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mercoledì 1 aprile 2020

Katatonia - City Burials: un resonconto emotivo

(Recensione di City Burials dei Katatonia)


Mentre scrivo queste linee il mondo sta vivendo una situazione insolita che a portato milioni e milioni di persone a rimanere chiuse in casa. Magari qualcosa del genere era stato ipotizzato tante volte attraverso opere letterarie, musicali o cinematografiche che, grazie all'utilizzo dell'immaginazione, provavano a disegnare quello che, invece, ora è reale. Nel mio caso sono passati una ventina di giorni, troppo poco per cambiamenti epocali ma tanti per iniziare a guardare tutto da un'altra prospettiva. Non so quanto mi cambierà effettivamente tutto questo, non so quanto cambierà il mondo ma indubbiamente nulla sarà più come prima. Anche perché l'arte e la cultura si dimostrano la migliore evasione possibile in un momento dove invece non rimane altro che stare a casa.


City Burials


Uno degli aspetti più positivi di questo periodo è che la musica non si è fermata. Sebbene tutto quello che è la dimensione live è rimasta congelata tutta la parte discografica continua imperterrita a regalarci delle uscite molto interessanti, uscite che sicuramente vengono valorizzate molto di più visto che il tempo per consumare un disco c'è. Fuori la frenesia e benvenuta una specie di rieducazione musicale. Non so se quando l'undicesimo disco dei Katatonia, verrà la luce il mondo sarà tornato a girare come sempre o se ancora la situazione sarà quella odierna. Sono sicuro però che City Burials riceverà un ascolto attento e profondo. E dev'essere così, perché, come succede generalmente con i dischi degli svedesi, soltanto alla distanza di diverse riproduzioni si riesce ad apprezzare veramente quello che ci stanno proponendo. Infatti prima di scrivere questa recensione ho dato ripetuti ascolti alle undici tracce che compongono questo lavoro.


City Burials

E' possibile che dopo un po' di tempo certe considerazioni che mi sento di fare adesso possano mutare. City Burials è un lavoro complesso che spazia tra molti aspetti. E' un disco che ci restituisce come sempre l'impronta incancellabile dei Katatonia ma che ci regala nuove sfumature, nuove direzioni nuove. Il perché di tutto ciò sicuramente è chiaramente spiegato dai propri musicisti della band che non si perdono in tesi intricate ma semplicemente evidenziano di essere cresciuti e di starsi confrontando con un mondo che non si ferma. Come segnala Jonas Renkse, frontman e compositore di quasi tutte le tracce del nuovo album, oltre a essere l'autore di tutti i testi, il modo di ascoltare musica ormai è cambiato. Il concetto di "disco" non appartiene più alle generazioni più giovani che prediligono le singole tracce da ascoltare fino allo sfinimento. E forse è lì che radica la grazia di questo lavoro. City Burials diventa un confronto tra il passato, tra quello che non esiste più, i ricordi, i posti ormai inesistenti, e il presente. Tutto questo ha un riflesso che accompagna quest'intero lavoro. Qui c'è il bagaglio della band, il loro modo di concepire la musica, le loro influenze ma anche la maturità, la realtà di una vita di adulti che devono prendersi cura di nuove generazioni. Per quello questo disco è nostalgico ma è anche molto energico, per quello è, a tratti, intimista per poi diventare quasi festoso. E', in un certo modo, un omaggio alla vita che è stata percorsa fino ad adesso. Una vita nata sotto l'opprimente e bellissima tristezza dei primi dischi della band per poi, passo dopo passo, diventare una delle voci più accreditate del metal del nuovo millennio.


City Burials

City Burials diventa una specie di tour virtuale dentro i ricordi. Ma quello che ci viene restituito dai Katatonia non è semplicemente una descrizione fisica dei luoghi della memoria ma, piuttosto, un resoconto emotivo del peso di quei ricordi. Ogni brano diventa così un'emozione, per quello questo disco è ricco, mai lineare, mai scontato, sorprendente.


Katatonia

Ci sono tante anime della band presenti in questo lavoro, con l'aggiunta di certi aspetti nuovi. Pesco, dunque, tre brani che in un certo modo permettono di vedere questa varietà.
Il primo è Heart Set to Divide, traccia di apertura del lavoro con l'impronta chiarissima di quello che ha reso celebre il gruppo. La malinconia come materiale, un brano toccante, di un'oscura eleganza che diventa un preziosismo. Canzone destinata a diventare un classico nella storia della band.
Il secondo è Flicker, brano che in un certo modo è il riflesso della direzione che la band ha deciso d'intraprendere negli ultimi anni. La componente malinconica viene utilizzata diversamente, quasi come se coabitasse con una concezione progressiva e questa è sempre stata la forza della band, quella di regalarci dei modi molto nuovi nel raccontare la propria musica.
Il terzo è Neon Epitaph. Concreto, diretto. Brano che serve in parte a capire una delle componenti di questo disco, cioè quella di pescare dalla tradizione di metal più classico, utilizzando un riff molto presente e poggiando quasi tutto il peso nel lavoro delle chitarre.


