mercoledì 31 maggio 2017

SikTh - The Future in Whose Eyes? + Intervista a Mikee Goodman: il trionfo di un disco umile

(Recensione di The Future in Whose Eyes? degli SikTh + Intervista a Mikee Goodman)


L'intesa che si crea tra un artista ed il suo pubblico non ha a che fare soltanto con le proprie canzoni e con quello che possono rappresentare per chi le ascolta. Ci sono tanti altri livelli nei quali si crea un rapporto unico che porta a determinare che la musica sia uno dei maggiori tesori che si possano mai abbracciare. E qua non si tratta della disponibilità di un artista o della sua vicinanza al suo pubblico. Parlo di tutta un'altra serie di cose che ti rendono un artista una presenza necessaria, fondamentale ed irrinunciabile. E' lì che scatta la magia. 

The Future in Whose Eyes?


Per la prima volta da quando scrivo questo blog, oltre a cercar di raccontarvi un nuovo disco, vi porto le parole di una delle menti di questo lavoro. Per quello questa recensione diventa una creatura ibrida dove le parole di Mikee Goodman ci aiuteranno a capire cosa significa per lui e cosa arriva all'ascoltatore di questo The Future in Whose Eyes?, disco che marca il ritorno discografico degli inglesi SikTh
La prima cosa da dire è che questo nuovo lavoro viene visto dallo stesso Goodman come il migliore fatto fino ad adesso. Mi spiega che questo è perché sente che c'è un insieme di generi messi insieme che fanno di questa nuova opera quella più completa ed interessante fino ad adesso, quella più esaustiva. Dai miei primi ascolti colgo una visione abbastanza oscura di quello che può essere il mondo futuro, un mondo schiavo della tecnologia; Mikee mi dice che non è un disco profetico ma fantascientifico, un disco che cerca di raccontare una storia che non deve per forza essere il nostro avvenire ma che effettivamente immagina la presenza pesante della tecnologia che si sovrappone a qualsiasi forma di umanità. 
Oltre a questa visione abbastanza oscura spicca la dimensione visiva di questo disco, che acquista delle vere e proprie caratteristiche di un film, con frammenti narrativi e con uno sviluppo narrativo che fa venire in modo spontaneo una serie di immagini che ci portano a montare un nostro proprio film mentale. Mikee Goodman dice di essere contento di vedere che viene fuori questa dimensione, e quando li chiedo quanto sia importante la parte visiva, visto che oltre ad essere un cantante è anche un regista ed un fotografo, dice che è molto importante, che l'immagine c'è sempre, e deve esserci sempre. 

Sikth

La musica di The Future in Whose Eyes? segue i sentieri tracciati dagli SikTh dove tech metal, progressive metal, math core e djent trovano ampio spazio intrecciandosi in una creatura indefinita che non è alla ricerca di alcuna definizione, anzi, quanto più aperta è, meglio è. Mikke Goodman dice che in più questo nuovo lavoro ha una parte psichedelica, che forse diventa la chiave in questo lavoro, dando ancora di più l'impressione di essere di fronte ad un film che ci catapulta in una dimensione assolutamente diversa per quanto riguarda tempo e spazio. In tutti casi il leader degli SikTh non nasconde la sua preoccupazione di fronte al mondo odierno, dove l'odio sembra essere tangibile e respirabile, portandoci a questi confronti orribili dove vince il terrore (quest'intervista è stata realizzata qualche settimana prima dell'attentato di Manchester). Affrontando anche un'altra tematica recente dice che la Brexit è una fregatura anche se c'è l'incognita assoluta di sapere come sarà il mondo da quando diventerà effettiva. Mi gira la domanda e mi chiede cosa ne penso io e come si vive in Italia riaffermando che è una sconfitta per tutti. Forse per quello questo disco è un disco che immagina un mondo inesistente ancora più terribile, per altri motivi, dal nostro, un mondo che è un'incognita, e per quello è necessario che tutti gli elementi musicali degli SikTh giochino anche con la parte psichedelica, perché non sono una bolla di cristallo ma una storia come ce ne possono essere tante altre, ma, aggiungo io, quando si creano dei scenari così è perché ci sono delle verità nascoste.

The Future in Whose Eyes?


Mikee Goodman è un personaggio veramente in gamba, qualcuno che non ha l'interesse di centrare esclusivamente il discorso su se stesso o sulla sua band, qualcuno che anche se ha fatto molta strada non si da arie inutili. Per quello parlare con lui è stabilire una conversazione affabile dove vengono fuori delle storie interessanti, come l'umiltà di Adrian Smith degli Iron Maiden, che, a detta di Goodman, ha dato degli ottimi consigli per The Future in Whose Eyes? oltre a perdersi in chiacchierate sul Watford, squadra del cuore di entrambi. Cosa può centrare tutto questo col nuovo disco degli SikTh? Qualcosa di molto interessante, cioè la capacità di dare la dimensione giusta a quello che è fare musica nel modo nel quale la band fa musica. Questa è un'opera che non ha l'ambizione di cambiare il mondo o di dettare nuove linee guide nella musica. E' "semplicemente" un disco fatto con la passione di sapere che quello che sta venendo fuori è bello, è ben riuscito e rappresenta un passo in avanti dentro ad un percorso. E' questa "umiltà" quello che fa grande questo disco, perché non vuole essere altro che quello che è: una narrazione molto vivida di un mondo inesistente. 

The Future in Whose Eyes?


