sostenute del doom. Per quello non c'è bisogno di esagerazione, di riff troppo elaborati, di cambi costanti di ritmo o di altri artifici. Basta avere le idee chiare e buttarsi, far andare da sola la macchina, come se l'oscurità si trasformassi in un piloto automatico. E la strada da percorrere è una discesa negli inferi. Non c'è luce, solo buio, così buio da non riuscire a far abituare gli occhi. 

Consumed by Oblivion diventa a tutti gli effetti una pillola da ingoiare forzatamente. E lo scopo di questa pillola è quella di affrontare la nostra parte più buia, quella che riesce a trascinarci fino a perdere quello che siamo. Nella musica dei Void Rot non c'è il minimo spazio per luci e spiragli di speranza, perché se così fosse si perderebbe completamente il loro obiettivo, obiettivo che invece riescono a attuare magistralmente.

Visto che questo è un mini LP di solo tre brani scelgo soltanto uno da approfondire.
Questo è il primo brano: Ancient Seed. Tra l'altro è molto utile perché corrisponde perfettamente alla struttura che la band utilizza in tutti i propri brani. Inizia la chitarra da sola, in questo caso con degli arpeggi dissonanti e successivamente si accostano tutti gli strumenti sullo stesso giro prima dell'entrata della voce. Viene anche evidenziata l'idea musicale che la band porta avanti. Questo death-doom che non è ne l'uno ne l'altro. Senza strafare lo stesso veniamo catturati senza alcuna via d'uscita.


Consumed by Oblivion ci ricorda una cosa essenziale, cioè che se si fa finta di non avere dei lati oscuri prima o poi quei lati prendono il sopravento su tutto. Per quello questo mini LP dei Void Rot è bestiale e lascia senza fiato seppur corto e veloce. E' necessario affrontare la parte peggiore per far emergere la migliore.

Voto 8/10
Void Rot - Consumed by Oblivion
Sentient Ruin Laboratories
Uscita 09.01.2019

domenica 6 gennaio 2019

Mark Deutrom - The Blue Bird: la ribellione alla macchina della felicità

(Recensione di The Blue Bird di Mark Deutrom)


Nella musica tutto tende a racchiudersi nella figura dei musicisti, molto spesso dando molta più importanza alla figura del cantante e del o dei chitarristi. Me ci sono tante altre figure che molto spesso riescono a essere la chiave o il fallimento di un gruppo. Un buon manager può garantire la visibilità necessaria di una band, invece uno cattivo può creare conflitti e obbligare a scendere a compromessi non sempre appaganti. Un buon produttore può far crescere la capacità musicale riempiendo le lacune che per inesperienza si presentano. Ci sono tante altre figure che possono aiutare o meno una band ma tutto ciò dimostra che la musica è un meccanismo complesso che va oltre al semplice fatto di suonare.

Per più di qualcuno il nome di Mark Deutrom equivale a nominare uno dei personaggi chiavi nello sviluppo musicale del rock e il metal negli ultimi 30 anni. Per chi invece non lo conosce basta sapere che sia come musicista che come lavoratore discografico va accostato a nomi celebri come i Melvins, i Neurosis e i Sunn O))). Già questo biglietto di visita dovrebbe bastare per catturare l'attenzione di qualsiasi amante della musica ma credo che sia importante osservare, analizzare e tirare le conclusioni di qualsiasi lavoro ascoltandolo senza prendere in considerazione alcun aspetto "curricolare". Per quello nell'ascolto di The Blue Bird ho provato a farmi trasportare dalle tracce contenute in questo lavoro senza considerare chi ci fosse dietro a questo progetto. Per onestà devo aggiungere che in passato, ascoltando altri lavori dello stesso musicista, non ero rimasto necessariamente entusiasta. Invece questo nuovo lavoro ha degli aspetti veramente unici che regalano un punto di vista particolare e vivamente interessanti. Tutto suona bene, nella costruzione di un universo sonoro che si nutre di nostalgica eleganza e di ricercata ambizione. Dunque un primo aspetto che sorge spontaneo è che questo è un disco pieno di personalità.

