martedì 6 marzo 2018

A Cunning Man - To Heal a Broken Body: un faro scozzese

(Recensione di To Heal a Broken Body di A Cunning Man)


Forse nella musica la cosa più difficile è quella d'iniziare. Avere la possibilità di aprirsi una strada e di raggiungere quanta più gente possibile. Viviamo dentro a un grande paradosso, perché da una parte sembra molto più semplice arrivare ovunque e avere la possibilità di diffondere quello che si fa ma, d'altra parte, c'è una tale saturazione di proposte e di artisti che fanno più o meno le stesse cose che diventa molto più difficile emergere. Molto spesso il talento si esprime in modi diversi e una capacità che diventa ancora più importante nei nostri giorni è quella di sapere vendersi, di riuscire a dare un'immagine così brillante di quello che si fa da obbligare la gente a ascoltarti e conoscerti. Insomma, la musica è un oceano pieno di squali pronti a sbranarti, per quello bisogna imparare a nuotare molto bene o a diventare squalo, mica semplice.

Se c'è un criterio che utilizzo all'ora di recensire qualche materiale è quello di essere toccato da quello che ascolto. Non m'importa se dietro c'è un artista "grande", "nuovo" o "vecchio". Non m'interessa se l'artista in questione ha un sacco di followers o se non ha proprio alcuna pagina social. Per quello le mie recensioni sono generalmente positive, perché quello che non mi piace non lo considero proprio. In quest'avventura di scrittura di questo blog ho avuto il piacere di essere spesso e volentieri contattato da artisti o case discografiche ricevendo delle proposte interessanti. La conferma di tutto quanto ritorna ancora una volta grazie all'EP del quale vi parlo quest'oggi. Si tratta di To Heal a Broken Body della one man band scozzese A Cunning Man. Questo è il secondo EP dell'artista Ged Cartwright, mente che si cela dietro al progetto. I motivi per i quali vi parlo di questo lavoro sono legati al fatto che siamo di fronte a qualcosa di molto ben concepito, molto coerente e che basa la propria originalità nel riuscir a mettere insieme tutta una serie di generi riuscendo a creare un linguaggio proprio.

To Heal a Broken Body

To Heal a Broken Body è, anzi tutto, un EP divertente. Le tre traccie che lo costruiscono scivolano via con facilità e lasciando un'ondata di piacere. A Cunning Man ha la qualità di riuscire a fare della sua musica un'insieme complesso ma che finisce per prendere una direzione abbastanza chiara. Dal mio punto di vista perché la mentalità che c'è dietro alla stesura di questi brani è una mentalità progressiva. Per quello il metal, incontra aspetti più classici e li mette insieme con altre idee che appartengono più chiaramente a generi come il jazz o la musica classica. Ma occhio, perché il punto che unisce tutto quanto è sempre il metal. Se dovessi fare un paragone direi che quello che possiamo ascoltare in questo disco è un po' un mix tra le proposte dei Leprous e di Devin Townsend con l'epicità dei Blind Guardian, tutto quanto nutrito da un aspetto assolutamente non minore: l'orgoglio scozzese. 

To Heal a Broken Body

Non ho alcun dubbio che A Cunning Man merita una platea ampia, perché la sua musica è interessante, è complessa senza mai perdersi in mezzo a questa complessità. To Heal a Broken Body è un lavoro molto superiore a tante proposte che mi capitano di ascoltare. Ma l'aspetto che lo esalta maggiormente è la concretezza del suono, aspetto assolutamente non banale considerando che si tratta di un progetto di vita recente. Anzi, questo lavoro fa venire fame e curiosità oltre a catapultarci nel cuore della Scozia.

A Cunning Man

Questo lavoro è composto di tre brani.
Il primo Lemegeton & the Leaden Saviour funziona perfettamente. E' un brano divertente, emotivo, epico. Una perfetta apertura che lascia anche molto chiaro da che parte del mondo proviene questo progetto.
Il secondo s'intitola Picatrix & the Calcine Alchemist ed è un brano che fa capire molto chiaramente la componente letteraria della band, che racconta con musica e parole quello che vive e vuole.
Abramelin & the Silver Hand chiude quest'EP. Sembra un brano marinaio, quasi un'inno popolare che ha attraversato il tempo. Ma subito dopo prende un'altra sfumatura  e ci indirizza in una dimensione molto più progressiva. Divertente ed epico.


