lunedì 29 ottobre 2018

The Ocean - Phanerozoic I: Palaeozoic: attraverso gli eoni

(Recensione di Phanerozoic I: Palaeozoic dei The Ocean)


Riflettendoci noi umani siamo quasi il nulla. Abitiamo un pianeta che esiste da molto molto tempo prima della nostra esistenza. La cosa contraddittoria che siamo proprio noi quelli che abbiamo modificato quanto più possibile l'equilibrio sul quale si basa tutto. Siamo noi che abbiamo avvelenato il pianeta e siamo noi che abbiamo il dovere morale di salvarlo, altrimenti andremmo incontro all'estinzione. E se la storia c'insegna qualcosa è che ci sono stati tanti altri abitanti della Terra che ormai non esistono più se non come reperti archeologici. Per quello dobbiamo cambiare e salvare il nostro mondo, altrimenti saremmo il reperto per qualcos'altro.

Trovo affascinante l'operato del collettivo The Ocean, progetto tedesco di post metal, che con ogni disco crea dei ponti tra il nostro presente e le diverse epoche geologiche che hanno governato il nostro mondo. Phanerozoic I: Palaeozoic è il loro ottavo disco ed è la prima parte dedicata all'eone Fanerozioco che si completerà con un secondo disco, con prevista uscita nel 2020. Dicevo che rimango affascinato dal tentativo di mettere insieme preistoria e presente, di riflettere e capire che cose ci accomunano e quali ci differenziano. In concreto il Paleozoico è celebre perché lì si verifica la maggiore estinzione di massa della storia. Viene spontanea la domanda: cosa abbiamo in comune oggi con quella era? Credo che la risposta radichi dentro all'aspetto metaforico, al fatto che noi uomini tendiamo a fare estinguere idee, progetti e tecnologie dando spazio a nuove evoluzioni. Ma la mia è solo una tesi, non necessariamente esatta. Sia come sia quello che è innegabile è che il peso storico, o preistorico, ha un riflesso nella musica di questo collettivo dando nascita a brani mastodontici, che hanno sempre un peso importante e imponente. Nulla è un caso e nulla è lasciato al caso. Si prova sin dall'inizio la sensazione di essere di fronte ad un monolite musicale di profonda coerenza. Un'opera che travolge e che si presenta così solida da accattivare l'ascoltatore. Non ci sono tregue, non ci sono respiri, non ci sono incoerenze o spazi per esperimenti. Tutto fila liscio come un blocco di giaccio che non vuole assolutamente fermarsi e per il quale si fatica a immaginare una forza che riesca ad arrestarlo.   

Phanerozoic I: Palaeozoic

Phanerozoic I: Palaeozoic è indubbiamente un disco di post metal ma quello che contraddistingue i The Ocean è il loro modo d'interpretare questo genere. Forse perché non è un genere longevo ma è tremendamente istruttivo vedere come i loro maggiori rappresentanti prendano delle strade diverse avendo in comune solo le sonorità tipiche di questo genere. Nel caso del disco del quale mi ci occupo quest'oggi come dicevo prima c'è una grande coralità che ci dimostra l'unicità della direzione intrapresa. Per quello, anche se ci sono momenti di calma ed interventi elettronici è indubbio che la band vada in modo convinto a ribadire una propria identità che ormai da anni è nota. C'è da registrare l'ospitata di Jonas Renkse, cantante dei Katatonia, che presta la sua voce in una delle tracce del disco, Devonian Nascent, regalando qualcosa in più a quello che viene già dato dal collettivo, ribadendo che quanto ci sono idee in comune nascono delle perle come quel brano. In altre parole questo disco è senz'altro una conferma di quello che abbiamo ascoltato nei sette precedenti album della band ma ci dimostra una compattezza ancora maggiore, un modo di far proprio un genere che regala tante sfumature.

Phanerozoic I: Palaeozoic ha quella potenza che nasce da quello che lo ispira e lo nutre. Questo è un disco mastodontico, sia come suono che come intenzione. E per quello poteva nascere soltanto dentro a un genere come il post metal e da una band come The Ocean. C'è qualcosa d'ancestrale nelle sue note e nella sua ritmica, qualcosa che sembra aver viaggiato nel tempo fino ai nostri giorni, qualcosa da decifrare con i codici attuali per così capire meglio la terra che ci ospita.

The Ocean

Scelgo due brani da questo massiccio lavoro.
Il primo è Cambrian II: Eternal Recurrence. Credo che questo sia il brano perfetto che va a sintetizzare quello che è l'intenzione del collettivo. Il loro modo d'interpretare il post metal e di utilizzarlo come miglior linguaggio per esprimere le proprie inquietudini artistiche. Per quello c'è una grande concretezza ma anche quel sapore di sacro, di antico, di incancellabile. E' un blocco di pietra che ha sopravvissuto ad eoni ed eccolo lì, di fronte a noi.
Il secondo è il prima nominato Devonian Nascent. Non è soltanto d'obbligo nominarlo per via della presenza di Jonas Renkse ma anche per il modo nel quale questa presenza cresca con questo brano e come questo brano cresca grazie a lei. E' qualcosa che non ascolteremmo mai nei Katatonia e, nello stesso tempo, una sfumatura assolutamente diversa dentro alla musica del collettivo. Una collaborazione artistica che c'entra perfettamente il suo scopo. Brano prezioso da riascoltare fino alla stanchezza. 