Parlando sempre con Mikee viene fuori che i brani che compongono questo disco sono nati in una specie di collage dove ogni membro della band aggiungeva qualche idea fino a trovare il punto giusto, e da questo disco voglio pescare due brani che funzionano molto bene, sia all'interno del disco che separatamente.
Il primo è Vivid. Sorprende, anche nel caso della band non può essere considerata come una sorpresa, la capacità strumentale, il modo di dare protagonismo ad ogni elemento della band. Viene fuori un'altra delle caratteristiche principali degli inglesi, cioè l'intreccio di due voci maschili, deliranti dentro a quell'accavalcarsi estasiato.
Il secondo è Golden Cuffinks. In un certo modo è molto più "melodico" del precedente senza mai perdere le caratteristiche proprie del disco e della band, dimostrando che un disco ben fatto vive diversi momenti d'intensità e d'emotività. 

Sikth

Altri punti che ho toccato con Mikee Goodman sono stati quelli dell'artwork del disco, affidato a Meats Meier, che rispecchia perfettamente le idee della band avendo costruito un'opera monumentale. 
Abbiamo anche parlato delle sue collaborazioni musicali, che vedono, tra altri, degli intrecci con Bat for Lashes o il prima nominato Adrian Smith. Il criterio usato da Goodman per fare qualcosa ha a che fare, molto spesso, con l'amicizia. E' per quello che collabora in un brano dei Bat for Lashes, visto che Natasha Khan è fidanzata con uno dei suoi migliori amici e col chitarrista degli Iron Maiden c'è un'amicizia che viene da lontano e che va oltre alla musica. 
Parlando dei live ho chiesto se c'erano dei posti dove preferiva suonare. Mi ha detto che suonare a casa è sempre un'emozione unica e ha ribadito qualcosa detto altre volte, cioè che il pubblico italiano e quello spagnolo sono i più caldi, raccontando che l'ultima volta che hanno suonato in Spagna insieme ai Trivium il livello sonoro del pubblico era più alto di quello dell'amplificazione! 
Parlare con lui è stato un vero piacere.


Tirando le somme di questo The Future in Whose Eyes? c'è da dire che gli SikTh sono tornati in grandissima forma. La loro musica sembra nata da una concezione quasi psicotica dove c'è un accavalcarsi di materiale, dove c'è un sacco di pienezza. Infatti la loro concezione di quello che è la dinamica ha un modo molto diverso da quello di tanti altri gruppi. Si svuota e si riempe insieme, perché tutto e tutti sono protagonisti. Quando si gioca con queste caratteristica è molto più difficile avere il controllo assoluto di quello che si fa ma questo disco non esce mai dai bordi dando lezione di come si costruisce un'opera maestosa ma umile allo stesso tempo. 

Voto 8,5/10
SikTh - The Future in Whose Eyes?
Millennium Night
Uscita 02.06.2017

lunedì 29 maggio 2017

Atrexial - Souverain: la tua propria oscurità

(Recensione di Souverain degli Atrexial)


Qual è la consistenza dell'oscurità? O ancora prima: cos'è l'oscurità? Oltre alla definizione fisica di assenza della luce possono esserci un'infinità di risposte collegate alle interpretazioni di ognuno, è da lì che si possa andar a parare in quella consistenza, in quella'immagine che ognuno custodisce dentro di quello che ingloba il concetto di oscurità. 
Anche la musica se ne occupa tanto ma pure in questo campo la risposta non va in una sola via. Dischi oscuri ce ne sono tanti ma ognuno ha le proprie motivazioni per essere considerato un tipo di disco del genere. Sicuramente quello che aduna tutti quanti è che sono dischi che affrontano la peggior parte di noi, quella che cerchiamo di sotterrare a tutti i costi.

Il disco col quale si presentano al grande pubblico gli spagnoli Atrexial è un disco decisamente oscuro. Ma dentro a quella massa buia dal nome Souverain ci sono delle sfumature, come se l'invito fosse quello di addentrarci lì dove non vorremmo mai essere, rimanere fermi per po' per poi far vedere ai nostri occhi che non tutta l'oscurità è simile e che il nero ha molte sfumature. Per quello questo è un disco che è molto ben strutturato, pensato nel toccare un vasto insieme di elementi legati al black metal e al blackened death metal. E' un disco che a tratti può sembrare un lavoro di quindici anni fa ma in altri fa capire la sua attualità. E' un disco denso, quasi indigesto ma in altri momenti ci regala ampi respiri e spiragli di freschezza. Insomma, per essere un'opera prima è un disco molto ben fatto e studiato.

Souverain

Vi dicevo che i due mondi musicali che convivono in Souverain sono il black metal e il blackened death metal e bisogna affermare che sono veramente queste le acque navigate dagli Atrexial, pronti a rimanere molto fedeli alle formule che ci sono dietro a questi due generi fratelli. Per quello la batteria sembra un treno senza freni, la chitarra si sforza a costruire paesaggi sonori bui ed il basso crea un collante tra entrambi gli strumenti. La voce è quella classica tirata fuori da lavori del generi, pronta a guidarci negli inferi col suo scream. Per quello questo disco riscuoterà l'approvazione di tutti gli amanti di questi generi, perché è una costruzione fedele del principio che si cella dietro a lavori del genere.

Souverain è un disco che permette di capire soprattutto un paio di cose. La prima è che lo stato di salute di black metal e blackened death metal è perfetto perché ogni giorno vengono fuori dei progetti interessanti come gli Atrexial pronti a regalare nuove pregevole opere a questo genere. La seconda è che non bisogna per forza essere scandinavo per suonare bene in questi mondi musicali. Il loro disco è allineato con tante opere che per anni ed anni hanno alimentato un universo di fedelissimi fans, di persone che fanno della propria musica qualcosa in più di un semplice ascolto. Per quello la mossa di questi spagnoli sembra azzeccatissima ed è presumibile che faranno strada. 

