venerdì 8 settembre 2017

Argus - From Fields of Fire: quando dal classico si tira qualcosa di nuovo

(Recensione di From Fields of Fire degli Argus)


Nella musica è interessante vedere come certi processi sono riusciti a decretare che certi suoni possono essere considerati "classici". Se qualche gruppo si rifà a quel suono automaticamente si dice che ha una sonorità classica, ben poco importa se si tratta di un gruppo nuovo e giovane o di qualche progetto che ormai esiste da tempo, quella caratteristica sarà addossata con energia.

From Fields of Fire

Oggi vi parlo del quarto disco degli statunitensi Argus, band nata nel 2005 ma di sonorità che meritano assolutamente di essere chiamate classiche. Il disco si chiama From Fields of Fire ed esce dopo quattro anni dall'anteriore full-lenght e qualche mese dopo il disco in collaborazione tra il chitarrista dei Fates Warning, Victor Arduini ed il cantante degli Argus, Brian Balich. La recensione di quel disco, intitolato Dawn of Ages, la trovate qui
Un aspetto che sorprende ascoltando questo disco è la sicurezza che emana. Infatti posso tranquillamente dire che siamo di fronte ad un lavoro maturo, di una band rodata che conosce alla perfezione le proprie capacità e le mette in gioco. Per quello si denota un grande equilibrio tra tutti i componenti del gruppo, che riescono ad essere presenti senza calpestare gli altri o senza prevalere sul lavoro di qualche compagno. Sembra una sciocchezza ma ci sono parecchi gruppi dove, purtroppo, certi strumenti sembrano accessoriali e funzionali ad altri, invece con gli Argus questo non succede. A questo punto dobbiamo sempre entrare nel mondo della soggettività, di quello che ciascuno ama o meno nella musica. Perché faccio questa premessa? Perché come ho indicato prima, il suono della band è assolutamente classico, sia come scelta estetica (strumenti, amplificazione, tipo di equalizzazione, utilizzo di certi effetti) che come struttura di canzoni. In quella linea questa è uno di quei irriducibili dischi dove l'assolo di chitarra sembra essere una istituzione sacra. Questo comporterà, sicuramente, che parecchie persone liquidino questo disco senza dare troppe chances,  altre, invece, troveranno che questo è un disco degno di avere la stessa luce di tanti dischi usciti negli ultimi 50 anni, e per finire una terza categoria cercherà di ascoltare con attenzione questo lavoro, entrando nel contesto di esso stesso, lasciando da parte la soggettività.

From Fields of Fire

Io, personalmente, cerco con questa recensione di illustrarvi il mio punto di vista cercando di appartenere alla terza categoria descritta. Anzi, credo che sia arrivato il punto di svelare certe dinamiche personali che mi capitano all'ora di decidere se recensire un disco o meno. Devo dire che in linee di massima, e ci riesco per un bel 95%, cerco di ascoltare tutto quello che mi viene inviato, a prescindere se una prima descrizione possa sembrarmi attrattiva o meno. Mentre ascolto un disco nella mia mente si sviluppa un primo giudizio che generalmente è "sì, è quello che mi piace" o "no, non centra nulla con me". Ma non mi soffermo mai a quel primo giudizio, perché superficiale. E' per quello che continuo con l'ascolto cercando di "capire" quello che è stato registrato ed è lì che scatta la chiave. Quando qualcosa mi fa arrivare indistinto e preciso un messaggio ed inizio ad approfondirlo allora vuol dire che per me quel disco merita una recensione.
Con From Fields of Fire mi è successo proprio quello. Al primo ascolto sentivo che quello che stava entrando alla mia mente era qualcosa di antico, di già fatto e sentito, ma successivamente ho capito che gli Argus avevano le idee molto chiare e che questo è un disco magistrale dentro al loro genere.
Arrivati a questo punto è più che naturale che venga posta la domanda: qual è questo genere? Questo è un disco di heavy metal classico influenzato da certe sonorità doom. Lo so, tre quarti di voi starete storcendo il naso ma vi assicuro che dentro a questo genere suonato e risuonato questo non è disco ridicolo e consumato, ma al contrario, sembra avere molto da dire ancora.

From Fields of Fire

Che cos'è che mi ha portato a recensire From Fields of Fire? Sicuramente il fatto che non si tratta di un disco di replica di quello che è stato scritto e suonato migliaia di volte da gruppi diversi. Sicuramente l'idea che i membri degli Argus siano intelligenti ad usare questo linguaggio facendolo proprio, sapendo come muoversi per regalare un disco che ha molto da dire. Ed essendo io una persona che ormai ha un rigetto verso l'heavy metal classico credo che si capisca il perché questo è un disco funzionale e che ha la sua ragione di esistere. 

Argus

Ci sono due brani che permettono di capire quello che sto cercano di spiegarvi.
Il primo si chiama Devils of Your Time e lascia chiaro che l'influenza doom è fondamentale, perché dà quel tocco oscuro, pesante, schiaccia  sassi che allontana un po' l'idea di virtuosismi acuti, di acuti urlati, di armonizzazioni di chitarra ormai superate. Siamo molto più vicini alla musica dei Black Sabbath che a quella degli Iron Maiden, per capirci.
Il secondo è Hour of Longing. Anche in questo caso si parte con la botta forte di un riff contundente ma con rispetto al brano anteriore qua abbiamo una maggiore dinamica, distendiamo l'energia cumulata in un bellissimo intermezzo lento che viaggia su arpeggi molto ben selezionati. 