Phanerozoic I: Palaeozoic è quindi un regalo dal passato remotissimo, una testimonianza viva di quello che forse non riusciamo neanche ad immaginare.I The Ocean in un certo modo ci ricordano con questo disco che noi, umani, non siamo i proprietari del nostro pianeta ma siamo ospiti. Ci ricordano anche che la storia c'insegna quanto facile sia l'estinzione e l'evoluzione. E' una specie di monito d'allerta da ascoltare assolutamente.

Voto 9/10
The Ocean - Phanerozoic I: Palaeozoic
Metal Blade Records/Pelagic Records
Uscita 02.11.2018

Sito Ufficiale The Ocean
Pagina Facebook The Ocean

venerdì 26 ottobre 2018

Avast - Mother Culture: uomo e natura, il conflitto eterno

(Recensione di Mother Culture degli Avast)


Tutto inizio è una scommessa, è un buttarsi a capofitto dentro a un futuro auspicabile ma mai immaginabile fino in fondo. Solo i tonti presuntuosi dichiarano di trionfare ancora prima di vivere. L'inizio può essere una fine ma può essere anche una porta spalancata a una nuova realtà che supera l'immaginazione. La musica è piena d'inizi. Qualcuno luminoso, in tanti altri, invece, così cupi da chiudere qualsiasi sogno, da cancellare l'ambizione di essere completamente appagati. Ma l'inizio è anche un atto di coraggio, di voler buttarsi dentro al sogno che ognuno custodisce.

Mother Culture

Indubbiamente se una casa discografica importante si fida di pubblicare il debutto di una band è perché nutre una grande fiducia nella stessa, perché crede che quello che musicalmente viene fuori è un "prodotto" che funzione, che è vendibile, che farà strada. Nel caso della Dark Essence Records, casa discografica norvegese, proprietaria di certe pubblicazioni notevoli dentro al mondo del metal, la sfida ha un nome: Mother Culture, primo disco degli Avast. Basta un singolo ascolto per capire come mai sia stata riservata una grande fiducia a questa band e a questo disco: questo è un lavoro di quelli che lasciano un segno. Un lavoro che svela una grandissima personalità e che, in certo modo, può rappresentare l'evoluzione di un genere "giovane" come il blackgaze. Questo perché nelle note che vengono fuori da questo disco c'è un'impronta nuova, una luce diversa che riesce ad illuminare degli angoli che fino ad adesso era rimasti nel buio. Come al solito questo pregio è dovuto alla volontà di mettere insieme tutta una serie di sensazioni sonore, congiungendo in un unico cerchio tutte le influenze e le inquietudini musicali che passano nella testa dei musicisti della band. Bisogna dire un grande grazie perché è così che si costruisce futuro, e questo genere di futuro è molto interessante.

Mother Culture diventa, quindi, il modo perfetto di capire qual è il messaggio musicale degli Avast. Un messaggio che, come dicevo prima, tende a spostare i confini del blackgaze grazie alla lungimiranza della band. Com'è normale pensare, da una parte questi confini s'indirizzano verso il black metal, genere che messo insieme allo shoegaze ha dato nascita al blackgaze. Arrivati a questo punto non c'è alcuna novità, che viene fuori con due aspetti fondamentali. Da una parte c'è il fatto che gli altri confini appartengano al terreno del "post", in concreto post rock e post black metal. Questo aspetto ci mette di fronte ad un lavoro imprevedibile, in continua mutazione. Un lavoro che è tanto devastante quanto incantevole. Pieno di bellezza ma crudo fino all'osso. L'altro aspetto fondamentale è quello che viene fuori considerando la radice musicale che ha lasciato un grande solco anche nel momento di comporre i brani. La band dichiara di avere una provenienza dal punk rock e l'hardcore, cioè generi asciutti, diretti, spregiudicati. Cosa c'entra tutto ciò con questo disco? Il fatto che sia un lavoro concreto, un lavoro che non si perde in innumerevoli sviluppi ma ha molto chiaro e definito dove dover andare. Il bersaglio viene centrato velocemente e con grande precisione.
Non bisogna assolutamente trascurare il fatto che Mother Culture è un disco concettuale che si rifà al libro Ishmael di Daniel Quinn. Libro che cerca di illustrare la relazione tra l'uomo e la natura, in una convivenza mai facile dove ogni parte sembra voler governare l'altra. Questo conflitto si sente costantemente, mettendo di fronte la parte black e quella post rock, come se la crudezza della prima si scontrasse con la bellezza della seconda. Ma il gioco interessante è che non è mai chiaro quale parte corrisponde alla natura e quale all'uomo. 

Mother Culture

Mother Culture è, dunque, un disco conflittuale. Un disco che si basa sulla più importante relazione di sempre, quella tra uomo e natura. Gli Avast sono abilissimi a mettere in risalto questo conflitto, a fare osservare tutto da diverse prospettive, non solo testuale ma soprattutto musicali. E, cosa più importante, da questo esercizio viene fuori un'evoluzione musicale che farà giovare tutti gli amanti del metal e di tutto il suo mondo, complesso, ricco e bellissimo.