Atrexial

Due canzoni che possono darvi un'idea di quello che è questo disco sono:
The Hideous Veil of Innocence. La potenza è pari all'oscurità. Brano molto old school che gira sui binari giusti. Intenso, ben suonato, la porta d'accesso a questo lavoro.
Shadows of the Nephilim. In questo caso siamo di fronte ad una canzone più epica. Per quello è strutturata in modo di passare da diversi momenti, con costanti ritmi in opposizione. Maestosa dentro alla sua oscurità.


Tirando le somme questo Souverain è un disco con una fortissima personalità ben marcata. Gli Atrexial sanno dove andare e cosa fare. Sanno qual è la musica che esprime al meglio le loro intenzioni musicali e la portano avanti senza mai guardare indietro o a fianco. Il bersaglio è ben vista, ed è centrato.

Voto 8/10
Atrexial - Souverain
Godz Ov War Productions
Uscita 30.05.2017

sabato 27 maggio 2017

Post Pulse - Halls of the Damned: stati uniti di scandinavia

(Recensione di Halls of the Damned dei Post Pulse)


Anche se certi generi non possono essere considerati come dei generi autoctoni o folkloristici, perché vengono suonato in più posti diversi, è strano ed interessante vedere come certe correnti geografiche sono riuscite a definire molto chiaramente un certo tipo di musica. Per quello nel mondo del metal si parla molto spesso della scuola scandinava per riconoscere un tipo di sound molto definito, o si parla di metal americano, che ha certe caratteristiche uniche che non ritrova paragoni in altre cose. Sarebbe interessante fare un lavoro antropologico per capire da dove sono saltate fuori queste particolarità.

Ed in contrasto, ma anche a giustificare tutto quello che ho appena detto ci arriva il primo disco dei Post Pulse, intitolato Halls of the Damned. La particolarità di questo disco è che la band che c'è dietro mette insieme musicisti finlandesi e statunitensi, creando a tutti gli effetti un ibrido che non è soltanto geografico ma anche musicale. Per quello il death metal praticato da questo gruppo, che ha molte particolarità tech, non può, ne vuole, essere individuato come metal scandinavo ma neanche come un nuovo esempio di metal americano. Ed è bello che sia così, perché dimostra che il mettere insieme una serie di musicisti deve corrispondere ad una intensione primordiale, cioè quella di un'affinità musicale. C'è anche da dire che, anche se questo è il lavoro di debutto di questa band, i musicisti che stanno dietro non sono assolutamente alle prime armi ma vantano dei lavori di un certo rilievo. 

Halls of the Damned

Dicevo che l'aspetto più interessante è quella dicotomia presente nei Post Pulse, troppo americani per essere scandinavi e troppo finlandesi per essere americani. Per quello la loro musica ha l'attitudine e l'aggressività tipica dei gruppi statunitensi ma allo stesso tempo ha un tocco di quella eleganza stilistica tipica dei gruppi europei. Il loro è un death metal molto moderno, che regala dei passaggi che lo avvicinano al death metal del nord europa in molti modi diversi. C'è una grande intensità strumentale e per quello la loro musica diventa facilmente tech death metal. Per quello c'è da festeggiare il lavoro perfettamente svolto dei tre strumentisti, basso, chitarra e batteria. Tutti quanti sono ad un livello alto ed esprimono pienamente le potenzialità intrinseche. Su quella base musicale aggiungiamoci una voce molto sicura che sa qual è il mondo che attraversa e regala la giusta dimensione per chiudere il cerchio. Infatti Halls of the Damned fa capire che dietro ci sono quattro musicisti che sanno fare il proprio mestiere e che non stanno lì per caso. Per quello anche se si tratta di una prima opera è un disco che trasmette sicurezza e coesione. 

Quanto è importante l'alchimia tra musicisti. Non ha soltanto a che fare con la capacità strumentale o con la qualità ma tocca molto di più tutti gli aspetti caratteriali. Quando ci si è sulla stessa lunghezza d'onda c'è un'intesa silenziosa e una coesione che non necessita di chissà quanta pratica. E' quello che si sente in Halls of the Damned, perché tutti gli strumenti lavorano come devono farlo, riempiendo tutto quello che dev'essere riempito e creando la base perfetta per la voce. E tutto questo non capita mettendo insieme amici di una vita o musicisti che si conoscono alla perfezione. No, sembra che la chiave dei Post Pulse sia quella di avere le idee molto chiare e di sapere dove si deve andare.

Post Pulse

Pesco due brani che illustrano con chiarezza questo confluire di mondi musicali.
Il primo è When the Snakes are Dead. Un brano che parte come sin da subito dimostrando che all'interno di questa band vivono più mondi. Ma piano piano che il brano va avanti le linee di chitarre ci portano in un immaginario molto più europeo. Ed è bellissimo e chiave, perché regala una profondità che altrimenti non sarebbe stata riscontrabile.
Il secondo è No More ed è il brano che più mi è piaciuto, sicuramente perché in certi momenti prende delle pieghe alla Opeth che mi affascinano e che mi piacciono tantissimo. Ancora una volta, dunque, l'ago della bilancia guarda più verso la parte scandinava della band, senza dimenticare la potenza della proposta messa sul piatto.


