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giovedì 21 febbraio 2019

Herod - Sombre Dessein: la maestria di disegnare con le ombre

(Recensione di Sombre Dessein degli Herod)


Ci sono cose che si capiscono solo alla distanza. Solo dopo molto tempo e guardando tutto da una prospettiva diversa si può capire che un'era si è conclusa, che è avvenuto un cambiamento che determina un nuovo periodo. Tutto ciò sia a livello storico che personale. Per quello non capisco chi mette definizioni al proprio operato ancora prima d'iniziarlo. Como se bastasse una parola per realizzare la magia. Ci sono cose che sono semplici e altre che sono molto complesse. E' un errore pretendere che quelle complesse diventino semplici.

Alla distanza di quattro anni gli svizzeri Herod ci regalano un nuovo lavoro intitolato Sombre Dessein. Un lavoro complesso che attraversa diversi generi. Ed è questa complessità quella regala degli spunti brillanti. Come capita in genere in qualsiasi aspetto della vita quando c'è la volontà di mescolare gli elementi, di far nascere qualcosa di nuovo, e si sa come farlo, il risultato non può che essere positivo. In particolare questo disco potrebbe regalare una prima lettura che lo definirebbe come un lavoro duro, ostico, denso, ma andando avanti si rivela un disco pieno di sfumature, di momenti di grande profondità, di contrasti funzionali, di una forza calibrata. Perché per formare al meglio un discorso musicale è fondamentale che ci sia uno spettro dal quale si possa pescare all'occorrenza. In questo modo la forza lo diventa ancora di più e i momenti riflessivi toccano profondità che tiranno fuori pensieri unici, molto spesso sommersi. 

Sombre Dessein


Un'altro aspetto che permette di capire la "bontà" di questo disco è il fatto che gli Herod partano dal fatto che la loro musica sia lo sludge metal, genere spesso acido, potente ma anche leggermente statico. Invece questo Sombre Dessein è un lavoro che pare la porta ad altri elementi, come quello del post rock e del post metal regalando passaggi ipnotici, reiterativi, tantrici. Per quello la sua capacità sorprende e finisce per guidarci attraverso una serie di mondi sonori e non solo. E' un viaggio affascinante, ricco, luminoso, seppur portato avanti in zone d'ombra. Personalmente è questa la chiave che mi porta a stimare molto positivamente questo lavoro. Mi regala spunti nuovi, idee che da per sé sono già molto originali ma coniugate prendono ancora più brillo. Originale, complesso, motivante, questo è un disco non annoia mai e che ci guida sempre attraverso strade nuove.

Sombre Dessein è appunto un'ombra che disegna. Si potrebbe pensare che il risultato dia soltanto una serie di creazioni monotonali ed invece quest'ombra è piena di sfumature e i propri disegni vanno guardati da vicino per riuscir a vedere anche i più minimi dettagli. Gli Herod sono stati in grado di costruire un disco rotondo e molto curato, un intreccio di idee musicali e non solo che tessono una rete impossibile da rompere. 

Herod


Pesco due brani che permettono di capire lo spettro musicale sul quale si muove la band.
Don't Speak Last, brano più lungo dell'intero lavoro, ricco di cambiamenti, di dense e cupe atmosfere che si rompono con l'energia della band. Forse questo è l'esempio che illustra al meglio quell'insieme de idee che convergono costruendo la musica che troviamo in questo lavoro.
There Will Be Gods, traccia di chiusura di questo disco, anche questa molto lunga e, dal mio punto di vista, quella più interessante. Un brano ipnotico che potrebbe appartenere a tanti generi diversi. E' nella reiterazione e l'aggiunta di nuovi elementi che si forgia la potenza di questo brano. Misuratamente denso, misuratamente intenso, un trionfo di coinvolgimento.


Ancora una volta mi ritrovo a lodare un lavoro dove l'apertura mentale e la voglia di creare mescolando delle carte è l'impronta principale. Un grande applauso dunque agli Herod e al loro modo di regalarci questo bellissimo Sombre Dessein. Un disco che, non ho dubbi, piacerà a tanta gente capace di sintonizzarsi con l'idea che custodisce. 

Voto 8,5/10
Herod - Sombre Dessein
Pelagic Records
Uscita 15.02.2019

Sito Ufficiale Herod
Pagina Facebook Herod

domenica 3 febbraio 2019

Labirinto - Divino Afflante Spiritu: l'intelligenza dell'unicità

(Recensione di Divino Afflante Spiritu dei Labirinto)


Perché mai a qualcuno in un qualsiasi posto al mondo dovrebbe venire in mente di fare qualcosa che nessun'altro fa intorno a sé? Perché mai qualcuno dovrebbe buttare le energie di anni ed anni in un progetto che non trova un eco immediato nel suo intorno? Perché mai qualcuno dovrebbe scegliere le strade più difficili invece di quelle più semplici? Perché siamo vivi, perché siamo unici, perché per più che vogliano indirizzarci in un punto solo noi facciamo quello che sentiamo, quello che ci fa innamorare, quello che ci riempe. Questo è un invito a uscire dalla strada e percorrere le lande inesplorate per il puro piacere di sentirsi vivo.