Avast

Per dare l'idea dello spettro che abbiamo di fronte selezione due delle tracce di questo lavoro.
La prima è l'omonima traccia, Mother Culture, dove l'energia trascinante della parte black si mette subito in risalto dando l'idea all'ascoltatore di essere di fronte a un disco di post black metal. Ma bastano un paio di minuti per capire che, invece, il disco si nutre dalle sonorità del blackgaze. E dopo un altro paio di minuti ecco che tutto si evolve ancora una volta regalando una parte strumentale degna delle migliori band di post rock
La seconda è An Earnest Desire dove le carte si capovolgono. Tutto inizio lento, bello, onirico ma l'incantamento non dura troppo perché il conflitto è sempre lì, protagonista assoluto di questo lavoro. Diventa tutto devastante, un'onda d'urto che non vuole ammorbidirsi.


Non ho alcun dubbio che ne sentiremmo parlare degli Avast e che se la loro strada procederà su binari dritti non sarà difficile individuarli come capisaldi di una corrente nuova dentro del metal. Mother Culture è un signore disco, tanto impattante quanto emozionante, tanto complesso quanto diretto, tanto dissacrante quanto speranzoso. Un primo LP che spalanca porte e che lascia con la voglia di ascoltare altro, perché l'anima è sempre affamata di fronte ad opere come questa.

Voto 9/10
Avast - Mother Culture
Dark Essence Records
Uscita 26.10.2018

domenica 21 ottobre 2018

Wang Wen - Invisible City: come si colora qualcosa d'invisibile?

(Recensione di Invisible City dei Wang Wen)


La nostra Terra è un essere vivo e noi umani, generazione dopo generazione, siamo delle specie di cellule che alimentano o distruggono. Per quello è indubbio che in qualsiasi nazione, in qualsiasi città, in qualsiasi paese, la cosa fondamentale sia quella di prendersene cura delle generazioni giovani. Perché sono loro quelli che tramandarono i corretti insegnamenti, saranno loro a tenere in salute il pianeta o a distruggerlo sempre di più. E, alla loro volta, ripeteranno l'insegnamenti ai giovani del futuro. L'educazione è tutto, è la frontiera tra un fallimento e un trionfo, tra la perseveranza della memoria e la superficialità dell'amnesia. 

Tutto mondo è paese. Così si suol dire e a quanto sembra è veramente così. Possiamo avere differenza culturali ma certi aspetti rimangono sempre immutati. Per quello l'ascolto di Invisible City, dei cinesi Wang Wen, dei quali mi occupai qualche tempo fa col loro disco precedente, Sweet Home, Go!, ha la magia di diventare trasversale e di unificare le realtà concrete di tanti paesi. Non importa che la Cina sia il gigante della terra, non importa che la loro economia fiorisca e cresca sempre di più. Certi problemi sono comuni a loro come possono esserlo a un piccolo paese sperduto nel centro dell'Europa o di una città ormai decadente del Sud-america. 
Da dove viene fuori questa affermazione? Dal fatto che come la band stessa dichiara, questo nuovo lavoro risponde alla triste realtà della loro città nativa, Dalian, città del nord della Cina che anche contando con più di sei milioni di abitanti vede come intere generazioni di giovani vadano via a cercare migliori prospettive economiche. In questo modo la città popolosa si trasforma in una città fantasma. Ma come dimostrano i brani contenuti in questo lavoro questo è un disco di speranza, un disco che pretende dare nuovo colore alla città in modo che sia apprezzata da tutti.

Invisible City

I Wang Wen hanno una grande capacità, ed è quella di essere assolutamente globali. Sicuramente aiuta molto il fatto che la loro scelta musicale sia quella del post rock, cioè creazioni strumentali che non lasciano alcuno spazio alla presenza vocale. Chi ascolterà, o ha già ascoltato Invisible City, sarà d'accordo che quello che si ascolta in questo disco potrebbe provenire da qualsiasi angolo del mondo. Ed è qui che voglio soffermarmi un po', perché dal mio punto di vista non è assolutamente semplice o scontato che sia così. In queste note, intrecciate meravigliosamente, non c'è uno sforzo "patriotico" ma bensì l'individuazione di quello che è la parte midollare, cioè il fatto che una città è viva e visibile grazie alla nuova linfa delle generazioni giovani. Perché le città sono creature viventi, sono essere che mutano, che cambiano pelle, che migliorano o peggiorano, che accolgono o rigettano, che affascinano o inorridiscono. Per quello abbiamo centinaia di esempi di città che hanno saputo reinventarsi regalando un nuovo fascino nascosto. Per quello questo disco è un disco di speranza, un invito a osare, a convincersi che quella città può essere la tua propria casa.

Invisible City ci pone una domanda fondamentale: come si colora qualcosa d'invisibile? La riposta dei Wang Wen è bellissima: con la musica. E quali sono i colori che riempiono l'aria? Quelli globali, quelli dell'appartenenza locale ma anche quella degli angoli più remoti del mondo. Per quello questo disco è per tutti, per quello è bello, per quello ascoltarlo fa bene, perché ci sono molte più città invisibili da quanto crediamo.