Nelle stesse parole dei Katatonia questo City Burials nasce dopo la loro più lunga pausa con l'intenzione di chiudere un ciclo. E questa chiusura racchiude gran parte della filosofia della band, un lavoro mai scontato che dimostra il perché di un'evoluzione di una band che diventa sempre più interessante, adulta e profonda, quando la ragione abbraccia l'emozione.

Voto 8,5/10
Katatonia - City Burials
Peaceville Records
Uscita 24.04.2020

Sito Ufficiale Katatonia
Pagina Facebook Katatonia

mercoledì 25 ottobre 2017

Fleurety - The White Death: oltre il limite

(Recensione di The White Death dei Fleurety)


In molti aspetti della vita uno dei modi di capire quale sia la propria capacità nel riuscire a fare qualcosa è quello di andare oltre ai limiti. Farlo significa mettersi in gioco con tutta l'anima ed oltre e se il risultato si verifica molto spesso si è di fronte ad una vera e propria impressa. Perché sono quelle caratteristiche quelle che cambiano tutto passando da qualcosa già visto o vissuto a un successo, anche solo di valore personale. Per quello andare oltre i limiti può essere a tutti gli effetti una filosofia di vita.

Nel caso dei norvegesi Fleurety non si può parlare soltanto di andare oltre i limiti, perché in realtà sembra che non conoscano proprio i limiti. The White Death è il loro terzo album uscito in una travagliata carriera che vede la band attiva ad intermittenza dal 1991. Ma anche se temporalmente la loro carriera sembra scontante non lo è quant'altro a livello di proposta musicale. Quello che viene fatto in questo progetto non ha alcun paragone con qualsiasi altra cosa sentita. La loro concezione della musica sembra avere come direzione obbligatoria quella dell'avanguardia, della sperimentazione esaltata nelle forme e nei contrasti. Si potrebbe pensare che il risultato che ne viene fuori sia complessi ed incomprensibile ma non è così. Questo non vuol dire che questo disco riesca ad essere capito e goduto da qualsiasi persona, perché è indubbio che è necessaria una forte propensione ad un'apertura mentale che abbracci l'entusiasmo e la voglia di dare nascita a fiori mai visti di strani ed oscuri colori cangianti. 

The White Death

C'è da dire che The White Death non ha solo la particolarità della sua concezione musicale come punto di forza. L'altro aspetto che rende questo disco un disco unico è il fatto di mettere insieme una serie di musicisti pazzeschi che sembrano trovare pane per i denti dentro alla concezione musicale che c'è dietro ai Fleurety. Per quello oltre ai due membri fondatori, e faccia visibile della band, Alexander Nordgaren (ex Mayhem) e Svein Egil “Zweizz” Hatlevik (musicista di una versatilità ed un senso dell'avanguardia come pochi altri), questa nuova pelle della band si nutre dell'innesto di Czral-Michael Eide (Virus, Aura Noir, ex-Veds Buen Ende), Linn Nystadnes (Deathcrush, Oilskin), Krizla (Tusmørke, Alwanzatar) e Filip Roshauw (The Switch). Non ci poteva aspettare null'altro che un disco imprevedibile, sorprendente, che gioca con tutto quello che conosciamo dentro al black metal ed all'avantgarde metal. Ed è proprio così. Questo disco è uno di quei lavori che al primo ascolto lascia l'ascoltatore incredulo, un ascoltatore che avrà bisogno di una pausa che li permetta di digerire quello che ha appena vissuto prima di prendere il coraggio di regalare un secondo ascolto alle otto traccie che compongono questo disco. Ma superato quello shock iniziale sarà impossibile fare a meno di ripetere e ripetere questo disco, a rischio anche di far sembrare banale tutto il resto. 
Spiegare il perché di questo effetto non è semplice ma il primo elemento da prendere in considerazione è che quello che c'è in questo disco può sembrare parzialmente simile a qualcos'altro, ma solo durante pochi secondi per poi guidarci da tutta un'altra parte. E se consideriamo che le menti che si celano dietro a questo lavoro sono quelle di personaggi che per vie alterne ci hanno già regalato delle idee musicali nuove e molto interessanti risulta ancora più sorprendente quello che si ascolta in questo disco. 