A Cunning Man è uno di quei progetti che meritano attenzione e incoraggiamento. Questo perché dimostrazioni come To Heal a Broken Body fanno capire che c'è sostanza nella musica che viene proposta direttamente dalla Scozia, e che questa sostanza è costruita d'originalità e dalla capacità di creare un messaggio coerente e personale. A questo punto non ci resta che aspettare con piacere un primo LP che possa essere diffuso a grande scala.

Voto 8,5/10
A Cunning Man - To Heal a Broken Body
Autoprodotto
Uscita 23.02.2018

lunedì 5 marzo 2018

Antlers - Beneath.Below.Behold: osservare l'abisso

(Recensione di Beneath.Below.Behold degli Antlers)


Vi siede mai fermati a chiedervi quanto vi sentite rispecchiati dal mondo nel quale vivete? Vi siete mai chiesti quanto sentite di avere in comune con le persone che vi circondano, col governo che è al potere, con la musica che trasmettono in radio e in tv? Questo blog è un blog di resistenza perché è destinato a persone che come me sentono di avere ben poco in comune col mondo "standard". Non si tratta di una falsa presunzione o della voglia di essere elitisti ma è una consapevolezza profonda maturata nel corso degli anni. E per quello la maggioranza dei dischi dei quali vi parlo sono dei dischi per pochi. Dischi che molto spesso sono in contrapposizione con quello che si considera "normale". Dischi che fanno capire che il mondo è molto più complesso, ricco ed intimo di quanto convenga. Dischi, dunque, che hanno una grande intelligenza dietro.

Il secondo disco dei tedeschi Antlers è un disco che già nel suo titolo fa capire che direzione prende. Questo lavoro si chiama Beneath.Below.Behold come se tutto quello che vediamo ha un opposto, un lato oscuro, un elemento che equilibra completamente tutto quanto. E la consapevolezza di tutta quella parte è forse quella che rende più saggio l'essere umano. Per quello questo è un disco che non cerca assolutamente di essere luminoso o speranzoso. Questo è un disco che si nutre di abissi, della profondità della disperazione dell'anima in certi momenti e certe circostanze. Per quello è un disco che scende come una valanga, senza alcuna intenzione di ammorbidire il proprio messaggio, senza alcuna intenzione di passare per quello che non è. Ma la cosa interessante di questo lavoro è che regala un sacco di spunti che permettono di capire che fare un esercizio del genere non è soltanto necessario ma diventa anche qualcosa d'istruttivo.

Beneath.Below.Behold

In certi momenti Beneath.Below.Behold sembra quasi di essere un lavoro eccessivo, dove ci sono troppi elementi messi insieme che non permettono di trovare un respiro ma in altri si verifica proprio il contrario. Sono in queste aperture che la musica degli Antlers raggiunge le quote più alte ed importanti, perché è in quei frangenti che si capisce che è difficile limitare quello che viene suonato a uno o un paio di generi. E' indubbio che si parte da un black metal sporco, che ricorda in parte quello che viene fatto da gruppi come Urfaust ma c'è anche una grande ricerca di quello che è un aspetto più malinconico e melodico, liberando così qual muro sonoro per lasciare spazio a passaggi melodici molto più puliti. Qui è dove diventa difficile classificare questo lavoro, perché qualsiasi aggettivo che posso attribuire rischia di diventare fuorviante e di non riportare a pieno quello che è lo sforzo musicale della band. Per quello può essere più utile definire quello che sono le idee che impulsano la creazione di questi brani piuttosto che il generi dai quali vengono conformati.

Beneath.Below.Behold

Beneath.Below.Behold non è soltanto un disco d'opposizione. Non è soltanto un lavoro che vuole evidenziare tutto quello che può sembrare oscuro ed improprio. E' un lavoro che invita a osservare per capire. Perché non c'è nulla di peggio che temere quello che non si conosce. Non sapiamo spiegare qualcosa, allora la mitizziamo e la temiamo. Il messaggio degli Antlers sembra proprio rivolto a non cadere in questa dinamica sbagliatissima. Non solo, sembra anche voler farci capire che i mostri che temiamo sono molto spesso creati da noi stessi, dalla nostra complessità come esseri viventi.

Antlers

Riscatto in modo particolare due brani di questo lavoro.
Il primo è Theom perché permette di capire quello che vuole fare la band, cioè prendere una strada dove il "molto"  viene messo in contrasto con la possibilità di avere delle parti molto articolate e diverse. Mi spiego meglio. In certi momenti sembra di essere di fronte ad un brano sovraccarico, dove la parte ritmica spesso copre tutto il resto, ma andando ad ascoltare con cura viene fuori che quell'intrecciarsi di queste diverse linee creano un mondo sonoro complesso ma molto interessante allo stesso tempo.
Il secondo è Metempsychosis. Qui abbiamo una maggiore dinamicità, con giri che si susseguono diversamente, lasciando anche spazio a ritornelli più corali, a più voci. Mentre il primo brano che ho indicato sembra essere più "moderno" questo qua dà l'impressione di essere più classico.