Divino Afflante Spiritu

Forse per chi si trova in Europa non è semplice avere la dimensione reale di quello che significa fare certi generi musicali in Latino America. Sarà una cosa culturale o un modo di vivere la vita ma certi generi trovano uno spazio così ricco che si nutre da fan scatenati ma altri invece stentano a crescere. Latino America è passionale, è energia, è rabbia, è malinconia. In questo contesto il fatto che una band come i Labirinto sia alle porte di pubblicare il suo decimo album è un'anomalia squisita. Il loro post rock, post metal sembra non essere sintonizzato sulla stessa lunghezza d'onda di quelle che possono essere le esigenze di un pubblico come quello brasiliano o sudamericano. Forse perché l'idea di canzone lì è fondamentale, perché le parole sono il legame più forte da creare e nutrire. E invece eccoli con il loro Divino Afflante Spiritu a regalarci una serie di brani intensi, sentiti, trascinanti, oscuri. Nulla a che fare con i cocktail dolciastri guardando il tramonto su un'infinita spiaggia. Brani densi che scorrono pesanti e intensi. Come se questo disco fosse nato in quelle nazioni dove l'inverno devi buttarti dentro alla sala prove e creare, creare e creare perché non puoi fare altro.

Divino Afflante Spiritu

Ma perché un gruppo brasiliano riesce a far nascere delle creature come queste? Credo che qui si racchiude la forza di Divino Afflante Spiritu. In questo disco i Labirinto fanno un lavoro poetico convertendo in musica quello che vivono e vedono. Brasile è un gigante pieno di problematiche sociali che sembrano accentuarsi nel caotico momento attuale che attraversa quasi tutti i paesi del mondo. Sarebbe facile buttarci giù due parole di protesta e incollarle con due accordi ma è un discorso fatto e rifatto. Invece loro riescono a prendere l'anima di questa rabbia, di quest'incertezza, di questa sensazione di sbagliato e la mettono a favore di un discorso musicale molto più trascendente, molto più alto e importante. L'oscurità della loro musica è spirituale, sentita, punzecchiante, vivida. Il loro post rock disegna lo stato della società attuale, la loro rabbia musicale diventa materia e viene utilizzata a dovere per costruire un panorama unico. Per quello s'intrecciano altri discorsi come quello del post metal, dello sludge e delle sfumature drone. Un intervento artistico tutt'altro che scontato e facile. 

Divino Afflante Spiritu

Sicuramente coinciderete con me nel dire che i brasiliani sono tra le persone più passionali di questo mondo. Ecco Divino Afflante Spiritu è un disco che trasuda passione, una passione costruita con l'intelligenza, con la capacità di prendere quello che si vive e trasformarlo in musica. I Labirinto fanno qualcosa di prezioso perché non è qualcosa semplice, non è qualcosa che tutti fanno, non è qualcosa che appartiene al DNA del Brasile ma lo fanno così bene che viene fuori un disco universale.

Labirinto

Pesco due brani da questo bellissimo lavoro.
Il primo è Agnus Dei, unico brano cantato di questo disco grazie al featuring di Elaine Campos, cantante brasiliana che riesce a regalare vocalmente quello che la band fa strumentalmente. Una rabbia viscerale che non diventa gratuita e semplice ma che ha uno sfondo profondo, ragionato, strutturato e intelligente. 
Il secondo è la title track, Divino Afflante Spiritu. Forse il brano più emotivo e toccante di questo disco. In un certo modo epico per la grandiloquenza che acquista. La qualità della band e il proprio percorso musicale viene completamente messo in evidenza con questo brano. Quest'intreccio tra malinconia, potenza, passione e un senso d'astrazione che fa osservare tutto da una certa distanza.


Divino Afflante Spiritu diventa pertanto un lavoro di grande intelligenza. L'intelligenza che spesso rende unico chi non insegue le stesse cose degli altri e non si lascia trasportare dalle prime reazioni. L'intelligenza è il marchio di fabbrica dei Labirinto, abili nel creare un discorso musicale che poco e nulla ha a che fare col loro intorno, e pure così il risultato coniuga magistralmente la loro scelta musicale con le sensazioni emotive che vivono ogni giorno. 

Voto 9/10
Labirinto - Divino Afflante Spiritu
Pelagic Records
Uscita 08.02.2019

Sito Ufficiale Labirinto
Pagina Facebook Labirinto

lunedì 31 dicembre 2018

MONO - Nowhere Now Here: qui e adesso solo per te

(Recensione di Nowhere Now Here dei MONO)


Quando studiavo nell'università un mio insegnante fece un semplice esperimento in classe per farci capire l'importanza della relazione tra suono, e musica, e immagine. Prese la scena di un celebre film di Hitchcock e ce la fece vedere prima senza altro audio che quello dei dialoghi per poi riproporcelo come era stato fatto originalmente. Inutile dire che senza il suono si perdeva un bel 70 percento dell'effetto voluto. Ma oggi il mio interesse è quello di capovolgere un po' questo esperimento o, piuttosto, di farvi riflettere in un altro modo. Immaginatevi di ascoltare un qualsiasi brano di un qualsiasi artista senza associare alcuna immagine a quello che state sentendo. Sono sicuro che per tutti, o quasi, è impossibile fare qualcosa del genere. Musica e immagine avanzano insieme dalla mano con urgenza e necessità. Per quello quanto si scrive non si deve mai perdere di vista le immagine che si dipingono, anzi, bisognerebbe insistere ancora di più in modo che vengano maggiormente esaltate.