Tutte le canzoni nascono da qualcosa, da una melodia canticchiata, da un giro di chitarra particolarmente effettivo, da un ritmo ossessivo ed ipnotico, da una strofa struggente che suggerisce proprio qual è la musica che la deve accompagnare. Ebbene io non ho idea di come possa essere nato questo The White Death perché non c'è modo alcuno d'aggrapparsi alla sicurezza che da qualcosa di riconoscibile ed individuabile. Sembra un gioco crudele quello dei Fleurety, un gioco che mette a dura prova il modo di concepire la musica nell'accezione più comune. Nulla è scontato in questo disco, nulla è semplice, nulla vuole essere semplice. Ma non perché s'insegua la complessità, semplicemente perché le strade percorse dalla band sono strade mai percorse prima, e quando qualcosa è inedita spaventa tanto quanto affascina. 

Fleurety

Ancora più che mai in questo lavoro non c'è una linea comune tra tutti i brani che si trovano dentro. Anzi, il gioco è complesso, perché da una parte si può tranquillamente parlare di suono alla "Fleurety" ma d'altra ogni brani differisce così drasticamente da quello precedente e da quello successivo che è impossibile segnalare una sola direzione dentro quello che viene fatto. Per quello anche se penso un paio di tracce di questo lavoro è impossibile, e assolutamente erroneo, cercare di farsi un'idea solo da quelli esempi.
The White Death mette subito in chiaro tutto quanto. Inizia come potrebbe aver inziato un brano dei Ved Buens Ende ma subito dopo il "ritornello", se di ritornello si può parlare, ci spiazza. La voce femminile è un contrasto impressionante che annienta l'oscurità musicale e della voce maschile. Ma non basta, la reiterazione ossessiva di certe parti sembrano dominare l'ascoltatore per poi scuoterlo fino in fondo. La ricerca armonica è essenziale, il modo nel quale le note si susseguono senza regalare nulla da aggrapparsi.
Lament of the Optimist è pazzia pura. Un ritmo black metal che sposa una serie di suoni elettronici che sembrano tirati fuori da un brano dance. Per quello più di qualcuno urla: "ma che diavolo è questo!" E' una nuova frontiera, tutta lì per noi.


Andare oltre al limite. Questo sembra essere il motore che da la forza a The White Death. Ma la cosa particolare è che fare qualcosa del genere sarebbe una forzatura non semplice per qualsiasi musicisti. Invece i Fleurety hanno fatto da sempre di quella caratteristica il loro modus operandi. Tra pazzia e genialità il confine è molto sottile. Per quello qualcuno penserà che questo album è molto difficile d'ascoltare e da capire. Per tutti gli altri benvenuti in un nuovo confine musicale.

Voto 9/10
Fleurety - The White Death
Peaceville Records
Uscita 27.10.2017

Pagina Ufficiale Fleurety

martedì 10 ottobre 2017

Mork - Eremittens Dal: tornare alle origini

(Recensione di Eremittens Dal dei Mork)


Una delle domande più valide che possono essere fatte quando si teorizza sulla musica è quella legata a l'evoluzione di un determinato genere. Più nello specifico a quando un modo di suonare quel genere diventa "old school" lasciando così spazio ad un nuovo, o a nuovi, modi di suonare lo stesso genere. A cosa è dovuta quell'evoluzione? Ed è misurabile in qualsiasi modo? Io credo di non, penso che sia un processo che viene capito soltanto alla distanza, quando guardando indietro si capisce che nulla è rimasto così com'era.

Il terzo album degli Mork si chiama Eremittens Dal ed in un certo modo è un grande salto per questo progetto, spesso tenuto come un'alternativa sulla quale riversare del tempo da parte di Thomas Eriksen, unica mente dietro a questo gruppo. E' un grande salto perché il disco uscirà pubblicato da una casa discografica di colto come la Peaceville Records ed è un grande salto perché la musica di questo progetto a richiamato l'attenzione di mostri sacri di questo mondo musicale. Alta è dunque l'aspettativa e in questo post cercherò di farvi vedere se è compiuta o meno. La prima cosa da considerare è che musicalmente questo disco non si propone altro che essere un'opera che continui con i legato del black metal norvegese, quello che da qualche purista viene considerato come unico vero black metal. Per questo non ascolteremo nulla di rivoluzionario in questo disco, non ci sarà alcun genere di contaminazione o di sguardo rivolto al futuro. Al contrario, sembra esserci un riverenziale rispetto verso le fondamenta di questo genere.