Wang Wen

Come faccio ogni tanto non credo che sia corretto limitarsi all'ascolto di poche tracce ma questo lavoro merita di essere inglobato nella sua totalità, ma prendo quello che per me rappresenta i momenti salenti.
Lost in Train Station. Brano volutamente confusionario che prende come riferimento una stazione di treni, che può essere caotica, crudele, malfamata, stressante. La via di fuga ma anche di un ritorno non sempre desiderato. L'emozione di un addio, le lacrime di una madre che vede partire il proprio figlio. Per quello perdersi in quella condizione diventa un'esperienza ancora più forte e devastante.
Silenced Dalian. Non c'è alcun dubbio sul fatto che questo disco abbia come musa la città di Dalian ma molto probabilmente è in questo brano che quest'amore diventa ancora più diretto. E non c'è nulla di peggio di vedere che il tuo proprio amore non è più quello che era e adesso vaga silenzioso ricordando tempi migliori. Per quello questo brano è nostalgico per poi diventare rumoroso, perché s'impone di riempire gli spazi vuoti. L'iniziativa è un bocciolo se è giusta ed indubbiamente Dalian si riempirà di fiori.


Invisible City è una dichiarazione d'amore verso la propria città. Ma è anche una proposta, una nuova via, un invito a far circolare nuovo sangue per rendere migliore quello che esiste adesso. Quello che Wang Wen cercano non è soltanto comunicare, solo con la musica, la loro realtà, ma anche essere una pietra miliare per creare una nuova corrente, e chi lo sa, forse tra qualche anno sentiremmo parlare di Dalian in un modo luminoso.

Voto 9/10
Wang Wen - Invisible City
Pelagic Records
Uscita 28.09.2018

giovedì 18 ottobre 2018

Beyond Creation - Algorythm: decifrare l'algoritmo della comprensione

(Recensione di Algorythm dei Beyond Creation)


Per chi entra nel mondo della musica non è una sorpresa vedere quanta matematica ce ne sia all'interno. Sequenze, algoritmi, serie numeriche, formule e tanto altro. C'è chi riesce ad avere un'approccio "scientifico" verso la musica, mettendo volutamente in gioco quelle caratteristiche, e chi, invece, cerca di fare tutto istintivamente. C'è chi riesce a dominare senza problemi gli schemi complessi e chi preferisce farsene da parte. 
Sia come sia credo che la cosa essenziale stia nel riuscire a non rendere protagonista la matematica e che, dunque, all'ascoltatore arrivi solo la parte "musicale". Perché più importante della scienza nella musica c'è l'arte.

Algorythm

La carriera dei canadesi Beyond Creation ha sempre vissuto una strada in discesa. Seppur ci siano "soltanto" tre full lenght all'attivo il loro nome è molto rispettato e ben accolto. Indubbiamente questo è dovuto alla capacità musicale di costruire dei brani di grande complessità ma che arrivano abbastanza facilmente. Oggi mi occupo di Algorythm, la loro terza fatica. La prima cose che viene fuori ascoltando questo disco è la piacevolissima sensazione di sentire tutti gli strumenti separatamente, e suonati con grandissima capacità, e stare di fronte ad un'insieme. Ascoltando la loro musica mi è impossibile non pensare, almeno parzialmente, alla musica dei grandissimi Cynic, grazie, soprattutto, al basso fretless, alla costante evoluzione nello sviluppo dei brani e nelle contaminazioni sonore che mettono in evidenza la voglia di essere costruttori di novità. Il paragone fatto ha una validità parziale, in quanto il risultato finale dimostra che ogni band ha una metà diversa, e che ci arriva senza problemi. Nel caso dei canadesi questa meta è quella di portare una riflessione profonda sulla vita, qualcosa d'esistenzialista, sull'antropologismo e sulla storia.

Algorythm

Come succede molto spesso quando un gruppo ha le idee chiare un disco diventa un flusso potente che va in quell'unica direzione. Nel caso dei Beyond Creation quel flusso è complesso e profondo. Per quello non sembra un caso la scelta del titolo dell'album: Algorythm. Il disco sembra essere un algoritmo da decifrare, una specie di sfida tra band e ascoltatore. Per quello non c'è nulla di semplice o scontato. Principi comuni a un genere como il progressive tech death metal ma che rischiano, a volte, a rimanere solo concentrati sulla bravura dei musicisti risultando più un'esibizione delle proprie capacità che un vero e proprio insieme corale. E anche se il death metal risulta essere l'ancora della nave non ci sono privazioni in quanto ad aperture musicali. Per quello c'è spazio a un'utilizzo di assoli, sia di chitarra che di basso, che ricordano il metal anni 90, per quello ci sono degli intermezzi strumentali jazzistici e per quello ci sono momenti di calma, come se la costruzione di paesaggi sonori diventasse un obbligo, un modo di ricondurre molto più facilmente l'ascoltatore al mondo che si vuole raccontare. Tutto ciò è possibile grazie all'anima progressive che riscrive le regole del gioco volta per volta, lasciando ai musicisti una chiara possibilità d'intraprendere le strade preferite senza curarsi di come e quando. Questo bisogna ringraziarlo perché è lì che si nutre l'idea d'esposizione di un algoritmo da decifrare, e per quello è fondamentale regalare al disco diversi ascolti concentrati. 