Beneath.Below.Behold è uno di quei dischi che sembrano trovarsi così dentro a certi mondi sommersi da non essere sempre facilmente ascoltabili. Ma quando vengono presi col giusto spirito ed impegno lasciano degli spunti assolutamente interessanti. Una lotta non facile per gli Antlers ma per chi arriverà alla comprensione estesa di questo lavoro ci saranno nuovi confini molto più lontani da quelli preesistenti.

Voto 8/10
Antlers - Beneath.Below.Behold 
Totenmusik/Ván Records
Uscita 06.04.2018

domenica 4 marzo 2018

Hemelbestormer - A Ring of Blue Light: otto bilioni di stelle in una stanza

(Recensione di A Ring of Blue Light dei Hemelbestormer)


C'è musica che sa di vento. Di quel vento fresco, quasi gelido, che rianima tutto. Quel vento che pulisce, che spazza via tutto quello che vuole radicarsi quasi come se fosse un parassito. C'è musica che ha quel potere. E' facile, basta poco, non importa il momento o il luogo, basta lasciar andare la musica e le conseguenze, positive, vengono subito a galla. Ci si sente rinati, ci si sente figli di un momento nuovo che riesce ad illuminare nuovi angoli dentro di noi, angoli che magari c'eravamo dimenticati, figli dei fatti, fatti che ci limitano terribilmente. La musica è un soffio deciso, potente, sempre pronto a ridarci una nuova energia, a dare senso a quello che molto spesso non ha molto senso. Per quello scrivo e scrivo, per quello ascolto e ascolto, con la speranza che quello che mi colpisce colpisca anche molti di voi.

Nell'oceano di nuove proposte che nascono di giorno in giorno è facile perdersi e non ritrovare nuovi stimoli. E' facile imbattersi in progetti che sembrano troppo simili ad altri, sensazioni musicali che non sono del tutto nuove. Per quello quando capita tra le mani un lavoro come A Ring of Blue Light non solo bisogna essere felice di aver trovato la possibilità di ascoltare un disco come questo ma bisogna esaltare tutte le caratteristiche che creano la possibilità di vivere dei momenti preziosi ascoltando un disco ermeticamente prezioso. Questo è il secondo lavoro degli olandesi Hemelbestormer e la sua capacità d'affascinare l'ascoltatore, come ha affascinato me, è dovuta alla perfetta riuscita dello scopo della band, cioè quello di mettere insieme tutta una serie di generi al servizio di un'idea: quella di ricreare atmosfere intense, bellissime e ricercate. Se c'è un disco che, ultimamente, diventa un soffio di aria pulita questo disco lo è. Questo è dovuto alla capacità di costruire queste complesse architetture naturali con un bagaglio musicale molto variegato. Anzi, c'è da dire che mentre tanti gruppi riescono effettivamente a "contaminare" il proprio genere di riferimento con altri generi faccio fatica a individuare qualche altra band che riesca a mettere in azione tutta la serie di generi che fanno parte di questo lavoro dando nascita a qualcosa di assolutamente coerente e rilevante. 

A Ring of Blue Light

Ma quali sono questi generi che confluiscono in A Ring of Blue Light? Anzi tutto dobbiamo prendere in considerazione che questo è un disco strumentale e quest'indicazione ci serve già a capire che lo sforzo fatto dai Hemelbestormer è quello di "disegnare" senza l'ausilio delle parole. Ma la cosa essenziale che da forza a questo lavoro è che non c'è mai un'unica direzione percorsa. Per quello l'inizio sludge e post metal che si apprezza nella prima traccia di questo LP viene subito rimpiazzata da un post rock in piena regola, che poi lascia spiragli per la drone music, il doom o certe caratteristiche ambient. Tutto con la forza emotiva di quello che si cerca di raccontare, senza forzature, senza limiti, senza imposizioni che porterebbero a costruire un disco più statico. Questo è un lavoro in costante movimento, un disco che cerca d'immaginare quello che succede nel cosmo, dentro ai fenomeni che solo possiamo osservare da lontano e la cosa bella è che sembra veramente che quello che può succedere è veramente in linea con la musica proposta dalla band. Per quello oltre alla strumentazione classica del rock o metal, due chitarre-basso-batteria, la band chiama sapientemente in soccorso il lavoro molto ben mirato della parte elettronica, grazie agli interventi dei synth e dei samples. Ecco una costruzione architettonica, molto curata perché tutto quello che si suona è un riflesso di quello che è la natura e la sua perfezione complessa.