Eremittens Dal

Ma allora, perché una casa discografica importante dovrebbe scommettere su un gruppo come i Mork? Perché fare qualcosa "all'antica" non significa non farlo bene o non regalare nulla di nuovo. Infatti Eremittens Dal  è un disco molto ben riuscito, un disco che ricorda senz'altro quello che è il passato musicale del black metal e che vuole proprio fare quello. Inutile dire allora che gli obiettivi sono stati pienamente raggiunti e che questo disco sembra il proseguo di un'epoca che ha scosso il metal come pochi altri sotto generi erano riusciti a farlo. Infatti la forza di questo lavoro sta nel portarci a memoria il perché di un impatto così drastico. Qua c'è una concezione diversa di quello che è il metal, in un certo molto più lontana dal mondo hardcore che aveva influenzato pesantemente il thrash metal ma anche lontanissimo da quei virtuosismi estetici dell'heavy metal. E neanche il death metal può considerarsi come un genere molto vicino, perché anche se ci sono dei punti in comune c'è tutta una filosofia dietro che fa cambiare tutto drasticamente. Il black metal di questo disco è primordiale, ha il sapore della foresta, dell'ululato del lupo, delle terre vichinghe che si sono nutrite di sangue e dei racconti delle gesta dei suoi abitanti. Ma è soprattutto quel modo di essere selvaggio, di non curarsi dei dettagli quello che dà la forza a questo lavoro.

Ogni tanto serve ricordare certe caratteristiche essenziali di certi generi, perché l'evoluzione è così drastica da spazzare via certi elementi. Per quello questo Eremittens Dal ha contatto con questa aspettativa, con questa voglia di capire dove potesse arrivare la musica di questo progetto. Questa è la forza dei Mork, quella di ricordarsi e mettere nella pratica gli elementi che hanno fatto del black metal un linguaggio musicale senza uguali. E questo suo intento non è né migliore né peggiore di quello che possono mettere in atto dei gruppi con una visione più espansiva ma è validissimo perché fatto molto bene.

Mork

Prendo due brani che mi sono particolarmente piaciuto in questo lavoro.
Il primo è Et Rike I Nord. Si sente sin da subito quella radice così addentrata nel black metal vecchia scuola ma è un piccolo piacere, un piacere che ricorda quei riff sporchi, con suono lo-fi ma pieni di melodie strazianti che non si svelano con chiarezza. Ma questa spicca maggiormente visto che si tratta di un brano strumentale.
Il secondo, che invece è cantato, è il brano di chiusura del album, Grav¢l e ha tutto quello che si certa in un brano black metal. C'è questa oscurità onnipresente, questo tocco di nostalgia, questo modo di essere dissacrante ma con una poetica fortissima. Infatti quella è un'altra caratteristica di questo genere, che è profondamente poetico, che utilizza sia a livello di parole che musicalmente, una serie di risorse poetiche invece di essere rudi e diretti. Questo brano lascia in chiaro tutto ciò.


Credo che la scommessa messa in atto sui Mork si compia perfettamente, e che questo Eremittens Dal sia un'opera riuscitissima. Un disco che parte con certe ambizioni che magari non sembrano monumentali ma che lo stesso non sono facili da raggiungere. Non è un omaggio, non è un lavoro anacronistico ma è semplicemente un album che sa quello che cerca e che lo trova perfettamente.

Voto 8/10
Mork - Eremittens Dal
Peaceville Records
Uscita 13.10.2017

mercoledì 16 agosto 2017

Akercocke - Renaissance in Extremis: la logica della non-logica

(Recensione di Renaissance in Extremis degli Akercocke)


Qualche volta non sembra che siamo schiavi del tempo. Anzi, ci sono momenti nei quali il tempo vola senza lasciarci possibilità di prendere consapevolezza; invece, in altri momenti, ci sono periodi che sembrano essere appesi senza voler mai progredire. Il tempo è complesso, paradossale e molto, molto personale. Per quello qualche volta la cosa migliore è fare un passo al lato, far calmare le acque, e poi tornare con tutta la voglia, forse più grande che mai.