Il messaggio è molto chiaro. Se a leggere questa recensione è uno che ha l'orticaria quando ascolta assoli di chitarra di più di un minuto allora non bisogna neanche darsi la fatica di ascoltare mezza canzone di From Fields of Fire. Se invece sei uno che ama alla follia quegli assoli ed il suono classico, allora non fare il tirchio e comprati l'album. Se invece sei uno che da sempre un'opportunità a quello che ascolta, allora spero che ti troverai d'accordo con me e troverai che gli Argus hanno sfornato un gran bel disco.

Voto 8/10
Argus - From Fields of Fire
Cruz del Sur Music
Uscita 08.09.2017 

giovedì 7 settembre 2017

Dead Woman's Ditch - Seo Mere Saetan: secoli e secoli di orrori

(Recensione di Seo Mere Saetan dei Dead Woman's Ditch)


Sono un fermo sostenitore della necessità di viaggiare, della necessità di non compiere una tipologia di turismo "tipica" ma di addentrarsi nelle storie dei borghi più piccoli, dei quartieri meno frequentati e dei angoli che, sembrano, non hanno nulla da raccontare, ma che, in realtà, custodiscono gelosi una serie infinita di storie affascinanti. Sono queste storie quelle che riescono molto più facilmente a parlarci della storia di una nazione, del suo popolo, dei suoi luoghi e dell'evoluzione dell'uomo.

I Dead Woman's Ditch sono una band inglese che nasce come il side project del bassista degli Electric Wizard. Da quest'idea originaria molte cose sono cambiate e la band ha acquistato una personalità propria ed affascinante. Dopo qualche demo che ha visto la luce negli anni scorsi finalmente possiamo contare con un full-lenght veramente interessante, dal titolo Seo Mere Saetan. Non sono pochi i motivi che mi portano a trovare affascinante questo lavoro, potrei parlare dell'insieme di influenze che danno vita ad un linguaggio molto particolare della band, potrei parlare agli elementi sperimentali con i quali si gioca in questo disco, potrei parlare del posto dov'è stato concepito e registrato ma partirò da un altro elemento. Quest'elemento, che in un certo modo funziona come collante di tutto il progetto, è l'appartenenza geografica. Senza andare troppo lontano il nome del gruppo proviene dalla loro terra nativa, in concreto da un fosso che si trova nelle Quantock Hills nella contea di Somerset. Questo fosso (ditch) ha origini preistorici ed è stato scenario dell'uccisione di Sarah Walford, da mano del suo marito John nel 1789, atto che è passato alla storia non tanto per l'uccisione in sé stessa quanto per il fatto che il corpo della donna sia rimasto all'aperto, senza sepoltura per un anno ed un giorno. Questo è il punto di partenza dentro all'immaginario oscuro del folklore locale, che regala tutta una serie di storie molto interessanti, terreno fertile per le creazioni della band.

Dead Woman's Ditch


Il vincolo con la propria terra sembra essere ancora più importante perché oltre alla parte musicale che trova influenza per le storie da raccontare, la band ha voluto immergersi quanto più possibile in quelle caratteristiche. Sicuramente è per quello che i Dead Woman's Ditch hanno scelto di aprire uno studio/sala prova proprio al confine di queste colline. Hanno messo insieme una serie di strumenti che hanno dato il via ad una illimitata capacità creativa che ha esteso in modo significativo le frontiere musicali del gruppo. Infatti Seo Mere Saetan, che in inglese antico significa coloni dei laghi marini, è un contenitore di diversi generi che si mescolano con grande maestria. A spiegare questo risultato sta l'idea che tutti i componenti del gruppo apportano le proprie influenze, veramente variopinte e diversificate. E' per quello che sentiamo in modo importante degli elementi black metal ma non disdegnammo di avere anche degli elementi sludge ed avangarde. C'è anche un predominante tocco noir che ricorda la transizione musicale tra gli anni 70 ed 80. Grazie a questa presenza il risultato di questo disco prende una sfumatura nostalgica che dona ancora più mistero a quello fornito dalle storie raccontate. E' anche molto interessante l'utilizzo di registrazioni audio, grazie alle quali sentiamo la voce di scienziati sovietici che parlano del disastro di Chernobyl o la voce di Papa Francesco ce parla della malvagità. 

L'orrore ha sempre accompagnato l'umanità. Alla pari delle gesta gloriose si narrano le storie di massacri, di psicopatici, di aberrazioni. Ogni posto ha le sue storie nascoste, storie che nel corso degli anni sono diventate delle vere e proprie leggende. I Dead Woman's Ditch partono dall'oscurità della loro terra per poi andare oltre, come a dimostrare che l'orrore è un colono insaziabile che vuole dominare quante più cose possibili. Seo Mere Saetan ci mette di fronte all'evidenza di quanto rimaniamo catturati da queste storie, forse increduli da dove può arrivare la mente umana.