A Ring of Blue Light

A Ring of Blue Light è anche un invito ad addentrarsi nell'ignoto di quello che c'è, che esiste ma che l'uomo ancora non è riuscito a spiegare o a capire fino in fondo. La musica dei Hemelbestormer può essere considerata fantascientifica ma di quel genere di fantascienza lungimirante e chiaroveggente. Ed è quella la chiave di lettura di questo disco. Tutto gira intorno a delle tesi sonore fantastiche, emozionanti, impressionanti che fanno credere che è reale tutto quello che si ascolta, che è reale il fatto di essere prelevati dalla nostra realtà per essere portati su dei mondi nei quali non avremmo mai immaginato d'arrivare.

Hemelbestormer

Questo è un disco che ha un altro elemento molto interessante, ed è che la durata dei brani varia secondo quello che è il concetto che si cerca di raccontare. Per quello ci sono dei brani lunghissimi, tra gli undici e i quattordici minuti, e altri molto più bevi, che superano a stento i tre minuti. Naturalmente spiegare certe cose diventa molto più semplice che spiegarne altre. Io vi lascio la mia "lettura" di due dei brani di questo lavoro.
Redshift, un brano emozionante, intenso, costruito alla perfezione per raccontare. Un brano che ricorda quello che viene fatto dagli islandesi GlerAkur con quella capacità d'immergere l'ascoltatore in un racconto epico, nella definizione di un fenomeno astrofisico che ha molte più letture di quelle "semplici" di ordine scientifico. E' un brano che esplode quando deve esplodere lasciando l'ascoltatore immerso nel suo incantesimo. Prezioso.
E mentre il brano appena descritto è lungo, complesso ed oscuro quest'altro sembra essere l'opposto. Blue Light è ottimista, è "solare" ed è diretto. Non bisogna spiegare tutto quello che c'è da spiegare nell'altro brano, qua basta la semplicità di un raggio di luce che illumina il buio dando speranza. Ecco, la coesistenza di brani così diversi è un altro aspetto che fa crescere esponenzialmente questo lavoro.


A Ring of Blue Light è uno di quei dischi che può essere definito come un'esperienza sonora. Non si tratta di un semplice album che racconta qualcosa che è stato già raccontato da mille altre voci in precedenza. Questo lavoro dei Hemelbestormer ha la forza di essere una voce assolutamente nuova, di compensare le carenze di un genere mettendo in atto altri generi e di finire per far sognare l'ascoltatore, e un regalo come questo è già tanto, tantissimo.

Voto 9/10
Hemelbestormer - A Ring of Blue Light
Ván Records
Uscita 02.03.2018

sabato 3 marzo 2018

Alghazanth - Eight Coffin Nails: il funerale perfetto

(Recensione di Eight Coffin Nails degli Alghazanth)


Iniziare non è difficile. Il difficile è finire. Finire con la consapevolezza che quella è l'unica strada possibile, che insistere su qualcosa porterebbe soltanto un degrado progressivo di qualcosa che ha funzionato benissimo. Ma finire è difficile perché ci si aggrappa sempre alla possibilità che tutto torni com'era, che le cose si sistemino. Per quello applaudo il coraggio di chi decide di mettere un punto finale a qualsiasi cosa, la consapevolezza che è meglio girare pagina e, magari, dare vita a un nuovo inizio.

L'ottavo disco dei finlandesi Alghazanth non è un disco qualsiasi, non rappresenta un nuovo lavoro di una band con più di vent'anni di attività alle spalle, non è una nuova tappa nella loro carriera. Quest'ottavo album, dal significativo titolo di Eight Coffin Nails, è, a detta della stessa band, un funerale. Ed è così perché il gruppo ha deciso di dire stop, di concludere una carriera che da sempre ha dato una bella visibilità. Ci vuole molto coraggio per fare qualcosa del genere, per focalizzarsi alla certezza che la creatura che hai creato e visto crescere finisce. Ma oltre al coraggio entra in gioco anche una specie di trappola, cioè la possibilità di cullarsi sul significato di un atto del genere e fare un disco leggere, facile, un disco che girerà non per la sua qualità ma per il semplice fatto di essere l'ultimo. Ed invece la band non prende proprio questa strada, questo lavoro ha tutte le carte in regola per essere considerato un grandissimo lavoro, un disco che da dimostrazione di come fare bella musica toccando, in certi momenti, dei punti molto alti.