Per i giapponesi MONO, veri leader dell'universo del rock strumentale diventa semplicissimo dipingere con la propria musica. Qualcosa che si potrebbe pensare che accada in modo abbastanza naturale perché il genere che hanno scelto di sviluppare è un genere che prescinde dalle "distrazioni" delle parole. Ma un conto è riuscir a evocare immagini, un altro è sviluppare un vero e proprio film nella testa dell'ascoltatore. Nowhere Now Here è il loro decimo album ed è l'ennesimo regalo che la band ci offre. Abituati a adattare la propria musica alle condizioni ottimali per giungere al loro scopo in questo nuovo capitolo la band presenta un cambio sostanziale, aggiungendo come quarto elemento del gruppo il batterista Dahm Majuri Cipolla, e modifica anche parte della loro capacità musicale aprendo la porta all'elettronica. Tutto quanto viene fatto, però, senza stravolgere la strada che hanno sempre percorso. Il risultato finale è intenso, luminoso, emozionante e mutevole. All'interno di questo lavoro veniamo attraversati da una serie di emozioni infinite, come se ciascuno di noi diventasse il protagonista di questo film sonoro e vivesse tutte le emozioni, le tensioni, le paure e le speranze che la band costruisce con la loro musica. Perché se qualcosa deve rimanere subito chiara è che c'è un'infinità di paesaggi emotivi che si susseguono rispettando uno sviluppo narrativo ben studiato. Ma non è solo quello, perché in un certo modo non è eccessivamente difficile riuscire a raccontare una storia con la musica. La complessità e bellezza di questo disco sta nel fatto che la band abbracci una scelta sonora-fotografica determinata. In altre parole è come se un regista si affidassi a un determinato direttore di fotografia che lavora in modo assolutamente particolare per aggiungere altro al suo proprio film. Molto probabilmente risulta intuibile che l'estetica e la scelta dei tempi corrispondano a quelli della scuola e filosofia nipponiche. 

Nowhere Now Here

Nowhere Now Here è un thriller noir giapponese. Come spesso capita con i capolavori diventa tanto importante la storia quanto tutto il sotto testo che si svela progressivamente. I MONO lo sanno. Sanno che quello che hanno costruito va molto più in là del mettere insieme una serie di canzoni che traducono dei momenti particolari di questa storia. Non si tratta neanche di individuare certi sentimenti e capire quale siano le tonalità e le direzioni da prendere per evocare al meglio quello che si sta raccontando. Sanno che la chiave del successo, o della realizzazione, si cella nell'insistere su certe idee attraverso d'immagini sonore che diventano così presenti da circondare l'ascoltatore che non è più un semplice ascoltatore-osservatore ma entra nel vivo della storia. Ben poco importa se quello che viene raccontato sia vicino o lontano dalle sue vicende. Perché quello che interessa sono i sentimenti, i legami che possono essere creati soltanto attraverso la capacità di far riflettere e di ritrovare aspetti più meno simili come intensità emotiva con quelli che vengono sviluppati. E tutto quanto senza parole, o quasi, perché un'altra particolarità di questo lavoro è che per la prima volta la bassista Tamaki canta un brano, emulando, in un certo modo la celeberrima Nico. A questo punto sorge spontanea, e in modo importante, una domanda: perché includere un brano cantato? La mia è solo una tesi ma credo che il perché vada cercato nel volere aggiungere un elemento in più a questa creatura. Un tocco di eleganza nostalgica, una carezza del vento, un soffio caldo in una notte fredda. Grazie a quel brano si aggiunge una grande delicatezza a tutto quello che viene raccontato. 

Il titolo di questo lavoro, Nowhere Now Here, è anche illuminate. Le storie importanti hanno luogo in un mondo inesistente, Nowhere, ma prendono vita in modo individuale per ognuno in un momento preciso, Now Here. Questa storia è una storia senza tempo e con tanto tempo. E' una storia da fare propria, come capita con i film dell'anima. Che importa se l'interpretazione che hai dato è diversa da quella di tutti gli altri! L'importante è che sai che quello che hai appena visto, e che rivedrai con grande piacere svariate volte, fa parte di te, ti ha arricchito e illuminato. Questa è la riuscita fondamentale dei MONO che ancora una volta dimostrano di essere maestri in quella delicatezza che riesce a circondare tutti quanti, senza alcuna forzatura, senza alcuna imposizione. 

Mono

Prendo tre brani che esemplificano fedelmente quello che ho cercato di spiegare in precedenza.
Il primo è Breathe, il brano cantato del quale avevo accennato prima. Sembra una voce irreale, una vicenda che si fatica a capire se è vera o frutto della propria immaginazione. E la voce diventa il centro fondamentale, tutto gira intorno ad essa, tutto viene alimentato da essa, tutto fa crescere essa. potrebbe sembrare una pausa in mezzo alle emozioni precedenti e successive ma non lo è. E' una chiave senza la quale diventa impossibile entrare nelle stanze che vogliamo assolutamente conoscere.
Il secondo è Far and Further. Credo che grazie a questo brano si riesca a capire abbastanza bene a cosa mi riferisco con la delicatezza che il gruppo riesce a portare avanti con la sua musica. Tutto diventa progressivo, come in una sessione di meditazione. Ogni nuovo respiro permette di addentrarsi ulteriormente in un mondo che finisce per essere molto diverso da quello che era prima. Non ci sono forzature ma improvvisamente ci si rende conto di essere arrivati quasi senza sapere in un luogo, fisico e dell'anima, assolutamente nuovo. Bellissimo, malinconico, perfetto.
Il terzo è Sorrow. E credo che grazie a questo brano si riesca a capire molto altro. Questo non è un disco felice, non è un disco luminoso, ma il modo nel quale la band riesce a parlare e occuparsi di questi sentimenti cupi è da dieci e lode. Il dolore diventa saggio. Non è uno shock ma un elemento fondamentale della vita come tanti altri. Tutti siamo destinati a soffrire prima o poi, tutti abbiamo dei dolori e questi sono interni, sono privati, sono motivo di rispetto. Ecco, in questo brano tutto ciò viene fuori. Perché prima lo si accetta prima si cresce.


Nowhere Now Here dà, come avete visto, tutta una serie di letture che potrebbero essere ancora molte altre se ci si dedica ad ascoltarlo ancora più attentamente e ripetutamente. Perché è un disco saggio costruito con la maestria di chi si ha un ruolo unico dentro al mondo del rock strumentale. Non è soltanto che i MONO l'hanno rifatto, è che i MONO ci hanno regalato un altro capolavoro forse inarrivabile. 

