Visualizzazione post con etichetta Ván Records. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Ván Records. Mostra tutti i post

mercoledì 30 gennaio 2019

Our Survival Depends on Us - Melting the Ice in the Hearts of Men: entrino i curiosi e coraggiosi

(Recensione di Melting the Ice in the Hearts of Men degli Our Survival Depends on Us)


Certe volte il mondo sembra un grande tabellone di gioco. Chi è più furbo a interpretare e capire le regole va avanti, spesso usando chi, invece, non riesce a stare al passo. Tutto è una macchina che si muovo instancabile, alla costante ricerca di "regalare" felicità e potere. Tutto è frenetico, tutto è un meccanismo che ti fa alimentare questa partita senza senso, quest'imposizione. O t'inserisci nelle regole della società o sei tagliato fuori. Ci illudono dicendoci che esiste la libertà ma non è così, come bestie in gabbie possiamo muoverci fino a un certo punto ma guai ad avventurarsi oltre. La ribellione ora è l'indignazione degli ignoranti.

Melting the Ice in the Hearts of Men è il quarto album degli austriaci Our Survival Depends on Us. Ed è un mondo fuori dal mondo. E' inutile cercare paragoni, interpretazioni, influenze e punto d'arrivo. Questo disco va vissuto come un'esperienza tanto rara ed unica da lasciare una forte impronta in chi la vive. E' una di quelle situazioni nelle quali non si capisce bene come ci si siano finiti dentro perché assolutamente lontane dalla "normalità" e già soltanto quello le regala il timbro di unico, di mitico, d'irripetibile, di sacro con quella sacralità soggettiva che diventa il tesoro maggiore che ciascuno ha. Questo è un disco trascendentale, pieno di misticismo senza cadere in una dinamica new age da due spicci. Questo è un disco trascinante senza che ne serva forza per spingerci. Nessun obbligo, nessuna porta chiusa, ma una volta che ci si finisce dentro nessuna voglia di uscire.
Perché è così? Perché questo è un lavoro magico. La magia non è necessariamente qualcosa di irreale o di surreale. La magia è quel punto dove facendo le stesse cose che in tanti potrebbero fare si raggiunge un punto dove scattano altre cose senza che ci sia necessariamente una spiegazione logica. E' un canto tibetano in mezzo a una stazione di metropolitana, è una ballerina di musica classica che danza sulle sole note del vento.

Melting the Ice in the Hearts of Men

Per raggiungere questo risultato gli Our Survival Depends on Us sanno che devono catturare, addomesticare, guidare e sorprendere. Questo è quello che succede con questo Melting the Ice in the Hearts of Men. Ci catturano con delle costruzioni melodico armoniche di raffinata bellezza, ci addomesticano usando dei loop che fanno dimenticare tutto il resto, ci guidano verso paesaggi inesplorati e ci sorprendono aprendoci gli occhi. Nulla è scontato, nulla è veramente bello, tutto ha un lato oscuro. 
Musicalmente come ci si riesce? Fregandosene di etichette. Com'è la loro musica? Magica, intensa, psichedelica, colorata, ipnotica. Cioè, fanno pschy metal o pschy rock? No, cioè sì ma non solo. Cos'altro c'è nella loro musica? Un'intenzione, una voglia, una volontà. Un modo di parlare raccontando storie, di utilizzare la musica come metafora, di spiegare con sensazioni quello che con le parole non è mai semplice da spiegare. Per quello sono post rock, doom, psych rock, dark metal. Per quello sembrano camminare affianco al black metal senza mai addentrarci. Per quello sono sciamanici senza voler portare a termine un vero e proprio rito, per quello sono complessi anche quando il loop che suonano sembra di una grande semplicità. 

Voglia di evadere? Voglia di guardare tutto da un'altra prospettiva? Non importa. Tutte le storie più belle parlano di fiumi, ebbene addentratevi nelle acque di questo Melting the Ice in the Hearts of Men e lasciatevi trasportare. Non sarà un percorso semplice ma sarete così tanto concentrati da non poter ne voler uscire. Questa è la magia di questo disco, di quello fatto dagli Our Survival Depends on US, nulla di sovrannaturale ma qualcosa che solo in pochi riescono a fare.

Our Survival Depends on Us

Essendo questo un disco di sole quattro tracce molto lunghe prendo una sola da guardare più da vicino.
Questa è Galhad - "Dissolving the Illusion of all Wordly Things". Ecco, il titolo è già così evocativo di capire di fronte a cosa siamo. Questo è un rito, con una porta d'ingresso che fa la prima cernita su chi deve entrare e chi non deve farlo. Si entra con curiosità e timore riverenziale, si guarda intorno, si cerca di sentirsi al proprio agio anche se tutto quello che si vede è lontano dalla realtà e improvvisamente.... tutto si muove, tutto fluttua, tutto appartiene a una dimensione dove il movimento non risponde alle leggi della fisica che conosciamo e con le quali abbiamo sempre convissuto. Siamo alieni in un mondo non nostro ma così simile da farci dubitare di dove siamo. Ormai è troppo tardi per uscire, ormai è troppo tardi per ribellarsi, ormai siamo dentro e forse, per la prima volta vediamo tutto con gli occhi della verità.


Melting the Ice in the Hearts of Men è una guida, una di quelle che mostrano una strada da percorrere con la forza della curiosità, di spingersi oltre al limite di quello che normalmente conosciamo. Our Survival Depends on Us c'insegnano la strada da percorrere. Adesso dipende soltanto di noi quanto profondamente ci spingeremo e quante cose della nostra vita passata abbandoneremmo, ma più ne lasceremmo e meno pesante sarà l'ancora che c'immobilizza

Voto 9/10
Our Survival Depends on Us - Melting the Ice in the Hearts of Men
Ván Records
Uscita 08.02.2019

mercoledì 14 marzo 2018

Škan - Death Crown: lo spirito e null'altro

(Recensione di Death Crown degli Škan)


La modernità sembra essere una macchina senza freni che mangia tutto quello che c'è intorno omologando quando più possibile tutto quello che viviamo. Ne abbiamo dimostrazione nel modo nel quale le risorse del nostro pianeta sembrano essere utilizzate senza alcun scrupolo, non pensando assolutamente alle future generazioni. Ne abbiamo dimostrazione nella mancanza totale di rispetto, e non solo, verso le popolazioni autoctone di un posto piuttosto di un altro. Non ci interessa per nulla salvaguardare la loro identità, la loro cultura, il loro modo di vivere. Ed è un atteggiamento assolutamente sbagliato perché perdiamo la possibilità di aver a che fare con la loro saggezza.