I due brani che vado a raccontarvi sono un fedele riflesso di quello che troviamo in questo disco.
Il primo è We Are Forgiven e il gioco tra voci pulite, quasi da litania, e quella sporca sembra una battaglia tra bene e male, tra l'anima pura e quella indemoniata. Tutto lo sviluppo sembra dimostrare che la parte "cattiva" ha la meglio.
Il secondo è il brano che chiude il disco. Con i suoi undici minuti e passa, Crusade diventa una riflessione profonda sulla religione e sulla sua responsabilità nell'aver contribuito, e farlo tutt'ora, ad una serie di orrori ingiustificabili. Bisogna evidenziare i controsensi e l'anima tutt'altro che divina di chi, stando al potere, ha permesso tutto questo. Brano intenso, che prende una strada molto più sludge con rispetto al resto del disco.

Con Seo Mere Saetan si parte dal locale, dalle storie con le quali si è cresciuto, per poi ritrovare nella storia universale infinite testimonianze di orrore. Ci sarebbe da chiedersi se non è proprio la mente umana quella che perde assolutamente la propria bussola e permette, esigendo anche di più, tutte queste aberrazioni. Il contributo dei Dead Woman's Ditch è prezioso perché ci scuote e ci porta a riflettere.

Voto 8,5/10
Dead Woman's Ditch - Seo Mere Saetan
Third I Rex
Uscita 27.08.2017

mercoledì 6 settembre 2017

Professor Tip Top: ricordati di evadere, sempre

(Recensione di Life is no Matter dei Professor Tip Top)


Un aspetto affascinante della musica è la creazione delle scene. E' affascinante perché si tratta sempre di un evento casuale e mai premeditato ma che trascina dentro di sé tutta una serie di musicisti in un'epoca molto determinata. Non è mai possibile prevedere questi eventi ma quello che ci rimane è un'eredità che si protrae negli anni. Per quello la scena di Canterbury è molto interessante, perché le caratteristiche dei gruppi che ne facevano parte non hanno a che vedere soltanto con la musica e le idee che cercavano di mettere in atto, ma anche con delle profonde correnti di pensiero politico. A cinquant'anni dalla nascita di questa scena tutt'ora ci sono gruppi che dicono di basarsi su di essa, a testimoniare quando può essere importante un movimento musicale.

Dall'Inghilterra di Canterbury andiamo alla Norvegia di Bergen, e dalla fine degli anni 60 voliamo ai nostri giorni. Tutto questo per abbracciare il quarto disco dei Professor Tip Top, dal titolo Life is no Matter. Perché Canterbury? Perché l'influenza, aperta riconosciuta, che porta la band a muovere i propri passi nel campo del rock progressivo, è marcatamente da quelle coordinate. Non solo, ma in un certo modo come quella scena ha servito di punto d'inizio a tante altre scuole progressive e psichedeliche anche nella musica dei Professor Tip Top si verifica la stessa cosa. Infatti siamo di fronte ad un disco che suona come un omaggio a quelle sonorità che non cercano il tecnicismo del rock progressivo, come invece poteva succedere nella scena italiana, ma abbraccia piuttosto la filosofia del free jazz applicata al rock. Vale a dire uno sviluppo libero di brani che non rispondevano a strutture prestabilite, dando uno spazio infinito a divagazioni cosmiche che raccontavano dei mondi nuovi. Nel 2017 quello continua ad essere lo sforzo portato davanti da questa band norvegese.

Life is no Matter

Come al solito quando mi ritrovo un disco del genere la domanda che sempre mi pongo e se siamo di fronte ad un viaggio nel tempo o alla volontà di regalare nuovi aspetti e sfumature ad un genere vissuto. La risposta non sempre è semplice perché bisogna sottoporre ogni opera ad una serie di letture importanti. Nel caso di Life is no Matter credo che la risposta stia a metà strada. Sicuramente gli elementi che costruiscono questo disco fanno parte del bagaglio musicale del passato, ma non per questo, anche se sembra un controsenso, questa è un opera anacronistica. Mi spiego meglio. E' indubbio che la musica portata avanti dai norvegesi sorregga in modo importante quello che è la storia del rock progressivo che si avvicina alla parte psichedelica, per quello è giusto metterci dentro dei nomi come i primi Pink Floyd, ma questo non significa che questo non sia un disco del 2017. Anzi, come capita spesso con gruppi come i Porcupine Tree, c'è una sostanza che è assolutamente diversa e si sente. Questo ha a che fare con l'epoca storica che attraversiamo. Se ci sediamo e pensiamo alle differenze tra la fine degli anni 60 ed i nostri giorni ci ritroviamo di fronte a dei mondi quasi diametralmente opposti. Per quello la musica portata avanti dai Professor Tip Top non corrisponde all'eco di quello che una sensazione globale di libertà e rivoluzione. Qua tutto diventa un discorso di evasione, un desiderio, più o meno malinconico, di essere in un altro mondo.