Alghazanth

Forse il grande pregio degli Alghazanth sta nella loro capacità di fare un black metal melodico, cioè un genere che sebbene ha tutte le caratteristiche proprie di uno dei generi più celebri del metal riesce lo stesso a entrare nella testa dell'ascoltatore grazie all'individuazione di giri che funzionano alla perfezione. Tutto questo è molto chiaro in questo Eight Coffin Nails, perché siamo di fronte ad un disco che è sicuramente una fedelissima mostra di black metal di scuola scandinava ma regala, allo stesso tempo, dei brani che rimangono impressi in testa con grande facilità. E questa formula non è semplice da raggiungere, soprattutto perché si corre il rischio di perdere l'essenza del genere madre andando ad abbracciare quella sintesi melodica. In un certo modo siamo di fronte a una sfida vinta, a un modo di andarsene a testa alta, perché questo disco regala dei momenti molto belli, brani che si sviluppano con elementi diversi dando all'ascoltatore la possibilità di estraniarsi per un'ora circa in un mondo che parla di quello che non viviamo di giorno in giorno.

Eight Coffin Nails diventa dunque una dimostrazione di forza, un funerale che sembra più una festa e credo che questo sia con chiarezza l'intenzione degli Alghazanth. Non c'è spazio per i pianti ma ci si deve addentrare con corpo ed anima in questa ultima opera maestosa. Più esaltante che mai, più intensa che mai. Un modo perfetto per mettere in atto la parola "fine".

Come detto prima in questo lavoro ci sono dei brani che sono veramente interessanti e che dimostrano con chiarezza questo punto alto al quale è arrivata la band. Sottolineo uno su tutti:
Pohjoinen è un brano bellissimo perché diventa un messaggio. Molto spesso si critica indicando che c'è un eccessivo purismo dietro a certi generi, che è difficile spalancare la porta verso nuove direzioni. Ebbene, questo brano lo fa. Per un po' sembra che quel black metal apra una breccia dentro ad altri generi o, forse, che succeda l'esatto opposto. Ed è in questa freschezza che nasce quello che per me è il miglior brano di questo lavoro. Si tratta di un pezzo strumentale, e in un certo modo questo potrebbe andare contro alla concezione di quello che è vuole essere questo disco ma quel momento diventa prezioso, un'eredità alla quale afferrarsi. 


Se qualcuno dovesse mai scrivere una guida su come fare e vivere un funerale perfetto creo che il risultato sarebbe molto simile a quello di questo Eight Coffin Nails. Questa è un'uscita di scena nel momento più adatto, la chiusura del sipario in mezzo a una standing ovation. Viene da chiedersi come potrebbe essere proseguita la carriera degli Alghazanth ma non c'è alcun dubbio che se hanno deciso di fermarsi qui c'è un perché, e già soltanto quello bisogna rispettarlo.

Voto 8,5/10
Alghazanth - Eight Coffin Nails
Woodcut Records
Uscita 31.03.2018

venerdì 2 marzo 2018

Vvilderness - Devour the Sun: un canto solitario

(Recensione di Devour the Sun di Vvilderness)


Come tutte le discipline artistiche la musica nasce dalla necessità di comunicare, di tradurre in un nuovo linguaggio quello che normalmente non sempre si riesce a dire con semplici parole. Per quello la musica è così vasta, per quello abbiamo tematiche così diverse che danno lo spunto a tanti artisti di parlare, in un modo o nell'altro, di sé stessi. Anche semplicemente scegliendo un certo genere o una certa attitudine all'ora di scrivere un pezzo. Molto spesso si pensa alla musica in un modo superficiale ma, secondo me, soprattutto quando si tratta di certi generi, è fondamentale cercare di capire che cosa ha portato un musicista a comporre e registrare una determinata canzone.

Il terzo album della one-man band ungherese Vvilderness si chiama Devour the Sun ed è un bel lavoro ricco di contrasti. Se facessimo uno sperimento selezionando frammenti di quindici secondi da far ascoltare a persone diverse sono sicuro che il ventaglio di opinioni contrastanti e diverse definizioni che verrebbero fuori parlando di questo disco sarebbe quasi aneddotico. Dal mio punto di vista questo capita molto spesso quando si è di fronte a questi progetti che hanno dietro un solo personaggio. Questo perché non c'è il dovere di confrontarsi, di scendere a compromessi e di adattarsi. C'è la piena libertà creativa di mettere sul piatto tutto quello che si sente e tutto quello che piace. Questa caratteristica è facilmente riscontrabile in questo lavoro, che effettivamente ha dei punti cardini ma che spazia dopo abbracciando tutta una serie di ambizioni sonore.