Škan

Škan non è soltanto il nome della band della quale vi parlo quest'oggi. Škan è una definizione delle loro intenzioni musicali, del loro modo di concepire la musica. Il loro nome viene dagli indiani Sioux e sta a indicare non soltanto l'occhio di riguardo verso questa cultura ma anche l'importanza della spiritualità, a prescinder dell'accostamento religioso che ognuno voglia dare. Partendo da questa premessa diventa molto più semplice entrare in sintonia e capire fino in fondo il loro primo LP, intitolato Death Crown. L'aspetto fondamentale che bisogna sempre tenere in mente è che siamo di fronte a un disco che cerca, in ogni singolo momento, di rendere questa lettura spirituale di un qualcosa che va molto oltre la singola musica. Le note di questo disco permettono di farci capire che le convenzioni sono sempre dei limiti e che l'ignoto non è soltanto una realtà ma molto spesso diventa anche una barriera insuperabile da parte degli essere umani. Per quello questo disco prova a buttare giù le convinzioni affrontando anche delle tematiche un po' più complesse.

Death Crown

Musicalmente non è semplice definire la musica di Death Crown. Sarebbe molto riduttivo parlare di death metal o black metal perché c'è molto di più nelle note di questo disco. C'è un aspetto quasi etnico senza perciò andare incontro a delle sonorità folk o ambient. Oltre a questo se c'è qualcosa che unisce tutto quanto è la voglia di raccontare l'oscurità, di parlare della morte come un aspetto che non sempre ha avuto lo sguardo necessario e che merita di essere studiata, vista e vissuta anche con altre occhi, come veniva fatto da vecchie etnie. Tutto questo grazie a uno spirito che s'impossessa della musica della band da inizio a fine. A contribuire a questa sensazione c'è il gioco sempre presente tra parti elettriche e quelle acustiche, tra i momenti più spinti e decisi e quelli più lenti e riposati. Ma anche dentro a questa dinamicità non ci sono mai dei dubbi su quello che è la linea seguita dalla band. Cioè quest'approccio molto sentito verso questa profondità spirituale, verso questo sguardo che vuole vedere la musica come quello che è: cioè uno strumento per universalizzare dei messaggi, che devono arrivare precisi e sicuri a tutti gli ascoltatori. E' qualcosa che prescinde dalle lingue, dai generi, dai modi nei quali si suona. Arriva e basta e questo è il grande pregio degli Škan, capaci di spiegare al meglio quello che vogliono spiegare con questo disco.

Death Crown

Death Crown è anche un disco validissimo per tenere presente un altro concetto, cioè quello che la formazione mentale e spirituale di ogni essere umano dovrebbe avvenire in piena libertà, avendo la possibilità di percorrere le strade più congrue ad ognuno senza alcuna imposizione. Purtroppo sappiamo che la nostra realtà è assolutamente opposta. Gli Škan riescono a generare tutte queste riflessioni, e questo ha un valore immenso che fa capire la buona riuscita di questo bell'album.

Death Crown

Due brani selezionati per voi.
Father Qayin, che permette molto fedelmente di capire la dimensione intima di questo disco, soprattutto grazie a quei frammenti acustici che parlano di solitudine, di notte fonda, di fuoco in mezzo al bosco. E poi c'è il trucco, la grandezza che prende il brano per portare questa dimensione a ognuno di noi.
For the Love of Death, brano più esteso, chiusura grandiosa di questo lavoro. Uno dei classici brani che piano piano che vanno avanti ti avvolgono e non ti lasciano più. Un brano che diventa uno dei punti più alti di questo lavoro grazie al modo nel quale si sviluppa e ci parla delle intenzioni della band. Monumentale.

Death Crown

Death Crown diventa così un manifesto, un disco che parte dall'intimità per poi situarsi in tutt'altra dimensione. Questo è un viaggio molto personale e molto toccante. E' un modo di far vedere e capire che il mondo è complesso e va capito nella sua intera complessità. Bellissima prova degli Škan che vi invito ad ascoltare in modo disinvolto e aperto.

Voto 8,5/10
Škan - Death Crown
Ván Records
Uscita 13.04.2018

lunedì 5 marzo 2018

Antlers - Beneath.Below.Behold: osservare l'abisso

(Recensione di Beneath.Below.Behold degli Antlers)


Vi siede mai fermati a chiedervi quanto vi sentite rispecchiati dal mondo nel quale vivete? Vi siete mai chiesti quanto sentite di avere in comune con le persone che vi circondano, col governo che è al potere, con la musica che trasmettono in radio e in tv? Questo blog è un blog di resistenza perché è destinato a persone che come me sentono di avere ben poco in comune col mondo "standard". Non si tratta di una falsa presunzione o della voglia di essere elitisti ma è una consapevolezza profonda maturata nel corso degli anni. E per quello la maggioranza dei dischi dei quali vi parlo sono dei dischi per pochi. Dischi che molto spesso sono in contrapposizione con quello che si considera "normale". Dischi che fanno capire che il mondo è molto più complesso, ricco ed intimo di quanto convenga. Dischi, dunque, che hanno una grande intelligenza dietro.