The Blue Bird

The Blue Bird è un disco con una marcata impronta statunitense. Ha quel tocco di profonda malinconia che è passata a essere una cicatrice così caratteristica da diventare l'aspetto più riconoscibile di qualcuno. L'abilità, però, di Mark Deutrom sta nel non rimanere fermo in un'unica direzione. Per quello i suoi brani prendono diverse vie. Si colorano di energia o si svuotano. Cercano particolari arrangiamenti o arrivano diretti, così come sono. Tutto dentro a un art rock molto dinamico e mobile. A tratti ricorda i Pink Floyd, a tratti la sua musica sembra venire fuori da una puntata di Twin Peaks. Tutto fatto con grande coerenza, senza mai forzare la mano, ne in una direzione ne nell'altra. Lo scopo è chiaro, la sua musica diventa una continua ricerca di un qualcosa che assomiglia alla felicità, ma non è una felicità banale o imposta. La sua felicità si nasconde nel fondo di una bottiglia di birra, nel pomeriggio di sole percorrendo una strada deserta, nella carezza al cane fedele. Nel gesto oltre le parole. E curiosamente anche se c'è questa ricerca dietro questo è un disco malinconico, blu come blu è la sua copertina.

The Blue Bird

In un certo modo la musica spesso ci fornisce delle risposte a domande esistenziali, riuscendo a essere molto più esaustivo di tanti saggi. Quello perché l'empatia che si genera tra musica e ascoltatore è un vincolo sacro e potente. Ecco, The Blue Bird è un disco che parla al cuore di chi ama i dettagli, di chi trova più conforto ascoltando il vento piuttosto che l'assordante televisione. Ma occhi, che la musica di Mark Deutrom è ricca, complessa, ricercata come la dinamicità che ha dentro, perché quel genere di persone è il genere di persona più ricca, complessa e ricercata. Insomma, nessun spazio per la banalità.

Mark Deutrom

Prendo tre brani da questo lavoro.
Il primo è O Ye of Little Faith. Energico e sostenuto per poi virare verso un psichedelico giro sul quale si sviluppa un perfetto assolo di chitarra. Tutto con una sonorità acida, che mette in evidenza uno strato di fumo che nasconde quello che veramente c'è.
Il secondo è Somnambulist. Di nuovo c'è una grande componente psichedelica costruita con chitarre piene di reverb, bassi profondi, mai eccessivi e ritmi di batteria mid-tempo. E' tutto ciclico, un vortice che cattura e non libera senza per quello dover girare velocemente. E' un vortice ipnotico, non distruttivo. 
L'ultimo che scelgo è The Happiness Machine. Brano schiacciante, come se la felicità potesse essere imponibile al punto di fabbricarla e distribuirla. Cosa che in realtà succede perché nella nostra società cercano già di avere per buona la felicità che ci vogliono spacciarci, che in realtà è un involucro che racchiude in vuoto. Felicità vuota per menti vuote.


The Blue Bird è un disco che ha così tanta personalità da non avere bisogno delle credenziali di Mark Deutrom. E' un disco che funziona per via di questa personalità, del modo nel quale vengono toccati degli argomenti esistenziali con una grande chiarezza. Musicalmente tutto è un riflesso di queste idee, di questo modo di costruire mondi strutturati che sembrano allo stesso tempo molto semplici. Mica roba semplice. 

Voto 8,5/10
Mark Deutrom - The Blue Bird
Season of Mist
Uscita 04.01.2019

venerdì 4 gennaio 2019

Wolfhorde - Hounds of Perdition: dentro alla fantasia

(Recensione di Hounds of Perdition dei Wolfhorde)


La magia della musica sta nel fatto che qualsiasi cosa possa essere raccontata in tanti modi diversi. Alla fine ci sono delle tematiche che sono comuni a tanti gruppi ma il trattamento che ognuno dà è la particolarità che fa scattare quella molla che permette di unire musicista e ascoltatore. Non credo che sia possibile dire che un modo sia migliore dell'altro o che ci sia un linguaggio semplice col quale raccontare le cose ed altri complessi. Ogni ascoltatore deve sapere cosa cerca e, una volta che lo trova, buttarsi di capofitto su quello.

