(Recensione di Profit dei The Jelly Jam)
Il concetto di super gruppo ha delle radici profonde che sanno di leggenda. Se pensiamo ai gruppi degli anni 60 e 70 che rispondevano a quest'appellativo sicuramente ci vengono in menti nomi eccelsi e dischi fondamentali dello sviluppo del rock.
Negli anni, in più di qualche occasione, si è cercato di emulare quell'affascinante dinamica mettendo in piedi dei gruppi con dei componenti di tante band eccellenti riuscendo, qualche volta, a fare dei lavori all'altezza delle aspettative.
Il problema è che, ad un certo punto, c'è stato un abuso di quest'appellativo sperando, magari, che soltanto il fatto di mettere insieme musicisti celebri garantissi un successo economico e mediatico. La colpa non può essere attribuita esclusivamente ai musicisti o alle case discografiche ma deve essere distribuita tra la stampa e gli ascoltatori.
L'impressione che viene fuori è che, quando nasce un super gruppo, l'asticella sia molto molto alta ed è più facile deludere che riempire le aspettative.
Quest'oggi parliamo di The Jelly Jam, un super gruppo perché vede impegnati due nomi celebri, quello di John Myung dei Dream Theater e Ty Tabor dei King's X. A completare la formazione del gruppo c'è un altro musicista di tutto rispetto: il batterista Rod Morgenstein. Il conflitto essenziale, e sul quale azzardiamo che i componenti della band si troverebbero d'accordo, è che più di un super gruppo questa band è un beside project, cioè un gruppo che nasce come alternativa a quella dei gruppi "titolari" di ognuno di questi musicisti. La conferma a questa tesi viene data dalla discografia di questo trio, che originalmente era un quartetto grazie all'aggiunta di un nome eccellente: Derek Sherinian. In quattordici anni d'esistenza sono quattro i dischi sfornati, qualcuno a lunga distanza da quello precedente. Noi, oggi, ci occupiamo dell'ultimo.
Profit è un lavoro concettuale e, stando alle parole di Tabor, la sua stesura ha visto un grosso lavoro di composizione dopo il quale i tre musicisti hanno scelto i brani che legavano meglio insieme e rendevano l'idea, dietro questo lavoro, al meglio.
Le dodici tracce del disco hanno come filo conduttore il consumismo e il ritmo di vita odierno. E' una forte critica che si cella dietro alla storia sviluppata nelle canzoni.
Andiamo adesso all'aspetto fondamentale, quello del risultato finale. Le premesse sono buone. Abbiamo tre grandi musicisti, abbiamo un storia interessante ed attuale. Invece questo Profit si rivela un disco timido. Un disco che spicca il volo ma che non raggiunge mai la quota ottimale. A tratti sembra di ascoltare qualche lavoro dei Porcupine Tree, ma, mentre i dischi della band del signor Steven Wilson sono variopinti e sorprendenti, questa fatica dei The Jelly Jam diventa troppo prevedibile. A tratti si apprezzano tracce di un altro beside project, gli OSI, che originalmente vantavano di contare con una line-up pazzesca (Kevin Moore, Sean Malone, Mike Portnoy e Jim Matheos), ma quei accenni più sperimentali naufragano presto lasciando solo il sentore in bocca.
Giunti qui il punto di domanda è se i limiti di gruppi come questo stiano nell'aspetto temporale e nell'impossibilità di passare abbastanza tempo in sala prove per approfondire la personalità della band. Perché questa è l'impressione che viene fuori da questo lavoro. Sicuramente proficuo, ma forse sarebbe stato meglio pensare di più alla qualità che alla quantità.
Con queste parole non vogliamo dire che Profit sia un brutto album o che non meriti ascolto alcuno ma sembra un disco facile, sfornato senza troppo pensarci affidandosi alle proprie qualità dei musicisti.
Voto 6/10
The Jelly Jam - Profit
Music Theory Records
Uscita 27.05.2016
Sito Ufficiale The Jelly Jam
Pagina Facebook The Jelly Jam
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