Algorythm

Algorythm ha il fascino di quei giochi numerici dove bisogna individuare la formula che permetta di sapere come è venuta fuori proprio quella serie. I Beyond Creation si spingono anche oltre, perché non basta individuare un'unica formula per tutto l'album, bisogna anche sottoporre ad attento sguardo ciascuna delle canzoni che lo costruiscono, come se ci fosse una serie sopra ad ogni singola serie. Comprendere è una sfida.

Beyond Creation

Prendo due brano (o algoritmi?).
Il primo è The Inversion. Chitarre in stile Cynic, basso fretless cavalcante, batteria serratissima e martellante, così ci riceve per poi dare spazio alla parte più death. Andando avanti c'è spazio per gli assoli dimostrando che questa è una band che non ha paura a guardarsi indietro. E forse la parte principale, e più interessante, è quella che viene dopo dove il tempo sembra calare, dove le chitarre si rallentano, dove la voce si sussurra. Questo è dipingere con la musica.
Il secondo è Binomial Structures e lo scelgo perché permette di vedere l'altra anima della band, quella che viene fuori quando s'intraprende la strada strumentale. Questo brano potrebbe essere un brano progressive perché non c'è praticamente traccia della parte death. Tutto s'intreccia, tutto dialoga, tutti gli strumenti hanno il giusto spazio senza per quello diventare una "palestra" musicale. Funziona, cattura e ci fa capire il senso di costruzione musicale che la band insegue e le fonte dalle quali ha bevuto.



Algorythm è un disco che parla molto direttamente di quello che è il percorso musicale dei Beyond Creation. E' un modo di capire quello che amano, quello che è stato il loro alimento musicale e quello che mettono insieme con passione e con una grandissima capacità musicale. E' un scanner che fa venire fuori un risultato affascinante e non sempre facile da interpretare.

Voto 8,5/10
Beyond Creation - Algorythm
Season of Mist
Uscita 12.10.2018

mercoledì 17 ottobre 2018

Anteprima esclusiva: Zombies Ate My Girlfriend - Immolation

E' con grande piacere che vi presento, in anteprima esclusiva per l'Italia, il primo singolo del prossimo LP dei sudafricani Zombies Ate My Girlfriend. Il disco, intitolato Shun the Reptile, uscirà il prossimo 2 Novembre, edito dalla Burning Tone Records.


Zombie Ate My Girlfriend

Il brano in questione s'intitola Immolation e ci da un'immagine oscura ma molto reale della vita di tutti i giorni in Sudafrica. Il chitarrista della band, Adriano Rodrigues, commenta: "Viviamo in un posto molto violento. Ci sono certe cose che accadono regolarmente che farebbero rizzare i capelli ai cittadini del primo mondo. Neonati buttati nella spazzatura, bambini affogando in grandi latrine. Voglio dire, letteralmente affogando in una tomba di feci. Fai una passeggiata di notte in tanti posti solo se vuoi essere rapinato, rapito o assassinato. Dirottamenti, invasioni di case, nelle città, nelle periferie, nelle zone rurali e nelle metropoli. Nessuno è a salvo qui. E' un costante flusso dei più orrendi atti che si possa immagine contro i tuoi cari, donne, uomini e bambini. Siamo veramente il paese del "tienimi la mia birra" della grottesca morale."
Aggiunge: "Credo che è a questo che viene il: "i miei occhi ne sono pieni". Ormai siamo bombardati ogni giorni con il report degli atti più vili immaginabili, morte e rapimenti. Ho l'impressione d'iniziare a vivere una specie di morbido trauma. E' qua arriva Immolation, che parla di tutto ciò e della gente che paga questo prezzo con la vita."


Immolation

I Zombies Ate My Girlfriend nascono nel 2012 e sono una delle maggiori band metal del Sudafrica. Hanno condiviso il palco con grandi band e nel 2016 hanno vinto il Waken Metal Battle, nel famosissimo festival Waken Open Air in Germania, essendo la prima band sudafricana ad aver raggiunto questo traguardo. Il nuovo disco, Shun the Reptile, sarà presentato in novembre in Sudafrica e nel 2019 è in programma un tour in Germania.

E adesso, senza ulteriore indugio, eccovi l'esplosiva Immolation:




domenica 14 ottobre 2018

Flares - Allegorhythms: musica come riflesso

(Recensione di Allegorhythms dei Flares)


Lo riconosco, sono un uomo con diverse manie. Mi piace applicare una sorta di controllo sulla mia vita e sulle cose che mi piacciono. Mi piace trovare un senso logico a tutte le cose con le quali ho da fare per così iniziare a capirle. Creo che il caos sia la forma più ordinata di disordine e che la mancanza di logica sia in sé stessa la cosa più logica. Per quello uso anche quest'approccio nella musica. Per quello non mi fermo mai al primo brano di un qualsiasi lavoro, perché ho l'imperante bisogno di capire la logica di quello che ascolto. Viva le manie!