Il secondo disco dei tedeschi Antlers è un disco che già nel suo titolo fa capire che direzione prende. Questo lavoro si chiama Beneath.Below.Behold come se tutto quello che vediamo ha un opposto, un lato oscuro, un elemento che equilibra completamente tutto quanto. E la consapevolezza di tutta quella parte è forse quella che rende più saggio l'essere umano. Per quello questo è un disco che non cerca assolutamente di essere luminoso o speranzoso. Questo è un disco che si nutre di abissi, della profondità della disperazione dell'anima in certi momenti e certe circostanze. Per quello è un disco che scende come una valanga, senza alcuna intenzione di ammorbidire il proprio messaggio, senza alcuna intenzione di passare per quello che non è. Ma la cosa interessante di questo lavoro è che regala un sacco di spunti che permettono di capire che fare un esercizio del genere non è soltanto necessario ma diventa anche qualcosa d'istruttivo.

Beneath.Below.Behold

In certi momenti Beneath.Below.Behold sembra quasi di essere un lavoro eccessivo, dove ci sono troppi elementi messi insieme che non permettono di trovare un respiro ma in altri si verifica proprio il contrario. Sono in queste aperture che la musica degli Antlers raggiunge le quote più alte ed importanti, perché è in quei frangenti che si capisce che è difficile limitare quello che viene suonato a uno o un paio di generi. E' indubbio che si parte da un black metal sporco, che ricorda in parte quello che viene fatto da gruppi come Urfaust ma c'è anche una grande ricerca di quello che è un aspetto più malinconico e melodico, liberando così qual muro sonoro per lasciare spazio a passaggi melodici molto più puliti. Qui è dove diventa difficile classificare questo lavoro, perché qualsiasi aggettivo che posso attribuire rischia di diventare fuorviante e di non riportare a pieno quello che è lo sforzo musicale della band. Per quello può essere più utile definire quello che sono le idee che impulsano la creazione di questi brani piuttosto che il generi dai quali vengono conformati.

Beneath.Below.Behold

Beneath.Below.Behold non è soltanto un disco d'opposizione. Non è soltanto un lavoro che vuole evidenziare tutto quello che può sembrare oscuro ed improprio. E' un lavoro che invita a osservare per capire. Perché non c'è nulla di peggio che temere quello che non si conosce. Non sapiamo spiegare qualcosa, allora la mitizziamo e la temiamo. Il messaggio degli Antlers sembra proprio rivolto a non cadere in questa dinamica sbagliatissima. Non solo, sembra anche voler farci capire che i mostri che temiamo sono molto spesso creati da noi stessi, dalla nostra complessità come esseri viventi.

Antlers

Riscatto in modo particolare due brani di questo lavoro.
Il primo è Theom perché permette di capire quello che vuole fare la band, cioè prendere una strada dove il "molto"  viene messo in contrasto con la possibilità di avere delle parti molto articolate e diverse. Mi spiego meglio. In certi momenti sembra di essere di fronte ad un brano sovraccarico, dove la parte ritmica spesso copre tutto il resto, ma andando ad ascoltare con cura viene fuori che quell'intrecciarsi di queste diverse linee creano un mondo sonoro complesso ma molto interessante allo stesso tempo.
Il secondo è Metempsychosis. Qui abbiamo una maggiore dinamicità, con giri che si susseguono diversamente, lasciando anche spazio a ritornelli più corali, a più voci. Mentre il primo brano che ho indicato sembra essere più "moderno" questo qua dà l'impressione di essere più classico.

Beneath.Below.Behold è uno di quei dischi che sembrano trovarsi così dentro a certi mondi sommersi da non essere sempre facilmente ascoltabili. Ma quando vengono presi col giusto spirito ed impegno lasciano degli spunti assolutamente interessanti. Una lotta non facile per gli Antlers ma per chi arriverà alla comprensione estesa di questo lavoro ci saranno nuovi confini molto più lontani da quelli preesistenti.

Voto 8/10
Antlers - Beneath.Below.Behold 
Totenmusik/Ván Records
Uscita 06.04.2018

domenica 4 marzo 2018

Hemelbestormer - A Ring of Blue Light: otto bilioni di stelle in una stanza

(Recensione di A Ring of Blue Light dei Hemelbestormer)


C'è musica che sa di vento. Di quel vento fresco, quasi gelido, che rianima tutto. Quel vento che pulisce, che spazza via tutto quello che vuole radicarsi quasi come se fosse un parassito. C'è musica che ha quel potere. E' facile, basta poco, non importa il momento o il luogo, basta lasciar andare la musica e le conseguenze, positive, vengono subito a galla. Ci si sente rinati, ci si sente figli di un momento nuovo che riesce ad illuminare nuovi angoli dentro di noi, angoli che magari c'eravamo dimenticati, figli dei fatti, fatti che ci limitano terribilmente. La musica è un soffio deciso, potente, sempre pronto a ridarci una nuova energia, a dare senso a quello che molto spesso non ha molto senso. Per quello scrivo e scrivo, per quello ascolto e ascolto, con la speranza che quello che mi colpisce colpisca anche molti di voi.

Nell'oceano di nuove proposte che nascono di giorno in giorno è facile perdersi e non ritrovare nuovi stimoli. E' facile imbattersi in progetti che sembrano troppo simili ad altri, sensazioni musicali che non sono del tutto nuove. Per quello quando capita tra le mani un lavoro come A Ring of Blue Light non solo bisogna essere felice di aver trovato la possibilità di ascoltare un disco come questo ma bisogna esaltare tutte le caratteristiche che creano la possibilità di vivere dei momenti preziosi ascoltando un disco ermeticamente prezioso. Questo è il secondo lavoro degli olandesi Hemelbestormer e la sua capacità d'affascinare l'ascoltatore, come ha affascinato me, è dovuta alla perfetta riuscita dello scopo della band, cioè quello di mettere insieme tutta una serie di generi al servizio di un'idea: quella di ricreare atmosfere intense, bellissime e ricercate. Se c'è un disco che, ultimamente, diventa un soffio di aria pulita questo disco lo è. Questo è dovuto alla capacità di costruire queste complesse architetture naturali con un bagaglio musicale molto variegato. Anzi, c'è da dire che mentre tanti gruppi riescono effettivamente a "contaminare" il proprio genere di riferimento con altri generi faccio fatica a individuare qualche altra band che riesca a mettere in azione tutta la serie di generi che fanno parte di questo lavoro dando nascita a qualcosa di assolutamente coerente e rilevante. 