Il ritorno degli Akercocke mette fine ad una lunghissima parentesi discografica di dieci anni. A romperla ci pensa uno splendido lavoro chiamato Renaissance in Extremis. Per chi conosce la band senz'altro è molto chiaro che gli aspetti bizzarri, partendo dal fatto che siamo di fronte ad una band di progressive death metal che suona in giacca e cravatta, siano all'ordine del giorno. Ma è proprio questo a ingigantire la figura della band. Non siamo di fronte all'ennesimo progetto che cerca di ricreare elementi sentiti o risentiti. No, nel caso degli Akercocke c'è un confluire di elementi che rendono questo quartetto londinese unico. Per quello sia le tematiche dei loro brani che tutto quello che musicalmente viene fatto ha un'altezza importante, come se fossero dei validissimi esempi da tenere in considerazione e da seguire con ammirazione. Quest'album sembra immerso nella più importante mancanza di logica che ci sia, ed invece finisce per essere coerente ed esaustivo. In pochi minuti si viene catapultati nel passato musicale del progressive death metal per poi avere a che fare con sonorità assolutamente moderne. Si passa da una brutalità spinta ad uno spirito di riflessione encomiabile. Dal voler impattare l'ascoltatore con parti molto spinte, ad incantarlo con parti vellutate. 

Renaissance in Extremis

Per quello qualsiasi definizione di Renaissance in Extremis rischia di essere superflua. Senz'altro diventa abbastanza chiaro che siamo nel mondo del death metal ma tanti altri aspetti ci portano a spasso qua e là. Partendo col profilo progressivo assolutamente presente. Profilo che porta ad avere dei brani molto strutturati, dove batteria e chitarre si divertono a dimostrare la propria bravura senza, per quello, risultare osceni. Ma non sono soltanto questi gli elementi che gli Akercocke mettono in gioco. C'è una voluta dose di sperimentazione che si traduce in fraseggi molto interessanti, che giocano volentieri con dissonanze ricreando delle atmosfere rarefate. Un altro aspetto che comporta ulteriore scompiglio e quello dei registri vocali, dove il growl sembra orrendo, monocorde, spinto. Invece la voce pulita spazia, giocando con ogni momento dando interpretazioni proprie. Questo confluire di elementi che potrebbero cozzare è senz'altro l'aspetto più interessante di questo lavoro, perché ci si ritrova ad essere portati in una dimensione parallela, in un mondo dove le nove tracce di questo disco accendono e spengono soli capricciosi sopra a cieli rosso sangue.

Renaissance in Extremis

Renaissance in Extremis prende tutte le caratteristiche di un lavoro inimitabile. E' una continua sorpresa che si sviluppa senza un filo logico. Per quello il primo ascolto è sicuramente quello più affascinante, perché gli elementi "regalati" dagli Akercocke sono una costante sorpresa, sorpresa che non può essere in alcun modo prevista. Quando più brutale sembra tutto, ecco che abbiamo un respiro profondo di distensione. Invece quando ci calmiamo eccessivamente in mezzo ad un incantesimo esotico ecco il colpo di grazia che urla presente. E' questa paranoia musicale ben strutturata quella che fa di questo disco un lavoro interessantissimo.

Akercocke

E' difficile pescare qualche piccolo brano in questo insieme così eterogeneo ma ci provo.
Consiglio dunque l'ascolto di Familiar Ghosts dove quest'aria eterea diventa piena protagonista di un brano che è violento senza dover essere urlato, che è "strano" perché sembra incantevole ma è sempre raro e prezioso. 
A Final Glance Back Before Departing è un altro brano che continua nella stessa linea. Musicalmente ricorda il discorso musicale dei Death ma la sua costruzione da la stessa idea di qualcosa di sovrannaturale e che, dunque, non viene compreso fino in fondo. 
A Particularly Cold Sept sembra rubata da qualche altro genere musicale per poi diventare progressiva, come se la band, per qualche piccolo secondo, si spogliasse della parte metal, ma dopo ecco il grande colpo ed il ritorno prepotente alle sonorità più spinte.


Il ritorno è sempre un'incognita, perché, soprattutto in questo caso, i tempi cambiano così significativamente che dieci anni possono aver spinto tutto in direzioni molto variopinte. Per quello se si ha la personalità che hanno gli Akercocke allora può sentirti tranquillo. Infatti questo Renaissance in Extremis non ha tempo. Mi spiego meglio, è indubbio che una serie di elementi fanno pensare ad un'epoca piuttosto di un'altra, ma tirando le somme questo è un disco che si allontana da qualsiasi logica temporale, diventando un'isola ferma in mezzo all'oceano, pronta a far impazzire chi la raggiungerà.

Voto 8,5/10
Akercocke - Renaissance in Extremis
Peaceville Records
Uscita 25.08.2017