Voto 9/10
MONO - Nowhere Now Here
Pelagic Records
Uscita 25.01.2019

lunedì 29 ottobre 2018

The Ocean - Phanerozoic I: Palaeozoic: attraverso gli eoni

(Recensione di Phanerozoic I: Palaeozoic dei The Ocean)


Riflettendoci noi umani siamo quasi il nulla. Abitiamo un pianeta che esiste da molto molto tempo prima della nostra esistenza. La cosa contraddittoria che siamo proprio noi quelli che abbiamo modificato quanto più possibile l'equilibrio sul quale si basa tutto. Siamo noi che abbiamo avvelenato il pianeta e siamo noi che abbiamo il dovere morale di salvarlo, altrimenti andremmo incontro all'estinzione. E se la storia c'insegna qualcosa è che ci sono stati tanti altri abitanti della Terra che ormai non esistono più se non come reperti archeologici. Per quello dobbiamo cambiare e salvare il nostro mondo, altrimenti saremmo il reperto per qualcos'altro.

Trovo affascinante l'operato del collettivo The Ocean, progetto tedesco di post metal, che con ogni disco crea dei ponti tra il nostro presente e le diverse epoche geologiche che hanno governato il nostro mondo. Phanerozoic I: Palaeozoic è il loro ottavo disco ed è la prima parte dedicata all'eone Fanerozioco che si completerà con un secondo disco, con prevista uscita nel 2020. Dicevo che rimango affascinato dal tentativo di mettere insieme preistoria e presente, di riflettere e capire che cose ci accomunano e quali ci differenziano. In concreto il Paleozoico è celebre perché lì si verifica la maggiore estinzione di massa della storia. Viene spontanea la domanda: cosa abbiamo in comune oggi con quella era? Credo che la risposta radichi dentro all'aspetto metaforico, al fatto che noi uomini tendiamo a fare estinguere idee, progetti e tecnologie dando spazio a nuove evoluzioni. Ma la mia è solo una tesi, non necessariamente esatta. Sia come sia quello che è innegabile è che il peso storico, o preistorico, ha un riflesso nella musica di questo collettivo dando nascita a brani mastodontici, che hanno sempre un peso importante e imponente. Nulla è un caso e nulla è lasciato al caso. Si prova sin dall'inizio la sensazione di essere di fronte ad un monolite musicale di profonda coerenza. Un'opera che travolge e che si presenta così solida da accattivare l'ascoltatore. Non ci sono tregue, non ci sono respiri, non ci sono incoerenze o spazi per esperimenti. Tutto fila liscio come un blocco di giaccio che non vuole assolutamente fermarsi e per il quale si fatica a immaginare una forza che riesca ad arrestarlo.   

Phanerozoic I: Palaeozoic

Phanerozoic I: Palaeozoic è indubbiamente un disco di post metal ma quello che contraddistingue i The Ocean è il loro modo d'interpretare questo genere. Forse perché non è un genere longevo ma è tremendamente istruttivo vedere come i loro maggiori rappresentanti prendano delle strade diverse avendo in comune solo le sonorità tipiche di questo genere. Nel caso del disco del quale mi ci occupo quest'oggi come dicevo prima c'è una grande coralità che ci dimostra l'unicità della direzione intrapresa. Per quello, anche se ci sono momenti di calma ed interventi elettronici è indubbio che la band vada in modo convinto a ribadire una propria identità che ormai da anni è nota. C'è da registrare l'ospitata di Jonas Renkse, cantante dei Katatonia, che presta la sua voce in una delle tracce del disco, Devonian Nascent, regalando qualcosa in più a quello che viene già dato dal collettivo, ribadendo che quanto ci sono idee in comune nascono delle perle come quel brano. In altre parole questo disco è senz'altro una conferma di quello che abbiamo ascoltato nei sette precedenti album della band ma ci dimostra una compattezza ancora maggiore, un modo di far proprio un genere che regala tante sfumature.

Phanerozoic I: Palaeozoic ha quella potenza che nasce da quello che lo ispira e lo nutre. Questo è un disco mastodontico, sia come suono che come intenzione. E per quello poteva nascere soltanto dentro a un genere come il post metal e da una band come The Ocean. C'è qualcosa d'ancestrale nelle sue note e nella sua ritmica, qualcosa che sembra aver viaggiato nel tempo fino ai nostri giorni, qualcosa da decifrare con i codici attuali per così capire meglio la terra che ci ospita.

The Ocean

Scelgo due brani da questo massiccio lavoro.
Il primo è Cambrian II: Eternal Recurrence. Credo che questo sia il brano perfetto che va a sintetizzare quello che è l'intenzione del collettivo. Il loro modo d'interpretare il post metal e di utilizzarlo come miglior linguaggio per esprimere le proprie inquietudini artistiche. Per quello c'è una grande concretezza ma anche quel sapore di sacro, di antico, di incancellabile. E' un blocco di pietra che ha sopravvissuto ad eoni ed eccolo lì, di fronte a noi.
Il secondo è il prima nominato Devonian Nascent. Non è soltanto d'obbligo nominarlo per via della presenza di Jonas Renkse ma anche per il modo nel quale questa presenza cresca con questo brano e come questo brano cresca grazie a lei. E' qualcosa che non ascolteremmo mai nei Katatonia e, nello stesso tempo, una sfumatura assolutamente diversa dentro alla musica del collettivo. Una collaborazione artistica che c'entra perfettamente il suo scopo. Brano prezioso da riascoltare fino alla stanchezza. 