Vvilderness

Naturalmente fare una definizione del genere potrebbe portare ad immaginare che siamo di fronte a un disco eccessivamente dispersivo, un disco che gode, forse, di un'eccessiva libertà, andando così un po' fuori di controllo. Ma Devour the Sun finisce per situarsi in una posizione limite, rischiando l'eccesso ma finendo per mantenersi abbastanza coerente. Questa coerenza è dovuta alla volontà di Vvilderness di abbracciare un concetto principale: la bellezza dell'oscurità. In questo caso questa caratteristica non si vive addentrandosi nell'oscurità ma bensì dando uno sguardo benevolo a cose che normalmente potrebbero avere un senso più negativo. Faccio un esempio concreto per cercare di spiegarmi meglio. La solitudine molto spesso viene vista come un segno di disaggio, come un'attitudine sociologica di essere apatico di fronte al resto dei nostri simili. Ebbene, la solitudine in questo caso viene vista come qualcosa di positivo, come la possibilità di stabilire una comunicazione diretta con l'universo, con la natura, con tutto quello che ci circonda, finendo per essere qualcosa di tremendamente positivo. Per quello uno dei punti fondamentali di questo lavoro è il blackgaze, genere che riesce a mettere sullo stesso livello la volontà di abbracciare un immaginario più proprio del black metal avvicinandolo all'introspezione dello shoegaze. Ma se devo essere obbiettivo in questo lavoro l'ago della bilancia tende sempre verso la parte "black", essendo molto spesso al limite dell'armospheric black metal. Questa combinazione si trova bene a coniugarsi anche con un profilo folk metal che emerge in certi instanti.

Devour the Sun è paradossalmente un disco che esalta la natura e l'universo. Dico paradossalmente perché fa anche capire che il modo nel quale l'essere umano vive questa relazione è assoluta e completamente sbagliato. Vvilderness sembra essere una voce solitaria che ha deciso di fare una strada tutta a sé, senza mai mettersi in relazione con chi potrebbe contaminare la sua opera e il suo messaggio principale. In altre parole questo disco sembra un urlo in mezzo al nulla, profondamente poetico ma, forse, poco pratico, anche se un atto poetico è sempre un atto di coraggio.


Delle sei tracce di questo lavoro vado a riscattare l'ultima: Aftershine. La scelgo perché è un brano che racchiude perfettamente tutte le idee messe in campo in questo lavoro. C'è la voglia di esaltare l'aspetto epico della vita e della natura, per quello è il brano più esteso. C'è la complessità di questo stesso concetto, e per quello il brano è ricco di cambiamenti. Un riflesso che fa capire anche la capacità di compositore della mente dietro a questo progetto. 

Devour the Sun mi sembra un disco con ottimi spunti, con momenti molto ben riusciti, intrinsechi di una rara bellezza. Ma purtroppo mi sembra anche un disco eccessivamente personale dove la scelta di Vvilderness di suonare tutto quanto da solo non sempre da i giusti frutti. Sarebbe molto interessante che questo progetto si trasformassi in uno sforzo corale, ampliando e definendo allo stesso tempo i confini sui quali navigare. 

Voto 7,5/10
Vvilderness - Devour the Sun
Beverina/Casus Belli Musica
Uscita 01.03.2018

mercoledì 28 febbraio 2018

Dreamarcher - Harding: riscattare i violini dalle ceneri

(Recensione di Harding dei Dreamarcher)


Ancora una volta mi ritrovo a dover lodare la capacità della musica di essere un veicolo di tradizioni, di storia, di personaggi. Questa funzionalità della musica è essenziale per avvicinare le nuove generazioni a qualcosa che, altrimenti, rischierebbe di diventare passato e di finire nel dimenticatoio. Non solo, come ho sottolineato altre volte, l'aspetto fondamentale è che questa operazione non deve avvenire in modo necessariamente "folcloristico" ma si può basare nella contaminazione di generi, nel raccontare a ritmo di rock o metal delle storie di realtà non sempre molto conosciute.