Ascoltando Life is no Matter viene messa in evidenza una delle maggiori qualità della musica, cioè la sua capacità di costruire dei mondi perfetti, lontani dalla quotidiana realtà, spesso molto triste. Questo è un disco rilassato, un disco da ascoltare quando si riesce a svuotare completamente la mente, per spalancare le porte alla musica. Sicuramente questo è il legame maggiore dei Professor Tip Top con il mondo degli anni sessante e settanta, ma fatto in un modo diverso, non più come l'ambizione di raggiungere altri stati mentali ma come la terapeutica necessità di viaggiare con la mente.


Professor Tip Top

Pesco due brani di questo lavoro.
Il primo è Pieta Europe, titolo che forse fa intravedere la direzione che può prendere il brano. Infatti qua siamo di fronte ad una canzone molto nostalgica, suonata in tonalità minore, ricordando quello che viene proposto dai Pocurpine Tree. Sembra un brano di redenzione di fronte a quello che viviamo quest'oggi, a quest'ondata salente di odio ed intolleranza che cancella decenni di storia dalla quale non abbiamo imparato nulla.
La seconda canzone ha come titolo Lullaby for Grown Ups e di nuovo sembra che prendiamo delle strade molto diverse da quelle che viviamo tutti i giorni. Stiamo abbracciando un mondo dove c'è ancora spazio al gioco e al bambino che risiede dentro a ciascuno di noi, qualcosa che diventa sempre più impensabile. In un certo modo questo è un brano che ricorda molto i Pink Floyd, anche per via della sua coda che sembra quasi un omaggio a Dark Side of the Moon.


Life is no Matter è un disco che prende l'essenza di quello che è stata la scena musicale di Canterbury. Quest'essenza dev'essere vissuta in modo assolutamente diverse al giorno d'oggi, perché tutto è cambiato, perché viviamo in una realtà assolutamente diversa. Per quello il messaggio dei Professor Tip Top è un invito all'evasione, al sognare ad occhi aperti, al dialogare con certe parte nostre che vengono sempre più sotterrate. Questo è un messaggio che tutti dovrebbero tenere sempre in considerazione.

Voto 8/10
Professor Tip Top - Life is no Matter
Apollon Records
Uscita 08.09.2017


  

martedì 5 settembre 2017

Leucosis - Liminal: sopravvivere alle tenebre

(Recensione di Liminal dei Leucosis)


Io non so bene quale può essere la maggiore retribuzione che un musicista possa mai ricevere. Non mi riferisco soltanto al punto di vista economico perché, come sappiamo benissimo, ci sono certi generi che vengono fatti per la passione e basta. Penso che di persona in persona questo concetto cambierà ma mi azzarderei a dire che un po' per tutti la capacità di essere un artista seminale dev'essere un bel premio. Sentire nominare il proprio progetto tra le influenze che hanno portato altri gruppi a vivere una propria strada nella musica. Perché vuol dire che dall'aspetto più privato della musica, si passa a quello esterno, alla capacità di stabilire un ponte tra la creazione e l'ascolto. 

Forse è ancora presto per pensare se i Leucosis riusciranno ad influenzare molti musicisti, ma su quello che non c'è dubbio è che loro stessi hanno saputo pescare nella musica dei nomi eccellenti e trasformare queste influenze in un black metal sperimentale che merita uno sguardo più approfondito. Il loro terzo album s'intitola Liminal ed è un concentrato di oscurità e sperimentazione. Prendo dunque questi due mondi e lì metto a confronto. La parte oscura sta nella parte black metal, molto fedele al passato musicale di questo genere, con un certo sguardo verso il lo-fi e la capacità di costruire delle parti schiaccianti come sassi. Ma come succede molto spesso, lo sguardo giusto da dare ad un'intenzione del genere è quello di cercare le melodie che s'insinuano in mezzo al rumore, i giochi di batteria che lasciano degli ampi spiragli ad una dinamicità variabile. Chi conosce il black metal sa che molto spesso sono questi gli elementi che portano ad ammirare profondamente uno dei generi musicali con i fans più fedeli che riescono a prendere la musica come una vera e propria filosofia di vita. La parte sperimentali è, invece, quella che per me ha una valenza maggiore. Sicuramente perché amo la creazione di paesaggi oscuri e surreali, fatti di dissonanze molto ricercate, dell'utilizzo di un'effettistica che sembra non avere limiti e di un'immaginazione che cerca di restituire in musica quello che una mente malata può concepire. Questa parte nella musica dei Leucosis è molto misurata. A tratti prende il protagonismo ma in altri è solo un accenno. Ma quando è presente ci regala dei momenti spettacolari, dove la luce cambia tonalità facendoci scoprire un mondo complesso e nascosto.

Leucosis

Liminal è un disco relativamente corto, perché la sua durata supera di poco la mezz'ora, ma l'impressione che viene ascoltando e riascoltando questo materiale è che sia giusto così, che una durata maggiore non permetterebbe di apprezzare completamente questo lavoro, e che, invece, una durata minore sarebbe una dimostrazione limitata di quello che può essere il discorso del gruppo. Ma in questa mezz'ora, divisa in cinque tracce, due delle quali strumentali e molto corte, i Leucosis ci offrono dei mondi diversi, che prendono vita in epiche creazioni. Ma l'epica non è "gloriosa" o "luminosa", non parla di vittorie o odissee impensabili, no, l'epica di questo disco è devastante, è un'ondata di oscurità che si sovrappone a qualsiasi cosa, è il trionfo di un modo di vedere la vita, dove sembra che l'umanità sia condannata ad una lunga agonia, già in atto. 