A Ring of Blue Light

Ma quali sono questi generi che confluiscono in A Ring of Blue Light? Anzi tutto dobbiamo prendere in considerazione che questo è un disco strumentale e quest'indicazione ci serve già a capire che lo sforzo fatto dai Hemelbestormer è quello di "disegnare" senza l'ausilio delle parole. Ma la cosa essenziale che da forza a questo lavoro è che non c'è mai un'unica direzione percorsa. Per quello l'inizio sludge e post metal che si apprezza nella prima traccia di questo LP viene subito rimpiazzata da un post rock in piena regola, che poi lascia spiragli per la drone music, il doom o certe caratteristiche ambient. Tutto con la forza emotiva di quello che si cerca di raccontare, senza forzature, senza limiti, senza imposizioni che porterebbero a costruire un disco più statico. Questo è un lavoro in costante movimento, un disco che cerca d'immaginare quello che succede nel cosmo, dentro ai fenomeni che solo possiamo osservare da lontano e la cosa bella è che sembra veramente che quello che può succedere è veramente in linea con la musica proposta dalla band. Per quello oltre alla strumentazione classica del rock o metal, due chitarre-basso-batteria, la band chiama sapientemente in soccorso il lavoro molto ben mirato della parte elettronica, grazie agli interventi dei synth e dei samples. Ecco una costruzione architettonica, molto curata perché tutto quello che si suona è un riflesso di quello che è la natura e la sua perfezione complessa.

A Ring of Blue Light

A Ring of Blue Light è anche un invito ad addentrarsi nell'ignoto di quello che c'è, che esiste ma che l'uomo ancora non è riuscito a spiegare o a capire fino in fondo. La musica dei Hemelbestormer può essere considerata fantascientifica ma di quel genere di fantascienza lungimirante e chiaroveggente. Ed è quella la chiave di lettura di questo disco. Tutto gira intorno a delle tesi sonore fantastiche, emozionanti, impressionanti che fanno credere che è reale tutto quello che si ascolta, che è reale il fatto di essere prelevati dalla nostra realtà per essere portati su dei mondi nei quali non avremmo mai immaginato d'arrivare.

Hemelbestormer

Questo è un disco che ha un altro elemento molto interessante, ed è che la durata dei brani varia secondo quello che è il concetto che si cerca di raccontare. Per quello ci sono dei brani lunghissimi, tra gli undici e i quattordici minuti, e altri molto più bevi, che superano a stento i tre minuti. Naturalmente spiegare certe cose diventa molto più semplice che spiegarne altre. Io vi lascio la mia "lettura" di due dei brani di questo lavoro.
Redshift, un brano emozionante, intenso, costruito alla perfezione per raccontare. Un brano che ricorda quello che viene fatto dagli islandesi GlerAkur con quella capacità d'immergere l'ascoltatore in un racconto epico, nella definizione di un fenomeno astrofisico che ha molte più letture di quelle "semplici" di ordine scientifico. E' un brano che esplode quando deve esplodere lasciando l'ascoltatore immerso nel suo incantesimo. Prezioso.
E mentre il brano appena descritto è lungo, complesso ed oscuro quest'altro sembra essere l'opposto. Blue Light è ottimista, è "solare" ed è diretto. Non bisogna spiegare tutto quello che c'è da spiegare nell'altro brano, qua basta la semplicità di un raggio di luce che illumina il buio dando speranza. Ecco, la coesistenza di brani così diversi è un altro aspetto che fa crescere esponenzialmente questo lavoro.


A Ring of Blue Light è uno di quei dischi che può essere definito come un'esperienza sonora. Non si tratta di un semplice album che racconta qualcosa che è stato già raccontato da mille altre voci in precedenza. Questo lavoro dei Hemelbestormer ha la forza di essere una voce assolutamente nuova, di compensare le carenze di un genere mettendo in atto altri generi e di finire per far sognare l'ascoltatore, e un regalo come questo è già tanto, tantissimo.

Voto 9/10
Hemelbestormer - A Ring of Blue Light
Ván Records
Uscita 02.03.2018

giovedì 24 agosto 2017

Caronte - Yoni: Thelema fatta musica

(Recensione di Yoni dei Caronte)


Un aspetto abbastanza interessante dentro della musica è quello della consapevolezza. Sicuramente è un fattore che appartiene alla vita un genere ma nella musica è molto interessante che qualcuno senta di essere giunto ad un certo punto. Questo perché, quando si arriva a quel punto, si ha la sensazione di aver fatto qualcosa che difficilmente sarebbe andata meglio. Un po' come se il collegamento tra la creatività ed il risultato finale fosse un ponte dritto che funziona alla perfezione. Arrivarci non è semplice, ma se ci riesce è una bellezza.