Oggi ho il piacere di parlarvi di un gruppo che mi era sconosciuto fino a poco fa anche se vanta una carriera che va oltre al decennio. Parlo dei tedeschi Flares e di quello che a tutti gli effetti è il loro secondo LP, intitolato Allegorhythms. Lavoro presentato come disco post rock con sfumature prog ma che in realtà è molto altro. Infatti aver a che fare con questo lavoro mi è piaciuto enormemente perché è un disco che rompe gli stampi che di solito cercano di richiudere al meglio un genere musicale. Questo è un disco a tratti psichedelico, a tratti acido, a tratti brillante, a tratti urbano, a tratti assolutamente umano. E' un lavoro che scivola suscitando l'interesse dell'ascoltatore perché ha in sé la capacità di essere dinamico, moderno e assolutamente non scontato. Tutto quanto con delle scelte sonore ben definite che dimostrano che c'è una grande coesione all'interno della band, dove dieci anni sicuramente aiutano a tracciare una strada comune.

Allegorhythms

Allegorhythms viene inglobato come un disco post rock perché indubbiamente ha tante caratteristiche di quel genere ma sarebbe profondamente riduttivo, come dicevo prima, dare quest'unica definizione a quello che ci offrono i Flares. Forse è vero che c'è anche una grande presenza di prog rock ma come il contenitore finisce per essere così vasto potremmo parlare "semplicemente" di strumental rock. Per quello l'esercizio più valido non è tanto quello di cercare di tradurre in genere quello che si ascolta in questo lavoro quanto provare a spiegare quali sono le motivazioni che costruiscono questo lavoro e come trovano una traduzione nella parte musicale. La prima cosa fa dire in quel senso è che questo LP suona molto urbano, a tratti quasi futuristico, quasi fantascientifico. I brani si sviluppano con scelte sonore acidificate, come se ci fosse un filtro che trasformasse tutto quello che viene suonato per dare una sensazione alterata all'ascoltatore. Per quello anche i brani che vedono la presenza vocale non sono puliti e cristallini ma sembra che essa sia uno strumento in più, protagonista allo stesso modo di tutti gli altri. La seconda motivazione che viene fuori è che questo disco fa parte di quell'insieme di band che fanno capire che il post rock non è solo cercare di tradurre in musica la bellezza del mondo o le emozioni, ma che un disco può essere molto più urbano, complesso e ricercato. Questo non è un lavoro di bellissime melodie da canticchiare mentre si sale in ascensore, questo è un lavoro cupo come il Blade Runner originale.

Musica come riflesso e non come utopia. Forse questa è la migliore definizione di Allegorhythms, un disco che non ha bisogno di esagerazioni ma che è tangibile, un disco che traduce il bene e il male del nostro oggi ma che non cerca di fare altre. I Flares non fanno sognare ad occhi aperti, non protestano, non offrono soluzioni ma riescono con la loro musica a farci capire cosa stiamo vivendo, cos'è questo mondo nel 2018, con i suoi contrasti, con l'urgenza di essere dei personaggi virtuali che si mangiano il vero essere reale.

Flares

Prendo due tracce di questo lavoro.
La prima è Amusement  Rides. Si presenta subito con degli arpeggi chitarristici complessi che chiamano in causa i King Crimson di Discpline per poi prendere la strada del post rock. La voce diventa uno strumento in più che va a raccontarci un presente di luci ed ombre-
La seconda è il brano di chiusura: Ikarus. Forse la scelta del titolo si rivela molto fedele all'intenzione mitologica di questo brano. E' il più lungo dell'intero lavoro e ci regala una serie di momenti molto variegati che cambiano anche lo stato d'animo della canzone. E' un brano misterioso, poi bello, poi nuovamente misterioso, poi acido, poi grintoso e così via. Perché come tutte le migliore storie non deve mai essere statico. 


Allegorhythms è un disco di rara abilità. E' un lavoro scritto molto bene dimostrando la personalità musicale dei Flares, il loro modo di essere portatori di presente, sapendo giocare correttamente con la musica per regalarci un lavoro fotografia del nostro 2018. E' onesto e diretto ma per arrivare ad esserlo è complesso e ben studiato. Mica semplice.

Voto 8,5/10
Flares - Allegorhythms
Barhill Records
Uscita 12.10.2018

mercoledì 10 ottobre 2018

Set and Setting: Tabula Rasa: ripartire da cento

(Recensione di Tabula Rasa dei Set and Setting)


Forse uno dei concetti ricorrenti di questo blog è quello di scovare dischi e band che cerchino di dare una nuova luce a quello che potrebbe sembrare già esistente. Gruppi che regalino qualcosa di nuovo in un mondo dove spesso sembra tutto inventato, suonato e risuonato. Ed è difficilissimo, perché c'è sempre il conto di quello che si è masticato musicalmente, di quello che ogni musicista ama e integra nella sua propria musica a limitare questa libera creatività. Tra l'altro non è neanche possibile, anche se più di qualcuno l'ha fatto, lasciare via libera alla libertà compositiva, perché si cade in una sorta di caos musicale. Tutto questo rende affascinante la possibilità che ho di ascoltare continuamente musica nuova ed è quello che m'impulsa a non mollare mai.