Phanerozoic I: Palaeozoic è quindi un regalo dal passato remotissimo, una testimonianza viva di quello che forse non riusciamo neanche ad immaginare.I The Ocean in un certo modo ci ricordano con questo disco che noi, umani, non siamo i proprietari del nostro pianeta ma siamo ospiti. Ci ricordano anche che la storia c'insegna quanto facile sia l'estinzione e l'evoluzione. E' una specie di monito d'allerta da ascoltare assolutamente.

Voto 9/10
The Ocean - Phanerozoic I: Palaeozoic
Metal Blade Records/Pelagic Records
Uscita 02.11.2018

Sito Ufficiale The Ocean
Pagina Facebook The Ocean

domenica 21 ottobre 2018

Wang Wen - Invisible City: come si colora qualcosa d'invisibile?

(Recensione di Invisible City dei Wang Wen)


La nostra Terra è un essere vivo e noi umani, generazione dopo generazione, siamo delle specie di cellule che alimentano o distruggono. Per quello è indubbio che in qualsiasi nazione, in qualsiasi città, in qualsiasi paese, la cosa fondamentale sia quella di prendersene cura delle generazioni giovani. Perché sono loro quelli che tramandarono i corretti insegnamenti, saranno loro a tenere in salute il pianeta o a distruggerlo sempre di più. E, alla loro volta, ripeteranno l'insegnamenti ai giovani del futuro. L'educazione è tutto, è la frontiera tra un fallimento e un trionfo, tra la perseveranza della memoria e la superficialità dell'amnesia. 

Tutto mondo è paese. Così si suol dire e a quanto sembra è veramente così. Possiamo avere differenza culturali ma certi aspetti rimangono sempre immutati. Per quello l'ascolto di Invisible City, dei cinesi Wang Wen, dei quali mi occupai qualche tempo fa col loro disco precedente, Sweet Home, Go!, ha la magia di diventare trasversale e di unificare le realtà concrete di tanti paesi. Non importa che la Cina sia il gigante della terra, non importa che la loro economia fiorisca e cresca sempre di più. Certi problemi sono comuni a loro come possono esserlo a un piccolo paese sperduto nel centro dell'Europa o di una città ormai decadente del Sud-america. 
Da dove viene fuori questa affermazione? Dal fatto che come la band stessa dichiara, questo nuovo lavoro risponde alla triste realtà della loro città nativa, Dalian, città del nord della Cina che anche contando con più di sei milioni di abitanti vede come intere generazioni di giovani vadano via a cercare migliori prospettive economiche. In questo modo la città popolosa si trasforma in una città fantasma. Ma come dimostrano i brani contenuti in questo lavoro questo è un disco di speranza, un disco che pretende dare nuovo colore alla città in modo che sia apprezzata da tutti.

Invisible City

I Wang Wen hanno una grande capacità, ed è quella di essere assolutamente globali. Sicuramente aiuta molto il fatto che la loro scelta musicale sia quella del post rock, cioè creazioni strumentali che non lasciano alcuno spazio alla presenza vocale. Chi ascolterà, o ha già ascoltato Invisible City, sarà d'accordo che quello che si ascolta in questo disco potrebbe provenire da qualsiasi angolo del mondo. Ed è qui che voglio soffermarmi un po', perché dal mio punto di vista non è assolutamente semplice o scontato che sia così. In queste note, intrecciate meravigliosamente, non c'è uno sforzo "patriotico" ma bensì l'individuazione di quello che è la parte midollare, cioè il fatto che una città è viva e visibile grazie alla nuova linfa delle generazioni giovani. Perché le città sono creature viventi, sono essere che mutano, che cambiano pelle, che migliorano o peggiorano, che accolgono o rigettano, che affascinano o inorridiscono. Per quello abbiamo centinaia di esempi di città che hanno saputo reinventarsi regalando un nuovo fascino nascosto. Per quello questo disco è un disco di speranza, un invito a osare, a convincersi che quella città può essere la tua propria casa.

Invisible City ci pone una domanda fondamentale: come si colora qualcosa d'invisibile? La riposta dei Wang Wen è bellissima: con la musica. E quali sono i colori che riempiono l'aria? Quelli globali, quelli dell'appartenenza locale ma anche quella degli angoli più remoti del mondo. Per quello questo disco è per tutti, per quello è bello, per quello ascoltarlo fa bene, perché ci sono molte più città invisibili da quanto crediamo.

Wang Wen

Come faccio ogni tanto non credo che sia corretto limitarsi all'ascolto di poche tracce ma questo lavoro merita di essere inglobato nella sua totalità, ma prendo quello che per me rappresenta i momenti salenti.
Lost in Train Station. Brano volutamente confusionario che prende come riferimento una stazione di treni, che può essere caotica, crudele, malfamata, stressante. La via di fuga ma anche di un ritorno non sempre desiderato. L'emozione di un addio, le lacrime di una madre che vede partire il proprio figlio. Per quello perdersi in quella condizione diventa un'esperienza ancora più forte e devastante.
Silenced Dalian. Non c'è alcun dubbio sul fatto che questo disco abbia come musa la città di Dalian ma molto probabilmente è in questo brano che quest'amore diventa ancora più diretto. E non c'è nulla di peggio di vedere che il tuo proprio amore non è più quello che era e adesso vaga silenzioso ricordando tempi migliori. Per quello questo brano è nostalgico per poi diventare rumoroso, perché s'impone di riempire gli spazi vuoti. L'iniziativa è un bocciolo se è giusta ed indubbiamente Dalian si riempirà di fiori.


Invisible City è una dichiarazione d'amore verso la propria città. Ma è anche una proposta, una nuova via, un invito a far circolare nuovo sangue per rendere migliore quello che esiste adesso. Quello che Wang Wen cercano non è soltanto comunicare, solo con la musica, la loro realtà, ma anche essere una pietra miliare per creare una nuova corrente, e chi lo sa, forse tra qualche anno sentiremmo parlare di Dalian in un modo luminoso.