Il grande pregio di Halls of the Damned può essere anche la sua più grande pecca; è il fatto che questo è un disco di una consistenza così densa e compatta che arriva direttamente senza lasciare respiro a chi lo ascolta. C'è chi ama questi elementi nella musica e chi preferisce invece una maggiore dinamicità, ma in un modo o in un altro è innegabile che i Post Pulse conoscono il proprio mestiere alla perfezione e lo fanno molto bene. Viva l'insieme dei mondi, perché così nascono altri mondi.

Voto 8/10
Post Pulse - Halls of the Damned
Inverse Records
Uscita 26.05.2017

giovedì 25 maggio 2017

Weserbergland - Sehr Kosmisch Ganz Progisch: musica per stare bene

(Recensione di Sehr Kosmisch Ganz Progisch degli Weserbergland)


La musica, come tanti elementi della cultura, ha delle chiare connotazioni storiche. Quando ascoltiamo certi suoni automaticamente la nostra mentre li collega ad un periodo preciso della storia, in modo completamente naturale. E' questo il gioco che fanno molti musicisti, che si avvalgono di queste caratteristiche per "appropriarsi" del passato musicale e storico dandoli una nuova vita. L'importante è che non sia un semplice gioco d'imitazione ma bensì un contributo inteso come un evidenziare le caratteristiche principali di un momento storico o di un genere musicale.

Ultimamente sono gli anni 70 quelli che bussano ripetutamente alla mia porta. Forse è presto, e sbagliato, parlare di un revival ma è indubbio che tanti elementi presenti di quel decennio hanno lasciato una traccia che si protrae negli anni e trovano nuova linfa nel presente musicale. E' quello che succede con Sehr Kosmisch Ganz Progisch, titolo per me impronunciabile, dei norvegesi Weserbergland. Questo disco rappresenta il debutto di questa band, capitanata dal flautista Ketil Vestrum Einarsen, musicista di vastissima esperienza che ha suonato in un sacco di rinomati gruppi progressivi norvegesi oltre ad essere il compositore di svariate colonne sonore di documentari e serie televisive. 
Ma torniamo agli anni 70 e al perché la loro presenza è molto forte in questo lavoro. Questo viene giustificato dalla coesistenza di due genere musicali che hanno vissuto la loro epoca più brillante in quei anni. Mi riferisco al krautrock ed al rock progressivo, due generi che si avvicinano ed allontanano per via dei riferimenti storici e la loro evoluzione. Infatti il krautrock è rimasto abbastanza inchiodato ai suoi origini ed agli elementi che lo definiscono. Per quanto riguarda il prog le sue ramificazioni si sono stesse capricciosamente in tanti ambiti regalandoci ancora oggi delle novità. La cosa interessante, però, di questo Sehr Kosmisch Ganz Progisch è che non sembra, ne vuole sembrare, un disco del passato. E' molto moderno, è pieno di elementi che si uniscono avendo come riferimento principale i due generi ampiamente nominati.

Weserbergland

Infatti se approfondisco quello che si può sentire in questa prima mostra dei Weserbergland viene fuori un disco molto completo composto di "solo" quattro brani strumentali. Dico "solo" perché  la durata di queste composizioni va dai 9 minuti e passa fino ai 16 minuti ed 11 secondi, dunque quello che abbiamo di fronte è un'opera monumentale che si evolve in piena regola prog. Struttura di quel genere, allora, e suoni kraut, per ricreare delle atmosfere cosmiche dove ogni strumento trova pane per i propri denti. C'è spazio per il divertimento di tutti i musicisti che contribuiscono ad erigere questa torre di Babele di suoni. Dicevo prima che la trappola nella quale non bisogna mai finire è quella di pensare che questo disco sia un viaggio indietro nel tempo. Non lo è, e tanti elementi che lo compongono sono cose che sono venute fuori nel tempo. Per quello trovo che ci sono chiari riferimenti ad "evoluzioni" del tema come può essere quel paio di dischi meravigliosi di quel progetto chiamato Gordian Knot nato nella mente di uno dei migliori bassisti dei nostri tempi: Sean Malone. Infatti anche questo Sehr Kosmisch Ganz Progisch si nutre di strati sonori, che appaiono e spariscono come per arte di magia. Quello che differisce tra i due progetti è che i Weserbergland rimangono inchiodati nell'immaginario rock senza mai avvicinarsi a quello metal. 

E' ammirevole la capacità di concepire dei brani come quelli di Sehr Kosmisch Ganz Progisch. Lo è perché i percorsi sonori intrapresi in questo disco sono tutt'altro che scontati. Questo lavoro è come un palazzo progettato da un architetto che predilige l'arte all'utilità, per quello ogni angolo sonoro dei Weserbergland è un angolo da ammirare e da cercar di capire. Non ci sono vie dritte ne scorciatoie, siamo di fronte a percorsi obbligati che hanno una finalità molto ben definita. La musica è la chiave, e se la usiamo ci troviamo dentro ad universi rassicuranti ma sconosciuti. 


Voglio guardare da vicino uno dei brani che compongono questo lavoro lasciando chiaro, in tutti i casi, che questo è un disco d'apprezzare nella sua interezza.
Il brano si chiama Kunst Der Fuge e mette in gioco tutto quello che ho cercato di illustrarvi fino ad adesso. Ci sono tanti strati sonori, ci sono giochi alla Gordian Knot, ci sono provocazioni kraut e quello che viene costruito è un mondo idilliaco degno da un romanzo di fantascienza dove l'uomo conosce mondi di una bellezza incredibile. Bellissimo.