Tabula Rasa

In mezzo a tutte le felici e nuove scoperte, per me, oggi tocca parlarvi di un gruppo che, anche se ci presenta già il suo quarto LP, fino a poco tempo mi era sconosciuto. Il gruppo in questione si chiama Set and Setting e fino ad adesso è riuscito a dare dei grandissimi salti in poco tempo. Sicuramente per via dell'entusiasmo creativo che si sente con chiarezza e per il pregevolissimo risultato dei loro lavori. L'ultimo in questione ha per titolo Tabula Rasa ed è interessante questionarsi se il fatto di aver dato tale titolo a questo disco sia un modo di ripartire, di mettere da parte quello che è stato fatto fino ad adesso e di dare un nuovo impulso alla propria musica. Nel loro caso questa scelta diventa abbastanza particolare, perché trattandosi di una band strumentale da una parte sembra più facile percorrere nuove vie ma d'altra non avere la presenza di una voce o di parole potrebbero limitare il tutto. Ma esplorando questo disco scopriremmo che questo lavoro in realtà è espansivo dando tanti sfumature equidistanti. 

Tabula Rasa

Qualcuno ha definito i Set and Setting come il risultato di una ipotetica collaborazione tra i Russian Circles e i primi Pink Floyd. Ascoltando Tabula Rasa quest'impressione non mi sembra quella più efficace perché la bilancia tende a cadere dalla parte della prima band senza avere tantissime luci per accostarlo ai mostri sacri del rock psichedelico e progressivo. Ma l'elemento che gioca assolutamente a favore dei Set and Setting è il fatto che questo disco sembra aver dei confini molto molto ampi, limitati solo, per modo di dire, al fatto che siamo di fronte a un lavoro strumentale. Sarà per quello che come definizione si tende a parlare di strumental rock, termine tanto ampio quando dispersivo. Cercherò, dunque, di scavare un po' di più. Indubbiamente la musica che si sviluppa nelle nove tracce di questo lavoro ha come riferimento principale quello del post rock, portandoci così alla mente band come i prima citati Russian Circles ma anche i Pelican o, e questa è un'apertura molto interessante, gli spleepmakewaves. Tutti gruppi che hanno la capacità di dipingere grazie alla propria musica. Quello che risulta particolarmente interessante, nel disco del quale mi sto occupando adesso, è che non si disdegna assolutamente il fare ricorso a una serie di sonorità che potrebbero sembrare più distanti di quello che normalmente fa la band. Per quello ci sono delle parti assolutamente grintose dove si sente chiaramente una radice di post metal, andando poi a creare delle atmosfere che all'occorrenza passano dal cupo al luminoso, con l'ausilio di parti che potrebbero sembrare più drone ed altre appartenenti all'ambient. In altre parole l'intento sembra quello di, tenendo sempre in mente l'appartenenza e la personalità del gruppo, andare a pescare in tutti i confini possibili la possibilità di fare crescere la propria proposta.

Tabula Rasa

Per quello Tabula Rasa non sembra affatto essere un nuovo inizio o, piuttosto, invece di azzerare tutto si propone di esaudire al meglio, e quanto più approfonditamente possibile, quello che viene raccontato utilizzando soltanto degli strumenti. La gioventù dei Set and Setting sembra essere usata come un modo spregiudicato di aggiungere quante più cose possibili per costruire al meglio il proprio mondo sonoro. Scommessa coraggiosa ma che viene assolutamente ripagata regalando un disco solido e mai monotono.

Set and Setting

Prendo due brani che permettono abbastanza chiaramente di capire come si sviluppa il mondo sonoro di questo disco.
Il primo è Revision Through... brano che sembra volutamente essere collegato a quello successivo del disco, cosa che si ripeterà anche con altre coppie di brani. Questa prima parte è pesante, schiacciasassi, facendo capire come la band non si fa problemi a spaziare nella scelta strumentale per riuscire a creare il giusto ambiente. Ma la cosa fondamentale, che deve rimanere impressa, è che tutte le scelte vengono fatte con un'unica linea sonora. Infatti il suono scelto non è mai metal rimanendo sempre molto pulito, anche quando la grinta è al massimo.
Il secondo è Elucidation. Qui andiamo nell'altro estremo. Brano bellissimo, quasi minimale, dove tutto è piacevole, incantevole. Ci sono brani che profumano di natura, di fiore, di erba bagnata: questo è uno di loro. L'utilizzo della tromba è assolutamente azzeccato, regalando una dimensione onirica molto interessante.


Tabula Rasa è un bel compendio di brani costruiti seguendo una logica molto chiara. I Set and Setting costruiscono delle storie, o dipingono le stesse, portando l'ascoltatore a vivere dall'interno tutto quanto. Passando da un estremo all'altro con naturalezza, con la fragilità di essere riusciti a costruire un disco completo, maturo e imponente.

Voto 8/10
Set and Setting - Tabula Rasa
Pelagic Records
Uscita 12.10.2018 

domenica 7 ottobre 2018

A Forest of Stars - Grave Mounds and Grave Mistakes: si apre il sipario

(Recensione di Grave Mounds and Grave Mistakes dei A Forest of Stars)


Un processo molto interessante è quello di tramutare dal proprio contesto storico un'epoca, un periodo, un modo di vivere e comportarsi e tradurlo con le realtà culturali e musicali che sono state sviluppate parecchi anni dopo. E' un esercizio utile perché, da una parte, avvicina l'ascoltatore a una realtà che potrebbe sembrarle assolutamente lontana e, d'altra, dimostra che i grandi momenti nella storia hanno un'eredità importante, che si evolve così come si evolve il tempo. 