Harding è un EP che nasce con un'idea molto semplice e chiara: essere un omaggio alla terra che ha visto nascere la band norvegese Dreamarcher. Fino a questo punto si potrebbe pensare che siamo di fronte ad un lavoro come tanti, anzi, come se s'inseguisse una strada già percorsa da parecchi altri gruppi, perché il senso d'appartenenza è sempre una delle vie più semplici da percorrere e siamo bombardati da dischi che parlano della propria terra. Ma in questo caso ci sono delle sensibili differenze che danno tutto un altro tocco. La prima è che musicalmente quello che viene costruito da questa band è assolutamente globale e contaminato. Il loro rock confina col metal in modo spregiudicato. Questo primo aspetto fa sì che questo sia un lavoro che può essere "capito" da tutti e non solo da chi cerca degli aspetti più autoctoni nella musica. L'altro aspetto è che per raccontare quello che viene raccontato nelle tre tracce che formano questo lavoro la band ha scelto di basarsi su gli scritti di giornalista, scrittore e blogger locale. Ma l'aspetto che incrementa maggiormente la grazie di quest'EP è il fatto che c'è tanto da raccontare su questa terra dove, come segnala la stessa band, gli uomini sono riusciti a sconfiggere la natura, coltivando terreni che sembravano incoltivabili, resistendo alle condizioni geografiche e climatologiche che spesso isolano questa zona dal resto del paese.

Harding

Ma l'orgoglio che si vede e si vive ascoltando Harding va anche oltre, perché in queste canzoni c'è un altro aspetto che viene evidenziato a più riprese. La regione d'appartenenza dei Dreamarcher è anche la zona dove la popolazione locale ha deciso per anni di allontanarsi dall'aspetto più tradizionale della religione e di vivere lontana da questi mandati ed imposizioni al punto che come risposta si sono ritrovate delle accuse di paganesimo e di patti diabolici. Forse a simbolizzare, e sintetizzare, tutto ciò c'è il violino tipico della zona, un violino generalmente di otto corde, che per anni è stato vietato, ricercato e bruciato. Ecco, questa rabbia che nasce dal paradosso di un atto che sembra così fuori da qualsiasi normale concezione è quello che più si respira in questo lavoro. Un modo di sottolineare che qualsiasi azioni esterna è inutile quando le idee e le intenzioni sono chiare. Per quello il rock e metal che sono udibili in questo disco non si si preclude ad alcuna via di sviluppo e abbiamo una chiara dimostrazione con la presenza dello strumento precedentemente incriminato come elemento che ingrandisce l'ultima traccia di questo EP: Omuta.

Harding

In un certo modo la riflessione che nasce ascoltando Harding è quella del conflitto che nasce tra il potere e la volontà d'imporlo per forza su qualsiasi persona, etnia, regione e nazione e la salvaguardia degli aspetti più personali e intimi di un soggetto o di una comunità. Qual è il limite da rispettare? Non è una risposta semplice ma la musica degli Dreamarcher dimostra come la modernità deve andare nella direzione di valorizzare quanto più possibile le caratteristiche di ogni posto, di esaltarle, di farle conoscere al mondo e di apprezzarle per quello che veramente valgono.

Dreamarcher

I diciotto minuti di durata di questo EP si dividono in tre brani, due molto ben sviluppo e un terzo molto veloce e concreto. Personalmente quello che più mi ha segnato e il terzo, e più esteso, cioè il prima nominato Omuta. Il brano mi sembra una sintesi perfetta di quello che viene messo in atto dalla band, cioè il modo di raccontare delle cose molto locali con uno sguardo assolutamente universale, cioè la capacità di introdurre degli elementi tipici della loro regione, come il violino locale e mescolarlo con metal e rock del nuovo millennio.


Un EP è sempre un formato un po' contraddittorio. Qualche volta sembra una scusa per smuovere le acque e far vedere che le band hanno del materiale nuovo da far sentire al mondo, qualche volta invece sembrano solo la genesi di un'opera che poteva e doveva essere più estesa. Curiosamente questo Harding mi sembra un perfetto equilibrio, dove non si eccede mai e non si ha neanche l'impressione di essere di fronte ad un'opera riempi buchi. L'intenzione era molto chiara ed è stata perfettamente portata a termine. Un bel lavoro dei Dreamarcher.