Sehr Kosmisch Ganz Progisch è uno di quei dischi che difficilmente darà fastidio a qualcuno, perché è molto ben suonato, perché non è invasivo ma nello stesso tempo riesce a mettere l'ascoltatore in uno stato d'animo positivo, cosmico e felice. La musica non è un insieme di ghetti ma dei sentimenti che si traducono in suoni e ritmi e quello dei Weserbergland è un bellissimo sentimento. Un disco che ti fa sorridere senza essere mai sciocco. 

Voto 8,5/10
Weserbergland -Sehr Kosmisch Ganz Progisch 
Apollon Records


mercoledì 24 maggio 2017

Heavy Temple - Chassit: dentro alle spirali stroboschipe

(Recensione di Chassit dei Heavy Temple)


La cosa bella della musica, soprattutto quella moderna, è che non ha limiti all'ora di mettere in piedi delle formazioni. E' un'usanza sempre più tipica adattare la quantità dei componenti alle necessità interpretative. E' così che ritroviamo delle one-man band dove un solo musicista virtuoso riesce a riempire tutte le esigenze sonore ed altri gruppi che potrebbero tranquillamente essere chiamati delle orchestre moderne. Ma come tutte le cose importanti, quest'ondata di nuovi formati non ha spazzato via altre formazioni classiche che resistono stoicamente e non suonano mai superate. Una su tutte: i power trio. In un certo modo è la formazione che apporta l'equilibrio perfetto e l'essenza della musica, una potenza di tre teste che ragionano come una sola.

I Heavy Temple sono un perfetto esempio di power trio. Questa band statunitense riesce a buttare giù tutta l'energia dei suoi tre componenti, che si nascondono dietro a lunghi nomi artistici, creando un impattante muro sonoro pieno di potenza, di trip psichedelici, di divertimento. Chassit è l'ultima dimostrazione di questo trio ed è l'EP del quale mi occupo, piacevolmente, quest'oggi. In quattro tracce ci arriva un'unità d'intenzioni veramente interessante, un lavoro che mette insieme le singolari personalità di ciascun componente della band in una creatura unica, che si muove, respira ed interagisce facendo uno sforzo corale riuscitissimo. Pause e parti suonate si susseguono con una fresca naturalità piena di complicità. Sembra che la band sappia quando caricare, quando lasciare respiro, quando esaltarsi e quando ricreare un mondo lisergico.

Chassit

Come tutto power trio che si rispetti l'intreccio dei tre strumenti che compongono i Heavy Temple è fondamentale. Bisogna spendere qualche parolina in più per il lavoro del basso, vero collante di tutti i brani. Infatti se siete tra quelle persone che amano sentire il basso pieno di personalità, e non un semplice strumento che rimarca le toniche degli accordi suonati dalla chitarra, questo Chassit fa al vostro caso. E come generalmente capita nella musica, se il basso cavalca allora tutti cavalcano. Queste onde che si muovono sinuose incontrandosi e dividendosi sono alla base del bell'impatto sonoro della band. Chitarra e basso sembrano scambiarsi ruoli per poi unificarsi per poi prendere strade separate. Sotto a tutto ciò c'è la batteria che sorregge perfettamente tutto il resto, disposta a far crescere tutto quanto ma anche a mantenere un certo controllo su quello che si fa. 
A livello di suono questo è un disco che suona molto anni 70, prendendo la parte psichedelica della musica della band. Grazie a ciò il doom, di chiara matrice protodoom, non è oppressivo ed oscuro ma diventa cosmico e lisergico, quasi sciamanico. Per quello i brani si sviluppano in lunghi minuti dove la voce entra ed esce a guidarci tra queste spirali stroboscopiche. 

Chassit

Secondo me ci sono certi generi che sono molto divertenti da suonare. Non ha a che fare con i gusti musicali, è proprio qualcosa legato all'energia che si genera e si sprigiona suonando proprio quei generi. Beh, quello che fanno i Heavy Temple è uno di quei generi. Questo Chassit è divertente non solo da ascoltare ma soprattutto da suonare. Si capisce che in questa band ci sono tanti sguardi complici che bastano per "muovere" a volontà la direzione che deve intraprendere ogni brano. Per me questo è sinonimo di un disco ben riuscito.

Heavy Temple

Questo EP è composto di quattro canzoni, per quello pesco una sola da approfondire. 
Si tratta di Pink Glass, terza traccia del disco e quella più lunga (8 minuti e 42 secondi). Qui sono presenti tutti gli elementi che vi ho descritto fino ad adesso. Una perfetta coordinazione tra gli strumenti, una voce che ci ricorda tanti voci degli anni 70, una dinamica ampissima che ci regala schiaffi di energia musicali ed ampi respiri ossessivi. Si passa da un estremo all'altro come se nulla fosse, come se dall'esaltazione estrema si cadesse nell'introspezione totale, cercando qualche spiraglio per risorgere. Bellissima, intensa e molto divertente. 



Chassit ha molta sicurezza. E' un EP contundente dove si scivola tra diversi stati d'animo con la stessa facilità con la quale un bicchiere in più fa la differenza tra l'estasi e la devastazione. Questo è un disco festoso, ma appartiene a quelle feste mitiche, che ci rimangono impresse per tutta la vita. Io prenoto i Heavy Temple per la mia prossima celebrazione, e voi?