Il terzo album dei nostrani Caronte viene a chiudere un ciclo che raggruppa i primi sette anni di vita della band. L'album in questione si chiama Yoni ed è la terza parte di una trilogia dedicata alla Thelema, filosofia inventata da uno dei personaggi più complessi ed interessanti del secolo scorso: Aleister Crowley. Infatti questo disco riesce a ricreare attraverso la sua musica quello che è l'immaginario legato a questa figura. Non soltanto, le scelte musicali della band spesso ci riportano indietro nel tempo, creando un ulteriore collegamento con l'immagine che da sempre è esistita della parte thelemica nella musica. Questo potrebbe perfettamente essere un disco uscito 40 anni fa, quando il doom iniziava ad avere delle caratteristiche molto specifiche che rispondevano non soltanto ad un certo genere di struttura musicale ma anche al modo di raccontare certe tematiche. Per quello c'è del mistero in questo disco. Per quello c'è anche una grande dose di oscurità, ma un oscurità particolare, mai eccessiva. Infatti questo non è un lavoro che celebra certe cose ma piuttosto ci gioca intorno. Come se volesse attrarre e scandalizzare allo stesso tempo. E ci riesce, perché le solite persone di mentalità chiusa e tradizionalista urleranno alla blasfema, invece chi avrà una mentalità più aperta proverà ad avvicinarsi ad un mondo che è sempre rimasto come molto marginale, quando invece, se si facesse un analisi accurato, ci sono degli insegnamenti molto validi che vanno aldilà di qualsiasi pensiero religioso.

Yoni

Il grande vantaggio che i Caronte riscontrano nella loro musica è il fatto di essere legati a delle immagini molto chiare, immagini che si tramutano in un mondo, musicale e filosofico, dove il doom passa ad essere qualcosa in più che un "semplice" genere musicale. Per quello i fans di queste sonorità troveranno che Yoni è un disco perfetto. Un lavoro che racchiude l'essenza stessa del doom, di quel modo di vivere e di essere. Infatti questo disco è costruito con una grandissima personalità, con la voglia di dimostrare che le storie che vengono raccontate prendono un colore molto particolare e non lo abbandonano mai. Questo lavoro è una specie di "full immersion" in un mondo alternativo, spesso guardato male dalle menti più conservatrici. Per quello funziona molto bene, perché, in un certo modo, è un lavoro puro. Non necessita di virtuosismo o di contaminazioni, viene fatto con un'intenzione chiara ed è quella che viene raggiunta. 

Yoni

Mi è capitato di ascoltare questo disco in diversi momenti divisi da diversi giorni. Questo, senz'altro, dovrebbe essere un esercizio da fare con qualsiasi disco, ma in questo caso mi sono ritrovato ad essere sempre più immerso dentro all'idea che viene sviluppata dentro a Yoni. Questo non può essere che un segnale di una buonissima riuscita e si capisce perché gli stessi Caronte parlano di essere stati in grado di chiudere al meglio questa trilogia che ingloba i loro primi sette anni di vita. E questa è una sensazione che viene fuori andando aldilà dei singoli gusti musicali, perché quando si utilizza un ascolto critico è impossibile non denotare le virtù di questo disco.

Caronte

Pesco due canzoni da sottoporvi ad una maggiore attenzione. 
La prima è la prima traccia Abraxas. Il collegamento con un passato musicale è praticamente immediato. Diventa molto chiaro che la band non ha alcuna intenzione di "mascherare" il proprio messaggio, ma che, al contrario, vuole che entri prepotentemente nella testa di ogni ascoltatore. Per quello i riff di chitarra sono semplici e contundenti, perché vogliono essere un martello che non si ferma mai. 
Il secondo brano da segnalarvi è The Moonchild. Bisogna dire che le linee generali che riguardano la parte musicale sono costanti in tutto il disco, per quello non bisogna aspettarsi stravolgimenti con rispetto alle altre tracce. Ma in questo brano, in particolare, è molto interessante il dialogo che si forma tra la voce principale e il coro. C'è qualcosa di sacro e blasfemo nello stesso tempo, oltre a restituirci l'idea di un coro che verrà urlato dagli spettatori di un eventuale concerto della band.

Yoni è trasparente dentro alla sua atmosfera misteriosa. Yoni è un disco che non regala tante possibilità di letture diverse, perché ha le idee molto chiare e ci arriva con una semplicità che è tutto tranne che "semplice". Perché i Caronte riescono a buttare nelle sette tracce di questo disco tutto quello che hanno in mente senza perdere mai il loro nord. O sarebbe meglio dire il loro sud del cielo?

Voto 8/10
Caronte - Yoni
Ván Records
Uscita 25.08.2017

Pagina Facebook Caronte

lunedì 3 luglio 2017

DeRais - Of Angel's Seed and Devil's Harvest: mistero ed oscurità

(Recensione di Of Angel's Seed and Devil's Harvest dei DeRais)


Qualche altra volta ho parlato della funzionalità del mistero dentro della musica. Dell'importanza che può avere il riuscir a mantenere abbastanza nascosta l'identità di un gruppo di musicisti, di far girare delle voci che fanno presupporre certe cose senza mai avere conferme o smentite. E nel giorno d'oggi risulta sempre più difficile fare qualcosa del genere. Ormai basta inserire su un motore di ricerca un qualsiasi nome per ritrovarsi una valanga d'informazioni più o meno utili. Per quello riuscir a mantenere qualcosa al buio della maggioranza delle persone ormai è una interessante eccezione. 

Del gruppo del quale vi parlo quest'oggi si sa ben poco. Anzi tutto vi dirò cosa ne so io. So che vengono dalla Germania, so che hanno una pagina su Bancamp e basta. Non ho trovato alcun'altra informazione su di loro su internet, né sulla pagina della loro casa discografica, la Ván Records, né attraverso la rete in genere. Tanto che mi sono anche imbattuto su un forum dove un utente chiedeva informazioni sulla band senza essere riuscito ad ottenere alcuna. La band si chiama DeRais e presumo che abbiamo preso il proprio nome dalla figura di Gilles de Rais, nobile francese del quindicesimo secolo accusato di essere un assassino seriale e di praticare l'alchimia e la stregoneria, essendo condannato alla morte per impiccagione e posteriore rogo. Il loro disco di debutto ha il titolo di Of Angel's Seed and Devil's Harvest, titolo che può illustrare ulteriormente l'immaginario che hanno scelto. Non ci sono ulteriori informazioni, non si sa chi suona in questo progetto, non si sa dov'è stato registrato o altro. Anzi, se non fosse per Bandcamp non saprei neanche la data d'uscita di questo primo lavoro. E qui abbiamo un ulteriore mistero, perché questo disco mi è arrivato digitalmente soltanto la settimana scorsa quando in realtà la sua pubblicazione è già di un paio di mesi fa.