Voto 9/10
Wang Wen - Invisible City
Pelagic Records
Uscita 28.09.2018

mercoledì 10 ottobre 2018

Set and Setting: Tabula Rasa: ripartire da cento

(Recensione di Tabula Rasa dei Set and Setting)


Forse uno dei concetti ricorrenti di questo blog è quello di scovare dischi e band che cerchino di dare una nuova luce a quello che potrebbe sembrare già esistente. Gruppi che regalino qualcosa di nuovo in un mondo dove spesso sembra tutto inventato, suonato e risuonato. Ed è difficilissimo, perché c'è sempre il conto di quello che si è masticato musicalmente, di quello che ogni musicista ama e integra nella sua propria musica a limitare questa libera creatività. Tra l'altro non è neanche possibile, anche se più di qualcuno l'ha fatto, lasciare via libera alla libertà compositiva, perché si cade in una sorta di caos musicale. Tutto questo rende affascinante la possibilità che ho di ascoltare continuamente musica nuova ed è quello che m'impulsa a non mollare mai.

Tabula Rasa

In mezzo a tutte le felici e nuove scoperte, per me, oggi tocca parlarvi di un gruppo che, anche se ci presenta già il suo quarto LP, fino a poco tempo mi era sconosciuto. Il gruppo in questione si chiama Set and Setting e fino ad adesso è riuscito a dare dei grandissimi salti in poco tempo. Sicuramente per via dell'entusiasmo creativo che si sente con chiarezza e per il pregevolissimo risultato dei loro lavori. L'ultimo in questione ha per titolo Tabula Rasa ed è interessante questionarsi se il fatto di aver dato tale titolo a questo disco sia un modo di ripartire, di mettere da parte quello che è stato fatto fino ad adesso e di dare un nuovo impulso alla propria musica. Nel loro caso questa scelta diventa abbastanza particolare, perché trattandosi di una band strumentale da una parte sembra più facile percorrere nuove vie ma d'altra non avere la presenza di una voce o di parole potrebbero limitare il tutto. Ma esplorando questo disco scopriremmo che questo lavoro in realtà è espansivo dando tanti sfumature equidistanti. 

Tabula Rasa

Qualcuno ha definito i Set and Setting come il risultato di una ipotetica collaborazione tra i Russian Circles e i primi Pink Floyd. Ascoltando Tabula Rasa quest'impressione non mi sembra quella più efficace perché la bilancia tende a cadere dalla parte della prima band senza avere tantissime luci per accostarlo ai mostri sacri del rock psichedelico e progressivo. Ma l'elemento che gioca assolutamente a favore dei Set and Setting è il fatto che questo disco sembra aver dei confini molto molto ampi, limitati solo, per modo di dire, al fatto che siamo di fronte a un lavoro strumentale. Sarà per quello che come definizione si tende a parlare di strumental rock, termine tanto ampio quando dispersivo. Cercherò, dunque, di scavare un po' di più. Indubbiamente la musica che si sviluppa nelle nove tracce di questo lavoro ha come riferimento principale quello del post rock, portandoci così alla mente band come i prima citati Russian Circles ma anche i Pelican o, e questa è un'apertura molto interessante, gli spleepmakewaves. Tutti gruppi che hanno la capacità di dipingere grazie alla propria musica. Quello che risulta particolarmente interessante, nel disco del quale mi sto occupando adesso, è che non si disdegna assolutamente il fare ricorso a una serie di sonorità che potrebbero sembrare più distanti di quello che normalmente fa la band. Per quello ci sono delle parti assolutamente grintose dove si sente chiaramente una radice di post metal, andando poi a creare delle atmosfere che all'occorrenza passano dal cupo al luminoso, con l'ausilio di parti che potrebbero sembrare più drone ed altre appartenenti all'ambient. In altre parole l'intento sembra quello di, tenendo sempre in mente l'appartenenza e la personalità del gruppo, andare a pescare in tutti i confini possibili la possibilità di fare crescere la propria proposta.

Tabula Rasa

Per quello Tabula Rasa non sembra affatto essere un nuovo inizio o, piuttosto, invece di azzerare tutto si propone di esaudire al meglio, e quanto più approfonditamente possibile, quello che viene raccontato utilizzando soltanto degli strumenti. La gioventù dei Set and Setting sembra essere usata come un modo spregiudicato di aggiungere quante più cose possibili per costruire al meglio il proprio mondo sonoro. Scommessa coraggiosa ma che viene assolutamente ripagata regalando un disco solido e mai monotono.

Set and Setting

Prendo due brani che permettono abbastanza chiaramente di capire come si sviluppa il mondo sonoro di questo disco.
Il primo è Revision Through... brano che sembra volutamente essere collegato a quello successivo del disco, cosa che si ripeterà anche con altre coppie di brani. Questa prima parte è pesante, schiacciasassi, facendo capire come la band non si fa problemi a spaziare nella scelta strumentale per riuscire a creare il giusto ambiente. Ma la cosa fondamentale, che deve rimanere impressa, è che tutte le scelte vengono fatte con un'unica linea sonora. Infatti il suono scelto non è mai metal rimanendo sempre molto pulito, anche quando la grinta è al massimo.
Il secondo è Elucidation. Qui andiamo nell'altro estremo. Brano bellissimo, quasi minimale, dove tutto è piacevole, incantevole. Ci sono brani che profumano di natura, di fiore, di erba bagnata: questo è uno di loro. L'utilizzo della tromba è assolutamente azzeccato, regalando una dimensione onirica molto interessante.