Voto 8,5/10
Heavy Temple - Chassit
Ván Records
Uscita 26.05.2017

lunedì 22 maggio 2017

Below the Sun - Alien World: oceanico ed affascinante

(Recensione di Alien World dei Below the Sun)


Per scrivere dei romanzi di fantascienza bisogna avere un'immaginazione molto acuta, un background scientifico non indifferente ed una grande capacità di prospettiva. Sicuramente certe opere di quel genere sono delle provocazioni di quello che potrebbe arrivare a vivere l'umanità, ma in altri casi, soprattutto se guardiamo indietro alle opere classiche, possiamo riscontrare che molte cose raccontate sono state vere, con piccoli cambiamenti ma sono sempre delle cose che si sono verificate.

Alien World, secondo album dei siberiani Below the Sun, ha un compito molto arduo, quello di trasformare in musica un classico moderno della fantascienza come Solaris di Stanislaw Lem. Proprio come questo romanzo anche questo disco è costruito su diversi strati che mettono insieme la parte più narrativa e quella emotiva. Alien World non è soltanto un racconto di qualcosa d'inesistente, è anche un affrontare delle questioni fondamentali come la morte degli esseri che amiamo e la possibilità di riportarli in vita anche se la loro natura non è esattamente la stessa di quando erano vivi. Per quello questo disco è un disco di introspezione ma anche di meraviglia di fronte a questi nuovi orizzonti, lasciando sempre però uno spiraglio di orrore di fronte a quello che significa sapere che la persona che hai di fronte non è più un essere umano ma qualcos'altro. 
Tutto quello che ha di particolare questo racconto si traduce nelle atmosfere rarefatte che sono alla base di tanti aspetti strumentali di questo disco. Attraverso tutte le note suonate si è di fronte ad un mondo sconosciuto, meraviglioso ma inquietante, qualcosa che sfugge alla nostra conoscenza e che non si sa come dominare. Così è la musica dei Below the Sun, maestosa, decisa ma significativamente misteriosa ed oscura.

Alien World

Sono quattro i componenti della band russa e la loro maestria sta nel riuscir a ricreare una serie di suoni partendo dal formato tipico di una band metal, cioè avendo a disposizione due chitarre, due voci, un basso ed una batteria. Non c'è l'ausilio di alcun strumento elettronico e non si sente la mancanza, anzi, la capacità che hanno i Below the Sun di costruire questi strati musicali "alieni" è ancora più interessante perché viene fuori dalla capacità interpretativa della band che conosce perfettamente le sue risorse e le utilizza al meglio. Come genere musicale questo disco potrebbe situarsi prevalentemente tra quello che viene chiamato il progressive doom ed il post metal. Personalmente lo ritrovo molto di più in questo secondo genere ma le aperture musicali presenti in Alien World sono tante e molto interessanti. Il contrasto tra le voci pulite e growl viene assecondato dalla parte strumentale, ricordando quello che veniva fatto dagli Opeth di dieci anni fa e strizzando l'occhio, in modo sorprendente, a band alternative metal come i A Perfect Circle o i Deftones. Queste sono certe sfumature ma l'osso duro di questo disco gioca con oscure sonorità post metal degne dai migliori Cult of Luna o dai compianti Isis. Aggiungiamo a tutto ciò quella capacità cosmica dei propri brani che denota una lontana presenza della musica di mostri sacri come i Pink Floyd e la costruzione di ampi paesaggi sonori in linea con quello che si fa nell'atmospheric metal e il quadro diventa abbastanza completo. Ma quello che sorprende in questo ampio insieme di influenze è che il discorso dei Below the Sun è assolutamente maturo e coerente. Non ci sono forzature o stonature. E' il classico disco che potrebbe assomigliare in parte a tante cose ma finisce per essere unico. Ed è prezioso.

In Alien World la musica diventa sostanza, e come tale ha delle caratteristiche uniche. Reagisce in modi insospettati a certi impulsi, sorprende per la sua consapevolezza di sapere cosa ha in mente la persona che sta di fronte e ci meraviglia nelle sue evoluzioni. La costruzione musicale degli Below the Sun è sorprendente perché ci emoziona, ci cattura, ci porta dove vuole e non c'è modo di rinunciarci, e non c'è neanche bisogno. Ci si ritrova ad essere di fronte allo sconosciuto, e anche se c'è molto timore la curiosità e lo stupore di quello che si vede hanno la meglio. E' un mondo nuovo e forse le paure più grandi sono quelle che abbiamo dentro di noi. Rinunciando ad esse potremmo allora essere veramente liberi e consapevoli. 

Below the Sun

Pesco due canzoni ma come capita con i dischi belli c'è da dire che è un esercizio riduttivo e tutto il disco merita un attento ascolto.
La prima è la traccia d'apertura del disco e si chiama Blind Ocean. E' un approdo verso qualcosa di meraviglioso e sconosciuto. L'insieme di sensazioni che ci passano per la mente si traducono in costanti cambi di parti, giocando con la dinamica, con il respiro introverso e l'esaltazione che ci da la paura. Come qualsiasi evento importante la traccia di quello che vediamo si tramuta per forza anche nella nostra esplorazione interna, perché anche noi stessi siamo abbastanza sconosciuti per noi stessi.
La seconda è Black Wave. Musicalmente è forse il brano che più si discosta dal resto del lavoro. Qua prendiamo, a tratti, delle strade più alternative facendo capire la ricchezza musicale della band, sempre aperta a mettere dentro quello che può essere utile per raccontare al meglio il loro scopo. Brano bellissimo che funziona perfettamente. Un po' Opeth, un po' Deftones, un po' Cult of Luna.


Alien World è un disco che mi ha entusiasmato sin dal primo ascolto. Forse perché il suo linguaggio musicale gira intorno a una serie di gruppi e generi che mi affascinano ma soprattutto per la sua concretezza. I Below the Sun costruiscono senza dubbio uno dei migliori album di questo 2017, un album che merita un vasto pubblico perché ripagherà qualsiasi aspettativa. Un oceano di suoni che disegnano strane figure affascinanti. 