E' interessante che questa lettura sia riportata nella musica di quello che si può ascoltare in Liminal. Questo diventa dunque un disco devastante, dove non c'è molto spazio ad una speranza o al dubbio di poter vivere tutto in un altro modo. I Leucosis ci regalano un panorama devastante ed implacabile, un mondo fatto di ombre ma il messaggio è chiaro: per sopravvivere bisogna abituarsi, bisogna abituare lo sguardo all'oscurità e riuscir a scoprire le piccole sfumature che possono significare la salvezza. Infatti questo non è un manifesto dell'oscurità ma una "specie" di manuale di sopravvivenza.



Come scritto prima questo disco è composto da tre veri e propri brani, intrecciati da due intermezzi strumentali, dunque ci butto l'occhio su una delle tracce.
Questa è Manifest, brano di chiusura dell'album. Ho scelto proprio questa traccia perché mi piace il modo che inizia ed il ponte che riesce a stabilire tra le diverse anime del disco. Non è un brano tranquillo ma non è neanche quello più potente del lavoro. Forse, in modo particolare, è quello più "bello". Il modo nel quale le diverse parti si susseguono da l'idea di una narrazione molto effettiva che funziona perfettamente perché il lettore/ascoltatore sulle spine, ignaro di quello che accadrà appena la pagina verrà girata. Un bellissimo disco che da molta personalità a questo interessante gruppo.

Personalmente credo che nella musica è molto facile prendere delle strade semplici. Anche nel metal è così, basta affidarsi a certi preconcetti ed il gioco è fatto. Per quello poi vengono creati degli stereotipi che allontanano certe persone non vicine a determinati generi musicali. Per quello credo che questo Liminal dei Leucosis abbia il diritto di essere ascoltato con molta più calma, perché le strade che prende non sono mai quelle più semplici e scontate, ma c'è una ricerca sonora dentro a quello che si vuole raccontare. Mi piacerebbe sentire ancora più sperimentazione ma questo disco è già molto interessante.

Voto 8/10
Leucosis - Liminal
Sentient Ruin Laboratories
Uscita 01.09.2017

lunedì 4 settembre 2017

Nemecic - The Deathcantation: essere pronto per dire la sua

(Recensione di The Deathcantation dei Nemecic)


Siamo bombardati quotidianamente di nuova musica. Nuovi gruppi che si aprono strada in un mondo sempre più pieno di musica e di nuove strade. Per quello non è affatto semplice dare il salto che permetta di arrivare ad un ampio pubblico. Spesso mi chiedo da cosa dipenda la possibilità di diventare famoso o meno e mi è difficile trovare una risposta definitiva, perché credo che i fattori in gioco siano tanti. Con questo non voglio assolutamente diminuire il lavoro di tante band che sono riuscite a conquistarsi un posto nel panorama musicale, ma credo che molto spesso sia anche necessaria una massiccia dose di fortuna, la capacità di trovarsi nel posto giusto al momento giusto.

Nel caso dei finlandesi Nemecic è molto presto per dire se riusciranno a cavare una strada, nella loro carriera, che sia in grado di portarli quanto più in alto, soprattutto perché dopo parecchi anni di esistenza quello che analizzo quest'oggi è il loro primo LP. Ma detto ciò c'è da dire che The Deathcantation è un lavoro molto onesto. Lo è perché si presenta con una grande sicurezza e con la, voluta, consapevolezza di non assecondare alcuna corrente prestabilita ma di divertirsi spaziando dentro a quello che sarà la musica che ha cresciuto i membri della band. Per quello questo lavoro diventa dinamico e variopinto. Un lavoro che non si basa su un'unica strada ma ne percorre diverse nello susseguirsi delle dieci tracce che troviamo dentro. La certezza è quella di muoverci dentro al metal, presenza unica nel sound e nell'attitudine della band. Come conseguenza questo disco è un disco pieno di energia, che anche quando prende una direzione più acustica, in pochi ed accurati momenti, non si sgonfia minimamente, perché è un punto d'impatto pieno dall'inizio alla fine.

The Deathcantation

Come attitudine bisogna dire che i Nemecic battono le strade della sicurezza, e anche se sono pronti a mettere insieme una serie di idee, lo fanno sempre tenendo un grande considerazione quello che è già stato fatto prima da altri gruppi che nuotavano più o meno nelle stesse acque. Per quello il loro sound spazia da quello che viene fatto da gruppi come Lamb of God a certe ricerche progressive dei vecchi Opeth. Ed è quella la grazia maggiore dentro a quello che fanno, cioè il fatto di non fossilizzarsi dentro ad un solo genere. Anzi, in certi momenti l band prende anche delle direzioni perimetrali che quasi entrano dentro a certe sonorità post. Qua c'è anche il tocco di modernità dentro a quello che propongono, altrimenti ci troveremo davanti ad una band con concetti troppo simili a quelli portati avanti una 15 d'anni fa, almeno. Ed invece c'è un apporto nuovo, una volontà di far capire che la musica è in costante evoluzione, ed è giusto che sia così. The Deathcantation diventa un disco da guardare in profondità e da ascoltare con cura. Perché non ci sono soltanto chitarre alla Lamb of God o Nevermore ma ci sono anche sfumature squisite come nel lavoro della batteria che ci regala certi giochi con i piatti che denotano la volontà di essere creativi ed originali. 