Grave Mounds and Grave Mistakes

Quante volte ognuno ha detto che le sarebbe piaciuto vivere, o vedere il mondo, in una certa epoca del passato? Il viaggio nel tempo è sempre stato un elemento che affascina, che si nutre di mistero e di svariate teorie. L'evoluzione è un'imposizione e non sempre, individualmente, abbiamo la possibilità di accettare o rifiutare un cambiamento. Per quello A Forest of Stars nasce come un collettivo che si basa nella vita vittoriana dell'Inghilterra d'inizi del secolo scorso. Ma bisogna prestare molta attenzione, perché come ci dimostra il loro ultimo lavoro, Grave Mounds and Grave Mistakes, questo basarsi su quell'epoca è una scelta stilistica, lirica, poetica ma non musicale, o, piuttosto, la musica che nasce dal lavoro di questo collettivo è, a tutti gli effetti, musica nata nel nostro presente guardando molto significativamente un futuro d'avanguardia. Come mescolare passato e presente con sentori di futuro? Le vie sono tante, e senz'altro molto interessanti; nel caso della band potrei dire che si tratta di una reinterpretazione, volutamente esagerata, di quello che è significato quell'epoca particolare in quella porzione geografica specifica. Insomma, una specie di teatro intenso che non propone in alcun modo di riportare in vita qualcosa di morto e sotterrato ma di prendere la sua essenza e la sua estetica per comunicare, per creare arte.

Grave Mounds and Grave Mistakes

Per tutto ciò l'errore imperdonabile che un lettore di questa recensione non deve proprio effettuare è quello di aspettarsi di essere di fronte a un lavoro romantico e cupo perché Grave Mounds and Grave Mistakes è molto di più e molto più complesso. Bisogna partire dalla scelta musicale portata in atto dai A Forest of Stars, scelta che porta la loro strada su una via che percorre l'avantgarde metal con chiare tinte black metal e psych metal, vale a dire elementi che da una parte potrebbero sembrare assolutamente distanti da quello che è l'epoca vittoriana, ma d'altra, se si pensa bene, diventa una proiezione utilissima e molto interessante. Questo perché elementi come l'avanguardia del pensiero e il cupo dei sentimenti, verso la sfuggente vita, trovano riflesso in questa scelta musicale. Aggiungiamoci l'aspetto psichedelico legato alle sostanze psicotiche che si consumavano como modo di evadere e il quadro viene fuori abbastanza completo. Ma quello che ci può interessare maggiormente è capire come si mettono insieme questi elementi, come si decantano dentro di quello che sono le otto tracce di questo disco. A questo punto diventa fondamentale il ruolo dell'avantgarde metal che ci regala strutture mobili e flessibili di brani che non seguono logiche prestabilite ma si sviluppano seguendo l'andare della sceneggiatura dettata dal racconto verbale che si traduce nelle parole del disco. In un certo modo il concetto principale da tenere sempre presente è quello dell'esagerazione. Tutto è una recita.

Grave Mounds and Grave Mistakes

Una recita che esalta il mistero e la volontà dell'uomo di conoscere e, possibilmente, dominare l'ignoto. Grave Mounds and Grave Mistakes sembra essere un'opera teatrale profondamente poetica che abbraccia la possibilità di toccare con mano quello che non conosciamo. A Forest of Stars mette in scena quest'opera che non lascia nessuno indifferente, ed è un'opera curatissima, dove tutto deve avere un senso, dove anche la più minima scelta risponde a qualcosa di più profondo, dando anche molto spazio all'interpretazione personale, alla voglia di declamare l'effetto di quello che si è appena visto e sentito.

A Forest of Stars

Prendo tre brani di questo lavoro.
Il primo è Precipice Pirouette, brano che può perfettamente sintetizzare quest'intero lavoro grazie alla sua mutabilità, al modo nel quale si sviluppa senza mai essere sottoscritto ad un unico destino. Diventa multi sensoriale perché questo è uno dei desideri di questo lavoro, di riuscir a catapultare l'ascoltare in un mondo inesistente, che si basa, in parte, in elementi del passato.
Il secondo è Tombward Bound. Anche se principalmente la direzione seguita è la stessa del brano precedente in questa canzone i toni cambiano leggermente, cercando un approccio più poetico, più tranquillo, più psichedelico. Ma ancora una volta siamo trasportarti in questo mondo fantastico che sembra far parte dalla più profonda letteratura vittoriana.
Il terzo è Taken by the Sea. Forse è il brano "diverso" di questo lavoro. Non soltanto perché la voce viene affidata alla componente femminile del gruppo ma anche per la struttura, molto più "convenzionale", e alle parole. Questo è un brano d'addio, un brano di separazione, di nostalgia, di dolore. Per quello diventa molto più semplice e diretto.



Grave Mounds and Grave Mistakes è uno di quei dischi che definiscono perfettamente quello che è l'arte. Una costruzione concreta che si nutre d'idee, di suggestioni, di storie, di voglia di regalare qualcosa di nuovo. L'intento dei A Forest of Stars trova una concretezza che si riflette sul fatto che nessun ascoltatore può rimane indifferente di fronte a questo lavoro. Per quello l'arte è fondamentale, perché ci fa capire che essere vivi e portare la mente nelle più svariate direzioni.

Voto 8,5/10
A Forest of Stars - Grave Mounds and Grave Mistakes
Lupus Lounge
Uscita 28.09.2018