Hounds of Perdition è il secondo album dei finlandesi Wolfhorde. Un disco che si districa tra il sinfonico e il folkloristico, dando così un tocco narrativo a quello che la band cerca di trasmettere col proprio lavoro. E questa scelta diventa molto interessante, perché nel metal ci sono tantissime vie da percorrere, qualcuna che forse fa vivere le cose in prima persona, altre dove invece la narrazione diventa fondamentale per assistere a un racconto, o a una proiezione cinematografica di un film di fantasia.Nel caso di questa band indubbiamente la scelta è la seconda. Questo è dunque un disco ricco d'immagini che generalmente cattivano chi ha una fervida immaginazione e ama perdersi dentro a certe storie nate dalla fantasia. L'aspetto che ho appena descritto è la grande forza di questo disco, perché è un lavoro che mantiene sempre le distanze, non è un urlo, non è una protesta, non è una canzone d'amore, è un relato da condividere e nel quale lasciarsi perdere.

Hounds of Perdition

Dicevo prima che Hounds of Perdition mette insieme due mondi, il sinfonico e il folkloristico. Naturalmente la congiunzione di questi due aspetti insieme al metal da nascita all'universo sonoro nel quale si muove la musica dei Wolfhorde. Un universo che viaggia a velocità sostenuta tra il folk metal, il groove metal e certi aspetti del symphonic metal. L'idea interessante, però, è che tutti questi elementi trovano un bell'equilibrio. Non ci sono aspetti che pesano più degli altri. Tutto rivolto all'idea principale, quella di raccontare al meglio le storie che motivano la stesura di questi brani. Brani fantasiosi e sicuramente oscuri, ma trattati in modo tale che l'oscurità sia misurata e mai eccessiva. Anzi, con un tocco molto gradito di tradizione, come se fossero racconti tramandati di generazione in generazione che ora trovano questa forma musicale. 

Bisogna dunque parlare con molta chiarezza. Chi ama le storie fantastiche, l'immaginario del nord europa e certi ambienti che provengono proprio da lì sicuramente troveranno in questo Hounds of Perdition un disco da ascoltare molto volentieri. Chi invece ama le cose più sentite e viscerale è meglio che non perda il proprio tempo dietro a questo nuovo lavoro dei Wolfhorde.

Wolfhorde

Prendo due brani di questo, curiosamente quelli di apertura e chiusura del disco e, inoltre, i più estesi.
Il primo è Chimera. Miglior apertura di questa per lasciare chiara la direzione che prende quest'opera? Difficile. Veniamo subito travolti da cori sinfonici, da dialoghi tra chitarra e tastiera per poi scivolare dentro a un brano molto sviluppato che passa senza problemi da un punto a un altro. 
Il secondo è l'omonimo Hounds of Perdition. Forse più energico e folkloristico del primo. E' uno di quei brani che ha tutta l'aria imponente dei brani epici che chiudono i dischi in modo magnanime. Difficile non lasciarsi trasportare dalle note che si susseguono per quasi 12 minuti. Intenso.


Tirando le somme Hounds of Perdition è un lavoro che ha uno scopo molto chiaro, cioè quello di arrivare al cuore di chi ama l'universo fatto di racconti epici, di storie interessanti, di musica che non ha alcun timore di perdersi tra gli adorni sinfonici. Il risultato ottenuto mette in bella luce questa seconda opera dei Wolfhorde.

Voto 7,5/10
Wolfhorde - Hounds of Perdition
Inverse Records
Uscita 11.01.2019