The Deathcantation dimostra che i musicisti dietro ai Nemecic sanno perfettamente quello che vogliono e cosa devono fare per riuscirne. Non ci sono insicurezze o esperimenti finiti male. C'è soltanto una grandissima energia che viene incanalate nelle capacità di ognuno di esprimere il proprio strumento, e, di riflesso, nella quadratura finale di questo lavoro. Per quello questo insieme di generi metal trovano una nuova vita, assolutamente comandata e voluta dai membri della band. Quando le idee sono chiare ed un album te lo restituisce, allora vuol dire che lo scopo è stato ampiamente raggiunto.

Nemecic

Pesco due brani che da una parte servono a dimostrare le capacità della band nel mettere insieme tutte le idee che hanno in testa, ed un altro che è un po' il riassunto fedele di quello che possiamo ascoltare in questo disco.
Il primo è Void. In un certo modo la sua ritmica trascinante e i riff di chitarra che ricordano il lavoro di tante band thrash metal potrebbero portare a visualizzare una direzione molto diversa di quella che poi si verifica. Infatti l'entrata della voce pulita ed i fraseggi di chitarra, molto alla Opeth, finiscono per portarci in un altro mondo. Ecco, qua c'è la voglia di sorprendere, di far pensare che si stia andando in una certa direzione per poi percorrerne un'altra completamente diversa.
Il secondo brano è Clockwork e si tratta della canzone più estesa dell'intero lavoro. Anche qua bisogna trovarsi pronto a sorprendersi ascoltando costanti cambi. Per quello l'intro arpeggiata fa pensare ad un brano più intimo, ed invece il riff di chitarra successivo butta a terra quelle certezze. Questo è, curiosamente, un brano che sussegue in modo quasi ipnotico un paio di ritmiche che si reiterano con la voglia di essere inopinabili, perché insistendo ed insistendo tutto entra in testa.


Per chi ama quel suono del metal che sta a cavallo tra la fine degli anni 90 ed i primi 2000 ma che, allo stesso tempo, necessita di nuovi impulsi musicali, questo The Deathcantation sarà un disco da ascoltare assolutamente. Il debutto dei Nemecic non da alcun passo in falso, anzi, urla con sicurezza che c'è una nuova band pronta a mettersi in luce con argomenti molto validi.

Voto 7,5/10
Nemecic - The Deathcantation
Inverse Records
Uscita 01.09.2017

domenica 3 settembre 2017

Subterranean Masquerade - Vagabond: vagare nel Gran Bazar dell'underground

(Recensione di Vagabond dei Subterranean Masquerade)


Uno dei maggiori insegnamenti che si possono fare nella musica è che più aperti si è, meglio è. Ascoltare quanti più generi diversi, abbracciare dei suoni che provengono da più posti diversi e cercare d'imparare qualcosa. Non è un caso se nella storia del rock ci sono stati momenti nei quali si abbracciava con piacere tutte le aperture sonore multiculturali che erano a disposizione. Dev'essere così, come dovrebbe esserlo nella vita di tutti i giorni. Ognuno di noi è cresciuto in un contesto culturale e geografico diverso, e ha forgiato sé stesso grazie a quello che ha vissuto. Si dovrebbe imparare da ciascuno, dai racconti, dalla saggezza che ciascuno custodisce. Per quello mi piace tantissimo la musica che si contamina.

Subterranean Masquerade è un progetto pazzesco. Credo che sarebbe ingiusto considerarlo con il side-project di certi musicisti ma ha più le fattezze di un contenitore sperimentale che lascia ampio spazio alle contaminazioni sonore. Per quello negli anni di vita di questo progetto sono stati parecchi i nomi "eccellenti"  che ne hanno preso parte. Musicisti di gruppi come Green Carnation, Orphaned Land, Novembers Doom o Agalloch si sono susseguiti nella creazione di tre LP e due EP, oltre ad un paio di cover incluse in altrettanti dischi. Oggi mi occupo dell'ultimo esempio musicale uscito dal lavoro collettivo di questo progetto, cioè Vagabond. Ma prima d'addentrarmi in quest'analisi credo che sia importante pensare al perché dell'esistenza di un gruppo come questo e alla voglia di prenderne parte. La risposta più immediata che mi viene è quella che quello che viene proposto dalla band ha ben pochi paragoni nella musica odierna, almeno per quanto riguarda il metal. Magari potrebbe venire in mente, e anche ripetutamente, lo sforzo musicale portato davanti dagli israeliani Orphaned Land, che mescolano magistralmente doom, metal progressivo e folk, ma nel caso dei Subterranean Masquerade c'è quello e molto altro. Anzi tutto lo spirito è molto più "datato", per certi versi ascoltando Vagabond sembra di essere di fronte ad una band anni 70. Dopo di che, le aperture musicali prendono molte vie, dove, sicuramente, la più predominante è quella del vicino oriente, ma non è l'unica. In certi momenti la strumentazione diventa quasi jazzistica, in altri abbraccia elementi di un metal molto deciso, colorandosi poi di una serie di elementi di rock progressivo. Tutto come se fosse la cosa più naturale al mondo, come se non fosse necessario aggiungere o togliere altro, come se l'incontro tra la voce "sporca" e quella pulita fosse un dovere.