Tabula Rasa è un bel compendio di brani costruiti seguendo una logica molto chiara. I Set and Setting costruiscono delle storie, o dipingono le stesse, portando l'ascoltatore a vivere dall'interno tutto quanto. Passando da un estremo all'altro con naturalezza, con la fragilità di essere riusciti a costruire un disco completo, maturo e imponente.

Voto 8/10
Set and Setting - Tabula Rasa
Pelagic Records
Uscita 12.10.2018 

venerdì 23 giugno 2017

Bison - You Are Not the Ocean You Are the Patient: la verità davanti a te

(Recensione di You Are Not the Ocean You Are the Patient degli Bison)


La verità è che l'umanità è bella incasinata. La verità è che viviamo tra illusioni e realtà. Ci fanno credere di essere fondamentali, di poter governare le nostre proprie vite ma molto spesso ci ritroviamo ad essere schiavi di un sistema maggiore. Siamo solo merce, siamo solo dei potenziali clienti che devono assolutamente comperare quanto più possibile. La ribellione è un'illusione, è un'utopia che ci fanno credere per tenerci buoni. Non siamo degli oceani, anche se ci piacerebbe tanto, siamo dei pazienti che si sono ammalati inconsapevolmente di una malattia che non conosciamo proprio.

C'è un certo genere di musica che riesce a funzionare come un pugno in faccia. E quella capacità non dipende dalla "violenza" o dall'impatto del proprio messaggio. C'è qualcos'altro che regala questa caratteristica a quello che si ascolta. Lo sludge metal ce l'ha. Forse è una cosa di estetica, forse è il modo martellante di avanzare di ogni traccia, noncurante di tutto quello che può succedere intorno. Per quello il disco che oggi recensisco, che ha il lunghissimo titolo di You Are Not the Ocean You Are the Patient, suona come un forte e chiaro esempio di quello che è buttare in faccia un sacco di realtà che possono arrivare a far male. Dietro a questo lavoro ci sono i Bison, esperimentata band canadese fresca di cambio di casa discografica, passando alla Pelagic Records dopo una lunga residenza nella Metal Blade Records
Il titolo di questo disco è molto eloquente e ci mette dentro alla dimensione di quello che la band cerca di comunicare. Come detto prima siamo di fronte ad un lavoro senza mezze misure, senza poesia sommersa, senza intenzione di essere "piacevole" ma di essere quanto più chiara, trasparente e diretta possibile. 

You Are Not the Ocean You Are the Patient

In You Are Not te Ocean You Are The Patient ci ritroviamo con un disco marcatamente sludge. Un muro sonoro compatto che lascia spiragli di luce dai quali si filtra un breve spazio per misurati assoli di chitarra. I Bison sanno che la carta vincente è quella della concretezza e per quello non si perdono in grandi aperture. Vanno direttamente al punto, senza mai abbassare la loro dinamica in modo significativo. Non hanno altre intenzioni di quelle di aprire gli occhi ad una dicotomia molto interessante, che in realtà gira intorno ad un solo concetto: la verità. Verità che da una parte significa capire la propria dimensione tenendo chiaro che è impossibile cercare di diventare quello che non si sarà mai. Ma anche la verità che non ci è acconsentito vivere. In un modo o nell'altro siamo oppressi a tal punto da dimenticare quello che veramente significa vivere. Siamo tutti subdoli schiavi da qualche dipendenza, dove, aggiungo io, entra molto significativamente in gioco la dipendenza dell'apparire, di dimostrare che siamo tutti "cool". 

Nella crudezza sta la bellezza. Non è una frase fatta o facile ma la realtà di questo You Are Not the Ocean You Are the Patient. E' così consistente quello che ci arriva che non ci soffermiamo a vedere quello che c'è veramente sotto. E i Bison sono pronti a sorprenderci con arrangiamenti che sono tutto tranne che scontati. E' questo il loro gioco, essere una metafora sonora della vita. O pensiamo di essere troppo speciali e siamo troppo anonimi per sentire di poter essere validi, ma la realtà sta in mezzo, sta nelle sfumature che di giorno in giorno rendono speciale la vita, in mezzo a tutte le altre cose che ci vengono imposte e dalle quali faremmo volentieri a meno.

Bison

Parlavo dei sorprendenti arrangiamenti di questo disco, e mi preme spiegarmi meglio. La parte sorprendente sta nel fatto che sono inattesi per un genere come questo.
Per quello quando in un brano come Tantrum si sentono strumenti classici come corde, presumibilmente un violoncello, ed un flauto traverso si capisce dove sta la bellezza. Nessuno di questi strumenti diventa protagonista e lo sludge non perde proprio le proprie caratteristiche ma viene fuori un brano bellissimo.
Per quello The Water Becomes Fire lascia di nuovo spazio ad aperture musicali che ricordano in parte quello che fanno gruppi come i Neurosis. C'è una certa epicità in quello che viene suonato, nel modo nel quale il brano scivola da un introduzione molto intima ad uno sviluppo molto estroso, per poi ricadere ossessivamente in quella ipnotica atmosfera.



Lo riconosco, You Are Not the Ocean You Are the Patient è un disco che necessita di parecchi ascolti perché ogni volta cresce. E' un disco molto intelligente perché non perde mai le proprie caratteristica che lo rendono contundente, ma andando oltre di può capire che c'è tanto altro, che, come ho detto prima, siamo di fronte ad una metafora musicale di quello che è la vita, di quello che possiamo essere, e non siamo, e di quello che non potremmo mai essere, ma che diventa una ricerca ossessiva. Lavoro azzeccatissimo dei Bison.