Of Angel's Seed and Devil's Harvest


Ma spazziamo via il mistero per addentrarci dentro a quello che si trova in questo Of Angel's Seed and Devil's Harvest. Questo è un disco validissimo che ci regala quattro tracce che si dividono in una di apertura ed una di chiusura di durata che va dai tre minuti fino ai quattro e quaranta. In mezzo, invece, troviamo due canzoni lunghissime che vanno dai sedici fino ad oltre i venti minuti. Musicalmente parliamo di un disco di doom con certe incursioni nel dark metal e, in misura molto più limitata, piccole sfumature di dark ambient. In realtà c'è un'altra informazione che viene semi svelata, ed è il fatto che la fotografia promozionale del gruppo, che potete vedere sopra a questo paragrafo, ci presente tre componenti della band, informazione che ci porta a pensare che musicalmente abbiamo un trio basso-chitarra-batteria. Niente voci ma la sovrapposizione di registrazioni audio regala una dimensione cinematografica molto interessante, quasi come se si trattassi di una specie di post rock dannatamente oscuro. Insomma, questo dei DeRais è un lavoro molto sentito, emotivo ed oscuro. E' uno di quei dischi che ti catturano e ti portano in altre dimensioni, noncuranti della realtà che ciascuno sta vivendo.

Of Angel's Seed and Devil's Harvest è un disco che va dritto dove vuole, che catapulta l'ascoltatore in quella dimensione oscura che la band desidera ricreare. E', curiosamente, uno dei dischi più oscuri di questo periodo senza per quello avere bisogno di eccedere in formule che suggeriscano il buio. E' un disco bellissimo nella sua dimensione nascosta, sofferta e viscerale. Ecco, la musica dei DeRais è profondamente viscerale, come se ciascuno dei tre musicisti che compongono la band fossero così addentrati in quell'assenza di luce da porre in ogni tocco dei loro propri strumenti tutta l'oscurità possibile. 

DeRais


Lo sviluppo del disco viene effettuato nelle due tracce centrali ed io voglio approfondirvi una delle due. S'intitola White Night ed è la più lunga del lavoro. In venti minuti è una canzone che sembra non cambiare mai ma che in realtà cambia continuamente. Ci porta a sperimentare questa notte di veglia dove c'è una tensione tale da non permettere di abbandonarsi neanche per qualche secondo al sonno. E' una canzone dove il doom dialoga con quello che mi permetto di definire come dark post rock, cioè delle strutture cicliche che hanno l'ausilio di registrazioni audio e che disegnano mondi cupi.



Non so se sarebbe un bene sapere qualcosa in più dei DeRais, anzi, credo che il loro intento, fino ad adesso perfettamente riuscito, di stare al buio sia un piccolo trionfo, questo perché in questo modo l'ascoltatore non deve perdersi in considerazioni e pregiudizi ma può darsi un lusso che ormai è molto raro, quello di godersi a pieno questo Of Angel's Seed and Devil's Harvest.

Voto 8,5/10
DeRais - Of Angel's Seed and Devil's Harvest
Ván Records
Uscita 04.05.2017

giovedì 8 giugno 2017

Wederganger/Urfaust - Split: assomigliarsi per essere diversi

(Recensione di Split di Wederganger/Urfaust)


Mi piacciono i gruppi che dimostrano capacità di adattamento. Mi piacciono i gruppi che hanno chiaro quello che stanno facendo e fanno di tutto per rendere meglio il quadro. Mi piace quando si crea un'unità d'intenti e si va dritto nella direzione desiderata. Sono tutte cose che non sono per niente scontate perché certe band scelgono di non mettersi mai in discussione, di rimanere immobili, precludendosi, così, a nuovi orizzonti.

Per seconda volta da quando esiste questo blog mi occupo di uno Split, e uno dei due gruppi che ne fanno parte era già protagonista del primo split. Mi riferisco agli olandesi Wederganger dei quali vi avevo parlato in concomitanza con l'uscita del loro lavoro insieme ai, sempre olandesi, Kjeld (potete leggere la mia recensione qui). In questo caso questo nuovo disco gli affianca ad una rispettabilissima band, sempre olandese, che ha bisogno di ben poche presentazioni, cioè gli Urfaust. Di loro, invece, vi avevo parlato in concomitanza con l'uscita dell'ultimo LP, intitolato Empty Space Meditation (la recensione è qui).
Facendo un gioco abbastanza banale posso dire che prima di ascoltare questo disco aspettavo che i due brani degli Urfaust fossero molto più interessanti di quelli dei Wederganger. Mi basavo su quello che avevo ascoltato e conoscevo da entrambe le formazioni. Ed invece, dopo soltanto il primo ascolto, la mia premonizione si era completamente ribaltata. E non perché la parte degli Urfaust fosse inferiore ai loro standard. No, il motivo è che i Wederganger sorprendono regalando due brani splendidi. Non soltanto presi individualmente ma anche nel contesto generale di questo disco. Infatti grazie a questo contributo viene fuori un lavoro prezioso, coerente, con un'unità d'intenzioni che non disdegna di esaltare le differenze tra entrambi i gruppi.

Wederganger/Urfaust

Come mondo sonoro siamo in pieno al black metal ma entrambe le band regalano la loro propria interpretazione del genere. Quella dei Wederganger è più magnificente, in un certo modo epica. Quella degli Urfaust è più sofferta, infernale e viscerale. Per quello ha anche una dimensione molto più lo-fi che suggerisce qualcosa di molto più sentito, immediato e spontaneo. La cosa particolare è che sembra che in questo Split gli Urfaust abbiamo insistito per la loro via, per il loro modo di essere. Invece nel caso dei Wederganger c'è un adattarsi ai compagni d'avventura, senza che tutto ciò significhi rinunciare alla propria personalità. Anzi, quest'apertura, almeno per come la vedo io per quello che conosco la band, è un'apertura splendida che regala un tocco originale e molto ben portato a termine.