Voto 8/10
Dreamarcher - Harding
Indie Recordings
Uscita 09.03.2018  

martedì 27 febbraio 2018

Charun - Mundus Cereris: le anime tra di noi

(Recensione di Mundus Cereris dei Charun)


Una figura assolutamente affascinante è quella dell'essere che fa da ponte tra due mondi, quell'essere che ci "strappa" dalla vita terrena per portarci in quella, ipotetica, dimensione immortale. E' una figura affascinante perché sembra appartenere un po' a entrambi i mondi. Il suo compito non è affatto semplice e deve misurarsi con il dolore dei cari del defunto che non si rassegnano alla sua dipartita. Ma è inflessibile, incontestabile nel suo ruolo che deve assolutamente essere portato a compimento. 

La musica dei sardi Charun ha molto in comune con le caratteristiche indicate poc'anzi. C'è qualcosa di etereo, di divino e demoniaco nelle note da loro suonate, come se la loro musica avesse degli origini molto più profondi da quelli che in realtà ha. Tutte queste sensazioni vengono fuori dall'attento ascolto di Mundus Cereris, secondo album della band. Sarebbe facile pensare che questo accade perché la band si muovo su un piano strumentale e l'assenza di parole aiuta a inseguire quella direzione, ma sarebbe molto riduttivo. Ascoltando questo disco mi vengono alla mente due gruppi che hanno queste caratteristiche, cioè i giapponesi Mono e gli italianissimi Ornaments. Tutti e tre questi gruppi hanno la capacità di distogliere l'ascoltatore dalla dimensione reale e proiettarlo in mondo parallelo senza tempo e senza confini.

Mundus Cereris

Mundus Cereris è un disco fedelissimo al suo titolo, un lavoro che sembra essere veramente un contenitore di anime che vengono improvvisamente liberate con ogni traccia di questo lavoro. Ma c'è molto altro oltre al senso ultraterreno di questo lavoro dei Charun. Le anime non sono anime e basta, ma appartengono ciascuna a una figura che ha vissuto una vita particolare, che si è nutrita di esperienze, di gioie e di traumi. Qualcuno che se ne sarà andato con uno stato d'animo particolare. Qualcuno che magari non si era completamente realizzato, qualcuno che magari provava odio, qualcuno che non aveva avuto modo di esternare tutto quello che sentiva verso i suoi cari quando era in vita. Per quello questo non è un ritorno e basta ma diventa un ingente lavoro di comunicazione, di forza rivolta al mondo che è stato lasciato a proprio malgrado. Per quello questo disco ha una dimensione lontana dalla nostra realtà. Per quello anche se siamo di fronte ad un lavoro di post metal strumentale sembra in realtà di essere di fronte a una serie di brani senza epoca,che rispondono a racconti dimenticati nel tempo e che per fortuna ci giungono per farci capire che anche se il mondo si è evoluto ancora siamo immersi nel mistero dell'esistenza.

Mundus Cereris  è un canto d'anime, è un momento di solennità. E' assistere a uno spettacolo irreale dove non è facile capire se che si vede stia accadendo veramente o sia prodotto dell'immaginazione. I Charun ci guidano in questo viaggio senza paragoni, in questo modo di capire chi siamo, attraverso quello che sono stati quelli che c'erano prima di noi. C'è del cosmico, dell'ultraterreno ma anche tanta introversione perché ciascuno di noi è un cosmo che cerca di andare oltre alla propria realtà. Questo disco sembra di parlare di tutt'altro ma alla fine parla di ciascuno di noi come individuo complesso.

Charun

Pesco due brani da questo lavoro che, in tutti casi, merita di essere ascoltato per intero, senza interruzione e con la possibilità d'immergersi completamente nella musica.
Il primo è Nethuns ed è un brano che scorre come l'acqua, che scivola piano piano dandoci l'idea di quello che significa essere parte di un ciclo infinito che è legato alla vita. Prezioso e fondamentale, perché grazie alla partecipazione del compositore Stefano Guzzetti siamo di fronte a un punto d'inflessione dentro a questo interessantissimo album.
Il secondo è Menvra e di nuovo il titolo è fedelissimo a quello che viene suonato. Il potere e la saggezza mescolati alla femminilità. La capacità di essere autorevole nel modo che soltanto una donna riesce ad esserlo.


Questo secondo disco dei Charun certifica lo stato di salute della musica underground italiana. Nulla da invidiare a grandi realtà straniere dove, qualche volta, diventa più semplice portare avanti un discorso musicale di questo genere. Mundus Cereris è un disco ricchissimo, figlio di una coerenza musicale e di una voglia di trasmettere quello che si ha in mente. Bellissimo lavoro da ascoltare senza alcuna distrazione.

Voto 8,5/10
Charun - Mundus Cereris
Third I Rex
Uscita 25.02.2018