Voto 8,5/10
Bison - You Are Not the Ocean You Are the Patient
Pelagic Records
Uscita 23.06.2017



martedì 13 giugno 2017

Wovoka/LLNN - Traces/Marks: completarsi per arrivare alla meta

(Recensione di Traces/Marks di Wovoka/LLNN)


Avvolte l'importante non è come si arriva ma dove si arriva. La meta è qualcosa che deve sempre essere presente. Dev'essere un pensiero ossessivo ma positivo. Dev'essere la direzione che indica la nostra bussola personale e non dobbiamo mai distoglierci da quella indicazione. Nella musica ci sono tanti esempi di gruppi o artisti che hanno intrapreso delle strade molto diverse ma che sono arrivati alla stessa meta. Sicuramente, se siete assidui lettori di questo blog, o anche occasionali, avrete capito che per me la musica è una filosofia di vita, un riflesso di quel che ero, quel che sono e quel che voglio essere.

Quest'oggi è un nuovo split album a tenermi impegnato, ma si tratta di uno split molto particolare perché divide in modo molto personale lo spazio dedicato alle due band impegnate. Queste band sono i danesi LLNN e gli statunitensi Wodoka e la divisione di questo Traces/Marks dimostra sicuramente quello che ciascuna band sa fare meglio. Per quello ai danesi vengono "riservati" ben sei tracce e agli statunitensi "solo" una. L'utilizzo delle virgolette è d'obbligo ed esige un approfondimento. Questa disparità divisoria delle tracce corrisponde alla natura delle stesse tracce. Nel caso dei LLNN abbiamo una serie di brani sanguini che mettono in chiaro il messaggio ricercato dalla band senza troppi giri. Per quello sono delle canzoni dirette, che non vogliono assolutamente perdersi in sviluppi che potrebbero sembrare sterili e controproducenti. Questo vale per tutti i brani tranne uno, l'ultimo della loro parte di split. Il brano in questione, intitolato Gravitated, è il ponte perfetto all'entrata in scena dei Wodoka che con la loro unica canzone ci regalano un momento epico lungo ben 17 minuti. Qualcuno potrebbe dire che non è corretto che succeda qualcosa del genere, che artisticamente è un problema, che non c'è coerenza. Ed invece questo disco non è soltanto pieno di coerenza ma è anche pensato e studiato alla perfezione, regalando un relato sonoro meraviglioso, un'opera coesa sorprendente.

Wovoka/LLNN

Quello che unifica questo Traces/Marks è la visione generale che c'è dietro a questo disco. Quello che viene dipinto in questo lavoro è un mondo apocalittico dove la bellezza è stata completamente spezzata via. La cosa interessante è che entrambe le band hanno scelto modi diversi di raccontare questo mondo. Da parte degli LLNN abbiamo un'interpretazione post apocalyptic hardcore. Invece i Wodoka ci regalano un lavoro sludge/post metal. Torniamo dunque alla coerenza di questo split e a come due gruppi che appartengono a due mondi musicali diversi riescono a costruire un lavoro ottimo. Bisogna tornare all'introduzione fatta in questo post e a capire come, percorrendo delle strade diverse, si arriva alla stessa meta. E' quello che accade in questo split. Ogni band regala la sua interpretazione di un punto d'arrivo identico. E sono le differenze nell'interpretazione quelle che fanno diventare ancora più grande questo lavoro, perché dall'energica voglia di buttarci dentro a questo mondo post apocalittico andiamo a qualcosa di più trascendentale, a quella riflessione che fa capire perché siamo dove siamo. 

Traces/Marks

Traces/Marks riflette già nel proprio titolo la differenza essenziale regalata dalle due band, LLNN e Wodoka, andiamo dalle tracce, da quello che ci fa intuire a le marche, quasi macchie e cicatrici, che bruciano come ferite aperte. Perché un conto e vedere quello che è successo ad altri, ed un altro conto e viverlo sulla stessa pelle. Ecco, questo split ce lo fa vivere addosso, ci fa sentire che il caos apocalittico è dentro ad ognuno di noi, e che se siamo arrivati a quel punto è perché l'abbiamo acconsentito. Questo è un disco che ci fa sentire e vivere questo mondo per poi farci riflettere sullo stesso. E' uno split perfetto, dove quello che manca a una delle band viene dato dall'altra.

Traces/Marks

Ripeto che è essenziale e necessario ascoltare questo disco intero. Non farlo sarebbe, purtroppo, tremendamente riduttivo perché non si capirebbero i collegamenti magistrali fatti dalle due band. Infatti l'entrata in gioco della seconda sembra completamente naturale e necessaria. Ma visto che normalmente tendo ad illustrarvi nello specifico qualche brano in particolare pesco due canzoni.
Per i LLNN la traccia che scelgo è The Guardian, brano che apre questo lavoro. Intenso, oscuro, complesso e, nello stesso tempo, diretto. Chitarre acidissime che dialogano con tastiere apocalittiche mentre una voce urla le proprie sensazioni. C'è un bellissimo modo di raccontare, un modo che è diretto come un pugno alla pancia ma che porta molto di più e molto altro. Bellissimo dentro alla sua caotica dimensione.
Per i Wovoka non c'è molta scelta ma in realtà non serve averla. Il loro brano è una canzone mastodontica e preziosa. S'intitola Traces e ricorda molto il lavoro di band come i Cult of Luna. Con quell'epicità oscura è capace di parlarci da dentro. Non stanca mai e si muove dentro a delle acque turbolenti dove le turbolenze vengono provocate da noi stessi. Veramente meravigliosa.


Magari ci fossero più split come questo Traces/Marks perché la dimensione finale di quello che c'è dentro a questo lavoro è un lavoro di potenziamento di quello che fa ogni gruppo. Quello che uno non ha viene completato dall'altro. Mettere insieme due band che potrebbero sembrare molto diverse, come LLNN e Wovoka è stato un azzardo geniale.

Voto 8,5/10
Wovoka/LLNN - Traces/Marks
Pelagic Records
Uscita 16.06.2017