La cosa interessante degli Split è che quando vengono concepiti nel modo giusto sono un'opera che cresce grazie ai contributi delle band che ne prendono parte, dando come risultato qualcosa di molto diverso a un disco di una band unica. Questo split è uno di quei esempi. Anche se ci sono parecchie differenze tra entrambi i gruppi sembra che tutto vada nella stessa direzione con delle sfumature preziose. Sia i Wederganger che gli Urfaust vengono fuori ingranditi da questa novità discografica.


Sono quattro i brani che costruiscono questo disco. Io seleziono uno per band.
Per i Wederganger il brano è il primo di questo lavoro, cioè Heengegaan. Ritmicamente è schiacciante come una marcia infernale. Regala un brano oscuro e contundente, dissacrante ed ipnotico.
Per gli Urfaust la mia scelta va su Zelfbestraffingsten Denz En Occulte Raabsels. E' l'inferno che canta. Sembra un portale verso gli abissi. Guidati da una melodia dalla quale non possiamo fare a meno ci addentriamo in questo mondo. Non c'è tempo ne spazio per scappare. 

Questo Split trionfa. Trionfa perché riesce a compiere con tre cose importanti. La prima è quella di essere un'opera coerente ed originale, la seconda è che fomenta i due gruppi partecipanti, e la terza è che è fottutamente oscuro. Gran bello il giorno che Wederganger e Urfaust decisero di unire le forze.

Voto 8,5/10
Wederganger/Urfaust - Split
Ván Records
Uscita 09.06.2017

mercoledì 24 maggio 2017

Heavy Temple - Chassit: dentro alle spirali stroboschipe

(Recensione di Chassit dei Heavy Temple)


La cosa bella della musica, soprattutto quella moderna, è che non ha limiti all'ora di mettere in piedi delle formazioni. E' un'usanza sempre più tipica adattare la quantità dei componenti alle necessità interpretative. E' così che ritroviamo delle one-man band dove un solo musicista virtuoso riesce a riempire tutte le esigenze sonore ed altri gruppi che potrebbero tranquillamente essere chiamati delle orchestre moderne. Ma come tutte le cose importanti, quest'ondata di nuovi formati non ha spazzato via altre formazioni classiche che resistono stoicamente e non suonano mai superate. Una su tutte: i power trio. In un certo modo è la formazione che apporta l'equilibrio perfetto e l'essenza della musica, una potenza di tre teste che ragionano come una sola.

I Heavy Temple sono un perfetto esempio di power trio. Questa band statunitense riesce a buttare giù tutta l'energia dei suoi tre componenti, che si nascondono dietro a lunghi nomi artistici, creando un impattante muro sonoro pieno di potenza, di trip psichedelici, di divertimento. Chassit è l'ultima dimostrazione di questo trio ed è l'EP del quale mi occupo, piacevolmente, quest'oggi. In quattro tracce ci arriva un'unità d'intenzioni veramente interessante, un lavoro che mette insieme le singolari personalità di ciascun componente della band in una creatura unica, che si muove, respira ed interagisce facendo uno sforzo corale riuscitissimo. Pause e parti suonate si susseguono con una fresca naturalità piena di complicità. Sembra che la band sappia quando caricare, quando lasciare respiro, quando esaltarsi e quando ricreare un mondo lisergico.

Chassit

Come tutto power trio che si rispetti l'intreccio dei tre strumenti che compongono i Heavy Temple è fondamentale. Bisogna spendere qualche parolina in più per il lavoro del basso, vero collante di tutti i brani. Infatti se siete tra quelle persone che amano sentire il basso pieno di personalità, e non un semplice strumento che rimarca le toniche degli accordi suonati dalla chitarra, questo Chassit fa al vostro caso. E come generalmente capita nella musica, se il basso cavalca allora tutti cavalcano. Queste onde che si muovono sinuose incontrandosi e dividendosi sono alla base del bell'impatto sonoro della band. Chitarra e basso sembrano scambiarsi ruoli per poi unificarsi per poi prendere strade separate. Sotto a tutto ciò c'è la batteria che sorregge perfettamente tutto il resto, disposta a far crescere tutto quanto ma anche a mantenere un certo controllo su quello che si fa. 
A livello di suono questo è un disco che suona molto anni 70, prendendo la parte psichedelica della musica della band. Grazie a ciò il doom, di chiara matrice protodoom, non è oppressivo ed oscuro ma diventa cosmico e lisergico, quasi sciamanico. Per quello i brani si sviluppano in lunghi minuti dove la voce entra ed esce a guidarci tra queste spirali stroboscopiche. 

Chassit

Secondo me ci sono certi generi che sono molto divertenti da suonare. Non ha a che fare con i gusti musicali, è proprio qualcosa legato all'energia che si genera e si sprigiona suonando proprio quei generi. Beh, quello che fanno i Heavy Temple è uno di quei generi. Questo Chassit è divertente non solo da ascoltare ma soprattutto da suonare. Si capisce che in questa band ci sono tanti sguardi complici che bastano per "muovere" a volontà la direzione che deve intraprendere ogni brano. Per me questo è sinonimo di un disco ben riuscito.

Heavy Temple

Questo EP è composto di quattro canzoni, per quello pesco una sola da approfondire. 
Si tratta di Pink Glass, terza traccia del disco e quella più lunga (8 minuti e 42 secondi). Qui sono presenti tutti gli elementi che vi ho descritto fino ad adesso. Una perfetta coordinazione tra gli strumenti, una voce che ci ricorda tanti voci degli anni 70, una dinamica ampissima che ci regala schiaffi di energia musicali ed ampi respiri ossessivi. Si passa da un estremo all'altro come se nulla fosse, come se dall'esaltazione estrema si cadesse nell'introspezione totale, cercando qualche spiraglio per risorgere. Bellissima, intensa e molto divertente. 