Vagabond

Penso che adesso possiamo addentrarci dentro a Vagabond. Come prima cosa da dire bisogna affermare che l'impressione che viene fuori è quella di essere capitato dentro ad una lavatrice che lava, insieme, tutta una serie di generi, come sei mettono dentro dei capi molto diversi, e che dentro a questi movimenti circolari è possibile apprezzare di tutto e di più. Per quello quando si ha l'impressione di essere di fronte ad un brano totalmente rock la voce in growl ci spiazza e ci fa chiederci come mai siamo capitati lì dentro. In altri momenti i brani prendono una direzione completamente metal ed ecco che l'oriente bussa alla porta con l'esotismo proprio di un mix del genere, ma apportando qualcosa di grande, che gonfia i brani pieni di personalità. In altre parole i Subterranean Masquerade non vogliono avere limiti, non vogliono essere classificati in un modo e nell'altro, e forse per quello vengono considerati da molti come una band avantgarde progressive, e non vogliono cercare una sola strada. Loro vogliono percorrere le strade che si sentono, con accenti molto ben messi, e con momenti di distensione, di riflessione, di contemplazione. E' da ringraziare l'idea che tutto si svolge senza grandi imposizioni, che non c'è perennemente un'overdose di strumenti e di arrangiamenti ma che ogni momento è pronto a regalare impulsi nuovi. Per quello ci possiamo anche imbattere in sonorità che sembrano quasi elettroniche, per questo disco è pronto a stupire.

Vagabond

Vagabond è proprio un vagabondare tra culture e tempi diversi. E' quello che sorprende è che è un disco che riesce a metterti di ottimo umore senza per quello essere "facile". Questa qualità è dovuta al fatto che i Subterranean Masquerade sembrano volere a tutti i costi ricreare questa loro festa globale. Una festa che non appartiene a nessun posto in particolare, ma che allo stesso tempo appartiene a tutti i posti del mondo. Siamo di fronte ad un esempio musicale prezioso, ad un laboratorio in fermento che cerca soltanto di raccontare storie con le quali tutti possano, in modo o nell'altro, essere coinvolti. La loro è una festa perché la natura dell'essere umano dovrebbe essere festosa, perché l'instancabile ricerca della felicità sta in quello che viviamo, in come ci riempiamo gli occhi, in quello che assaggiamo, nella musica che ascoltiamo. Ecco, rubando il titolo del loro scorso album, anche questo Vagabond è un Gran Bazar.

Subterranean Masquerade

Voglio pescare tre brani di questo disco, indicando però che oltre a tutti i brani inediti a chiudere questo album ci pensa una bellissima cover di Space Oddity del grande David Bowie
Il primo brano si chiama Kippur. Siamo di fronte ad un brano dove l'oriente è molto presente, dialogando con la parte progressiva della band e lasciandosi contaminare dal metal. Ma lo stupore maggiore che capiterà ascoltando questa canzone si vive verso la fine quando sembra di essere andati a finire nei campi dell'elettronica. Insomma, in quasi sette minuti viviamo un viaggio incredibile.
Il secondo è As you Are. Questo è un brano impressionante, nel senso che potrebbe perfettamente appartenere ad una lunghissima serie di generi, anche non appartenenti al mondo del rock o del metal, ma invece si trasforma in un inno, un brano che è destinato ad essere un classico della band.
E per finire abbiamo Hymn of the Vagabond. Questo è il brano più epico di questo lavoro. Un brano che è pronto ad essere una specie di manifesto di quella che è la concezione musicale della band. Per quello si sviluppa in lungo, cercando di regalare uno sguardo epico a quello che può significare essere un vagabondo consapevole, che non vuole fare altro nella vita che vagare senza meta e senza casa, ma con la felicità in tasca.


Vagabond ci regala un lavoro senza definizioni. E non perché sia difficile analizzare tutto quello che c'è dentro ma perché compiere uno sforzo del genere è assolutamente inutile. Sono sicuro che in fase di composizione i brani che sono usciti dalla mente dei Subterranean Masquerade siano usciti in modo naturale, con la sola voglia di dare al mondo la propria visione del loro mondo, ed è un mondo molto interessante, che tutti dovrebbero ricercare.