Voto 9/10
Below the Sun - Alien World
Temple of Torturous
Uscita 26.05.2017

domenica 21 maggio 2017

Danzig - Black Laden Crown: il tempo fa guardare indietro

(Recensione di Black Laden Crown dei Danzig)


Uno degli elementi più caratteristici del mondo del rock e dell'heavy metal è la personalità dei suoi protagonisti. Praticamente ogni grande star che si ricordi ha un modo di mettersi di fronte al mondo che è unico ed inimitabile. Bisogna per forza creare controversia e dibattiti, perché fa parte del gioco. Chi fa questo genere di musica non ha peli sulla lingua ed è molto intelligente, abbracciando così delle linee di pensiero sicuramente molto lontane da quelle "normali" ma con una serie di giustificazioni che lo fanno diventare inattaccabile. Per quello oltre ad amare la musica si finisce per amare i personaggi. 

Black Laden Crown

Glenn Danzig è sempre stato imponente. La prima immagine che ho di lui è quella del video dal vivo di Mother. Quella mole di uomo che intimidisce tutti quanti con la sua presenza dove, senza dover fare alcun gesto clamoroso, monopolizza l'attenzione. Non ha bisogno di quasi nulla per farlo, vederlo è vedere un personaggio che ha una sicurezza impressionante, un qualcuno che sa cosa fa e perché lo fa. 
Riconosco che avevo perso un po' le tracce del buon Danzig e per quello l'uscita di questo Black Laden Crown mi sembrava la volta buona di capire cosa avesse combinato in questi ultimi anni e che linee stesse seguendo. Il risultato è molto particolare, perché ascoltando questo disco mi sembra d'aver fatto un salto indietro nel tempo, più o meno fino agli anni di Danzig III: How the Gods Kill. C'è da dire, però, che una traccia del tempo c'è, e che la voce di Glenn denota che sono passati ben 25 anni da quel disco. 

Black Laden Crown

Questa sensazione di ascoltare qualcosa assolutamente in linea col passato di Danzig viene fuori dal suono che impregna questo Black Laden Crown. E' sempre questo heavy metal oscuro ma, in un certo modo, festoso. Molto compatto, senza alcun spiraglio a qualsiasi genere di sorprese. Mai troppo veloce o aggressivo ne mai troppo lento o lagnoso. Sempre pieno di chitarre alla Zakk Wylde, di una base ritmica solida ma mai protagonista. Su tutto questo campeggia la voce di Glenn Danzig che dev'essere per forza il protagonista indiscusso di ogni traccia. Una piccola critica da muovere in quel senso è che la voce è eccessivamente alto con rispetto agli altri strumenti. Indubbiamente si tratta di una scelta ponderata ma lo stacco tra base strumentale e il cantato, per un ascoltatore come me, è eccessivamente distante. Per il resto sembra veramente essere tornati indietro di un quarto di secolo.

Black Laden Crown

Non nascondo che l'ascolto di Black Laden Crown mi ha generato un po' di conflitto. Da una parte mi ha fatto molto piacere ascoltare dei suoni che mi hanno ricondotto indietro nel tempo ma d'altra mi è sembrato forzato sentire che tante cose siano rimaste congelate nella musica di Danzig. E tutto ciò è strano perché in realtà certi suoi lavori avevano fatto capire che c'era una grande apertura e la volontà di distaccarsi da quello che era il suo passato musicale. In questo disco invece sembra che ci sia la volontà di approfondire la linea che lo ha reso celebre nella sua tappa post Misfits, lasciando così spazio ad una serie di conflitti emotivi. In altre parole questo è un disco bello ma che sarebbe stato molto più bello se fosse stato creato tanti anni fa. Al giorno d'oggi sembra un po' decontestualizzato prendendo le sembianze di un esercizio di nostalgia. 

Danzig

Prendo due canzoni da questo lavoro.
La prima è The Witching Hour, brano che ricorda le cose più intime della band, quei brani che giocano con la falsa riga di essere delle ballate quando in realtà non è così. C'è sempre quel velo di nostalgia misto ad una grande oscurità che sono ormai diventati un marchio di fabbrica. 
La seconda è Pull the Sun. E' una canzone che funziona molto bene perché è assolutamente orecchiabile, perché rimane impressa. Infatti non credo che sia un caso averla lasciata per la fine di questo disco. Unica critica, la voce è eccessivamente sopra a tutti gli altri strumenti. Con un missaggio diverso sicuramente avrebbe reso ancora di più.



La domanda che mi sorge ascoltando questo disco e scrivendo queste linee è se questo Black Laden Crown sia un disco scritto e cantato da Glenn Danzig o se invece lo è dal suo personaggio, da quel Danzig diventato un'icona per la sua immagine, per il suo modo di cantare, per le tematiche che ha sempre trattato. E' difficile capire qual è la linea sottile che divide entrambi i mondi e quando si è più da una parte che dall'altra. Per quello questo disco è conflittuale, almeno per uno come me. A tratti mi ha soddisfatto molto, a tratti mi è sembrato una forzatura. Sarà che la nostalgia del passato ha anche attaccato Danzig.