Chassit ha molta sicurezza. E' un EP contundente dove si scivola tra diversi stati d'animo con la stessa facilità con la quale un bicchiere in più fa la differenza tra l'estasi e la devastazione. Questo è un disco festoso, ma appartiene a quelle feste mitiche, che ci rimangono impresse per tutta la vita. Io prenoto i Heavy Temple per la mia prossima celebrazione, e voi?

Voto 8,5/10
Heavy Temple - Chassit
Ván Records
Uscita 26.05.2017

mercoledì 3 maggio 2017

The Ruins of Beverast - Exuvia: dietro nel tempo e sotto negli abissi

(Recensione di Exuvia dei The Ruins of Beverast)


La natura è sempre saggia, tanto che dovremmo ascoltarla molto di più. Ci insegna l'adattamento, ci dimostra come è saggio cambiare como cambia il tempo, cambiare per affrontare tutto quanto da un'altra ottica. Per quello ogni spezie ha il suo proprio modo di vivere i cambiamenti, di difendersi, di preservarsi, di evolversi per essere ancora più forte.

Exuvia è il titolo del disco del quale mi occupo quest'oggi. E' il quinto LP dei tedeschi The Ruins of Beverast, one man band già protagonista di un'altra recensione su questo blog, quando vi ho descritto il loro EP Takitum Tootem! (se avete voglia de leggere la recensione eccola qua). Alla distanza di pochi mesi eccoci qua con un lavoro ambizioso, complesso, denso e molto intelligente. E forse proprio l'EP che ha fatto da apripista ci ha fornito degli indizi fondamentali per capire anche questo disco. Grazie alle due tracce di quel lavoro, un brano inedito ed una cover dei Pink Floyd, era chiaro che oltre al black metal c'erano altre due anime che convivevano, cioè quella tribale e quella psichedelica. Exuvia è la conferma. Come se ci fosse il bisogno estremo di cambiare pelle e di rinascere con nuove caratteristiche, ecco cosa c'è in questo lavoro. Il black metal  è molto presente, molto ben suonato ma tutto il resto da una dimensione unica a questo lavoro, un'intensa originalità che lo rende un lavoro bellissimo, sentito e tutt'altro che scontato. 

Exuvia

Sorprende la durata dei brani di questo Exuvia, perché tutti i brani superano i sette minuti arrivando addirittura ai quindici minuti. Questa è una prerogativa che generalmente appartiene al metal progressivo o alla musica d'ambiente, dove la reiterazione ossessiva di certe idee diventa fondamentale per guidare l'ascoltatore attraverso una serie di paesaggi sonori. La lunga durata dei brani di questo lavoro di The Ruins of Beverast trova giustificazione più nel secondo punto. C'è bisogno di seguire un filo logico onnipresente che fa capire qual è il mondo nel quale siamo condotti. Un mondo d'abissi, di ombre, di mistero. Un mondo dove l'assenza di luce naturale è pesante quanto la reiterazione di certi frassegi, come a ricordare che quello che manca è prezioso. Il quadro si completa con la coabitazione di altri stimoli. Come quello dei cori ecclesiastici, quello di un'acidità lisergica, quello della potenza irrefrenabili del black metal e quello del ritorno alle origine regalato dai suoni più tribali. 

Infatti Exuvia da l'idea di un viaggio ancestrale che va oltre a quello che ci è stato insegnato a scuola. Questo viaggio va all'essenza dell'origine dell'ombra, alla creazione degli abissi, perché sotto la superficie c'è sempre tanto. The Ruins of Beverast regala questo relato musicale complesso, intenso che ci fa immergere completamente in questo ambiente dove l'aria è rarefatta, dove ci sono forme inimmaginabili, dove l'ombra regna sovrana senza alcuna voglia di essere illuminata. Ma la cosa interessante è che questi posti sono esistiti da sempre ma l'uomo ha cercato di starne alla larga, alimentandone la dimensione di occulto e di vietato ma, nello stesso tempo, divinizzandola. Per quello questo disco è monumentale.

The Ruins of Beverast

Vi ho parlo della lunghezza dei brani che formano questo disco ed adesso voglio approfondirne due:
Il primo è Exuvia. Il brano più lungo, più oscuro, più ricercato. Apre questo disco magistralmente perché sin da subito ci porta in un mondo che non è il nostro mondo di tutti i giorni. Una linea dissonante di chitarra ci accompagnerà praticamente durante l'intera durata di questo disco facendoci capire che quello che abbiamo di fronte è diverso da quello che abbiamo sempre conosciuto. E' un brano di un'intensa unica, che non si disperde mai anche se la sua durata supera i 15 minuti. Un capolavoro.
Dalla canzone più lunga a quella più breve. E' la nuova versione di Takitum Tootem! Ma mentre nell'EP omonimo il sottotitolo era War dance in questo caso è Trance. Perché quella è l'intenzione di questo disco. Quell'anima tribale c'è sempre ma non è più di questo mondo. Non è soltanto primitiva ma diventa anche cosmica, come se la guerra che bisogna combattere si sviluppi anche in altre aree cosmiche. Come se il mondo che pensiamo sia nostro mondo in realtà sia solo la punta dell'iceberg, e tutto quello che non si vede deva essere affrontato, finalmente.



Exuvia è uno di quei dischi dei quali è difficilissimo trovare un appunto negativo. Non solo è molto ben costruito ma lo è partendo da un'opera monumentale, con brani che crescono sempre di più toccando delle vette molto alte in lunghi sviluppi. Il suono dei The Ruins of Beverast è un contributo prezioso ad un black metal che ha bisogno di queste aperture come il deserto ha bisogno dell'acqua. C'è molto da imparare da questo disco.

Voto 9/10
The Ruins of Beverast - Exuvia
Ván Records
Uscita 05.05.2017