Voto 8,5/10
Subterranean Masquerade - Vagabond
ViciSolum Productions
Uscita 01.09.2017

sabato 2 settembre 2017

Vanora - Momentum: diversificare ed approfondire

(Recensione di Momentum dei Vanora)


Quando qualcuno mi chiede perché ascolto metal, la risposta non è affatto difficile. Ascolto metal perché in quel mondo musicale ritrovo tutte le emozioni che m'interessano. Possono avere di fronte dei lavori molto sentiti e traspirati, posso avere dei concentrati di rabbia, posso avere dei lavori di rara bellezza e posso avere dei veri enigmi che si risolvono soltanto ascoltando un gruppo. Il metal è globale ed è difficile pensare che tralasci qualche sfumatura di quello che siamo e di come lo viviamo. Per quello ascolto metal.

Momentum


Nella vasta strada del metal è bellissimo vedere come gruppi nati da poco riescono ad offrire dei lavori di grande grande spessore e d'idee molto chiare. E' quello che succede con i norvegesi Vanora, che ci regalano uno splendido disco di debutto intitolato Momentum. Quello che colpisce maggiormente di questo lavoro è l'insieme di generi che si compenetrano alla perfezione. Da quel punto di vista è abbastanza evidente che la predilezione di questi musicisti si trovi nella musica tecnica/progressiva. Per quello le loro strutture sono molto originali ed articolate, in modo di riuscir a dare vita a delle creazioni molto dinamiche, che viaggiano con grande sicurezza stupendo l'ascoltatore. Quando pensiamo di essere in mezzo ad un brano assolutamente tech metal ecco che tutto prende un'altra piega, che la dinamica cala e che abbracciamo dei suoni più vicini all'alternative metal. Tutto fatto con naturalità, come se ci fosse un'esigenza intrinseca che porta a fare così. E ripeto, a rischio di sembrare pesante, siamo di fronte ad un gruppo nuovo, non a una band conclamata ed affermata.

Momentum

Sebbene i generi nominati in precedenza, tech metal e alternative metal, sono i più presenti sarebbe molto riduttivo dire che questo Momentum si ferma a questo punto. No, dentro all'immaginario musicale dei Vanora c'è molto altro. Normalmente, per non cadere nella dinamica di dover fare un analisi più profondo, si da il nome di modern metal a tutto questo crossover di elementi. Ma dal mio punto di vista dare questa definizione è poco e nulla. Per quello è meglio cercare di descrivere qual è la musica portata davanti dalla band. Partiamo dunque con l'idea di una serie di brani molto tecnici che ricordano in modo importante quello che fanno i Meshuggah, vale a dire ritmiche molto spinte, chitarre che costruiscono dei riff frenetici, spesso dispari, ed una voce growl che aggiunge aggressività a tutto il quadro. Ma oltre a quello c'è tanto altro. Partendo dal lavoro della tastiera. Un lavoro che ha tutt'altra caratteristica di quello di essere un semplice "riempitivo". Infatti ci sono momenti dedicati completamente ai tasti, dove andiamo quasi a sconfinare su un ambient metal ambizioso. Bisogna anche aggiungere il lavoro della voce pulita, che va a stare in grande contrasto con l'altra. E' un lavoro dove la band prende le sembianze di gruppi come TesseracT. Ecco, sono questi contrasti a dare una profondità chiave a questo lavoro e di conseguenza a tutta la band.

Momentum

La riflessione che mi viene, cercando di equiparare questo lavoro con il nostro mondo oggi, è che sia per i Vanora come per la nostra società è molto più semplice avere un accesso quasi illimitato ad una serie di conoscenze e di tecnologie. E spesso si pensa che tutti sappiano fare un sacco di cose senza far veramente bene neanche una. Invece io vorrei girarla a questo modo: la conoscenza è alla portata di molta più gente e come conseguenza di ciò chi è specializzato in qualcosa dev'essere ancora più bravo. Ecco, la bravura che si sente in questo Momentum sta nell'equilibrio che salta fuori dal coniugare tutti questi elementi avendo sempre in alto una grande qualità. 

Vanora

Pesco due brani per farvi capire com'è anche difficile dare un'unica definizione alla musica della band.
Il primo brano è quello di apertura del disco, Mask, ed ascoltando i primi minuti verrebbe da dire: ma la parte tech alla Meshuggah dove diavolo è? Questo perché parte morbido e vellutato, dando un'idea che dopo cambia completamente. Gioco dell'illusione che poi si dimostra altro. Funziona perfettamente perché ancora non ci permette di capire fino in fondo cosa fa la band.
Il secondo è Echo to the World. Qua il discorso cambia. Si sente tantissimo la presenza tecnica o progressiva ma la direzione sembra molto più chiara con rispetto al primo brano. Ma ecco che quando sembra che andremmo in una direzione grintosa, tutto gira e prende una serie di contrasti dove chitarre arpeggiate e tastiere sembrano non assecondare la voce growl. Ma anche questo sarà destinato a cambiare, come se fossimo di fronte ad una furiosa evoluzione che non ha alcuna intenzione di fermarsi.


Ottimo debutto per i Vanora. Un disco che riscuoterà molti consensi. Momentum è molto interessante perché abbraccia con ambizione una serie di impulsi e si misura con un'ambizione non minore. E da questo confronto esce molto ben situato. Sarà interessante vedere come continuerà a svilupparsi tutto il discorso musicale ma non dubito che sentiremo parlare spesso dei Vanora.

Voto 8/10
Vanora - Momentum
Crime Records
Uscita: 01.09.2017