Voto 7,5/10
Danzig - Black Laden Crown 
AFM Records
Uscita 26.05.2017

lunedì 15 maggio 2017

Red Moon Architect - Return of the Black Butterflies: desolazione ed illusione danzano insieme

(Recensione di Return of the Black Butterflies dei Red Moon Architect)


Senza avere le credenziali scientifiche per dire quello che segue esprimo il mio parare, maturato nei diversi anni da assiduo ed attivo ascoltatore di metal. Credo che tutt'ora ci sono tanti stereotipi rivolti verso chi fa di questo genere di musica la sua linfa naturale. Si pensa che chi ascolta metal è depresso, associale, pericoloso. Anche se generalizzare in un modo o l'altro non fa mai bene sarebbe buono mettere a tacere quelle voci di una volta per tutte. Generalmente chi ascolta metal ha una grande sensibilità che lo porta a guardare il mondo con uno sguardo assolutamente diverso da quello della maggioranza della gente. Si ama la natura disprezzando i danni degli uomini, incapace di trovare una vera armonia ma imponendo le sue superficiali abitudini. Generalmente chi fa metal ha un certo grado d'intelligenza che lo porta a trovare ispirazione nella letteratura, nell'arte, nella storia. Non è un gioco e basta, ma è riversare nella propria musica quello che si sente e si pensa guardando il triste mondo che sembra affondare sempre di più. Non è essere depressi, è essere realistici.

La musica dei Red Moon Architect potrebbe sembrare straziante e deprimente come accade generalmente con i gruppi che fanno doom metal. Canzoni di ritmiche lente che si trascinano su pesanti riff di chitarra sui i quali la voce maschile urla le proprie penurie. Potrebbe sembrare così questo Return of the Black Butterflies ma c'è qualcosa che ci distoglie da quel pozzo di sconforto e tristezza. E' il contrasto tra tutto quello che vi ho appena descritto e la voce femminile. Come se al buio estremo ce sembra essere la unica direzione possibile della musica della band venisse aggiunto qualcosa di fiabesco, un lume che illumina con colori spettrali. Ma come dichiarano gli stessi membri della band, tutto quello che accade a livello musicale è solo una creazione artistica e non il riflesso di quello che loro sono nella vita. Per quello questo disco va preso come un'opera onirica, che racconta di mondi inesistenti dove s'intreccia l'essenza della tristezza e della desolazione con l'utopia. Come se fossimo sopravvissuti buttati in mezzo ad un deserto di ghiaccio ed un'immagine idealizzata della personificazione della felicità ci portasse ad aumentare i nostri sforzi di sopravvivenza. Contrasti di amplificano la magnificenza perseguita dalla band.

Return of the Black Butterflies

Return of the Black Butterflies ci riporta indietro ai tempi d'oro del doom metal dove la novità di questo genere così straziante, come non si era mai sentito prima, ci misse in primo piano delle band come My Dying Bride, Katatonia o Anathema per fare solo qualche nome. Anzi, di tutte e tre queste band sicuramente e con la prima che si crea un legame maggiore con la musica dei Red Moon Architect. La differenza con quei lavori e che l'aggiunta della voce femminile toglie un po' quel nero di marte che omogenizza tutto dando piccoli impulsi si luce. E' per quello che il genere realizzato dalla band prende il nome di melodic doom metal. Fondamentale, oltre al contrasto di voci e del loro utilizzo è la presenza delle tastiere, capaci di disegnare dei paesaggi sonori piacevolissimi e molto effettivi. Il loro lavoro è molto mirato, fanno quello che devono le modo giusto, senza dover aggiungere o togliere qualsiasi cosa. Per il resto gli elementi corrispondono perfettamente a quelli del doom metal, vale a dire una predilezione di ritmiche lente trascinate, l'utilizzo di frequenze basse ed una grande compattezza sonora.

La capacità di catturare l'attenzione dell'ascoltatore è molto significativa in questo Return of the Black Butterflies. C'è un effetto calamita che porta a voler sapere cosa c'è dopo, come si sviluppa questa storia di ombre, come quando si è attratto da un racconto che non si vorrebbe mai vivere in carne propria ma che affascina lo stesso a chi la segue. Come se quel sopravvissuto esausto si ritrovasse senza altre forze ma segretamente nelle nostre menti urlerebbero "dai, dai! alzati!". Ecco, il lavoro dei Red Moon Architect è così, attrattivo non per la bellezza che c'è dentro ma per la precisa costruzione di un mondo incantato e maledetto.  

Red Moon Architect

Selezione due canzoni d'approfondire.
La prima è Journey. L'introduzione di tastiere ci porta dentro a questo mondo dove il surreale e la tristezza sono equidistanti. C'è molto di epico in questa canzone che è forse una delle più ambientali di questo intero lavoro.
La seconda è End of Days. Se la prima aveva una componente molto epica questa seconda canzone è più introversa e mostra la rassegnazione di sapere che si è arrivato ad un finale e non c'è nulla che possa essere fatto per cambiarlo. Non è uno sguardo rivolto verso al mondo che va in pezzi ma lo è rivolto a noi stessi che sentiamo che tutto sta scomparendo e che anche noi non ci saremo più.


Return of the Black Butterflies è un disco che riporta a galla tutti gli elementi che hanno fatto diventare il doom un genere molto seguito es ascoltato. C'è quella irrinunciabile sensazione di desolazione, quella costruzione di paesaggi aridi a mezzanotte, ma c'è tanto altro ancora. Infatti la capacità dei Red Moon Architect è quella di non rimanere fossilizzati lì ma di dare anche una dimensione più onirica a tutto quello che fanno. Apportando così un contrasto che diventa molto interessante. Le farfalle nere sono affascinanti quanto spaventose.

Voto 8,5/10
Red Moon Architect - Return of the Black Butterflies
Inverse Records
Uscita 19.05.2017