martedì 18 luglio 2017

GlerAkur - The Mountains Are Beautiful Now: la bestia prevale sempre

(Recensione di The Mountains Are Beautiful Now di GlerAkur)


Che cos'è l'arte? Perché dopo anni ed anni di civiltà l'arte continua a esistere avendo una forza imparagonabile in qualsiasi altro elemento? Perché c'è gente nata per regalare nuovi elementi all'arte? Perché le diverse discipline artistiche s'intrecciano, si cercano, si mangiano, si contaminano? Una società senza arte è una società vuota, misera, anemica e sterile. Le emozioni che si provano di fronte all'ascolto di certa musica, all'osservazione di certi film o di certi quadri, alla lettura di certi romanzi o racconti, sono delle emozioni uniche ed imparagonabili. Perché? Perché, semplicemente, l'arte è vita e senza arte non c'è più vita.

The Mountains Are Beautiful Now

The Mountains Are Beautiful Now è un titolo pazzesco, di una bellezza da far venire la pelle d'oca. E' un estasi di felicità raggiunta, la consapevolezza di essere arrivati a trovare il proprio paradiso in terra. Ma dietro a questo titolo c'è tanto altro, c'è cultura, c'è storia e c'è la personalità complessa di un musicista che poco a poco si svela al mondo: GlerAkur. Di lui vi avevo già parlato circa un anno fa, quando la Prophecy Productions, una delle case discografiche più lungimiranti che ci sia, mi diede modo di ascoltare in anteprima un EP meraviglioso intitolato Can't You Wait (recensione che potete leggere qui). Solo tre canzoni mi hanno messo di fronte a certe sonorità mai ascoltate, ad un insieme di note che avevano la capacità di trasportare l'ascoltatore e di portarlo in un mondo fatto di roccia, di vento, di luci naturali e di scoperte. Da allora la voglia di sentire qualcosa di più, proveniente da questo, all'epoca, sconosciuto progetto islandese, era inarrestabile. Ebbene, l'attesa è finita.

The Mountains Are Beautiful Now

Per capire The Mountains Are Beautiful Now bisogna prima mettersi al corrente di un paio di elementi importanti. 
Primo, chi è GlerAkur? Dietro a questo moniker si nasconde Elvar Geir Sævarsson, compositore e sound designer islandese che lavora essenzialmente col teatro nazionale del suo paese. Questo progetto era il suo contenitore di sperimentazioni e di idee. Ma la tremenda originalità dei suoi lavori ebbe un effetto tale che poco a poco fu fondamentale che la musica uscisse dall'ambito privato e diventasse usufruibile da tutti. Come? In due modi, il primo è grazie alla registrazione dei due lavori che possiamo trovare di GlerAkur ed il secondo è riuscendo ad apprezzare dal vivo queste composizioni. E qua si apre una parentesi fondamentale; l'unico modo di dare questa dimensione live è quella di avere un gruppo formato da quattro chitarristi, due batteristi ed un basso. Perché? Perché c'è una radice metal che si mescola con la parte di disegno sonoro, perché la via facile sarebbe tirare fuori dei lavori pieni di registrazioni programmate, di synth spaziali e quant'altro. Ma non è così dentro alla testa di Elvar Geir Sævarsson, la sua musica deve essere uno tsunami sonoro, dev'essere un'onda travolgente che non può lasciare nessuno immune. Deve esserci la potenza suonate, sudata e trascinata. Devono esserci sette menti che riescono a dialogare sulla stessa lunghezza d'onda.
Secondo elemento fondamentale, The Mountains Are Beautiful Now è una riproposizione delle composizioni di Elvar Geir Sævarsson per l'opera teatrale Fjalla-Eyvindur og Halla. Quest'opera, degli inizi del secolo scorso è un'opera islandese molto importante, crudele e sentita. In grosse linee narra la storia di un fuorilegge che nella sua sfuggita s'innamora e diventa padre rifugiandosi nelle montagne, ma quando viene braccato si vede costretto a uccidere uno dei suoi inseguitori e la sua moglie fa altrettanto con la loro piccola figlioletta, per evitarle di vivere una vita di persecuzioni. La morale è che la società trasforma gli uomini in bestie, la natura trasforma gli uomini in bestie, l'amore trasforma gli uomini in bestie. Insomma, non si può mai sfuggire da quello che siamo, da quell'impulso interno che cerchiamo di tenere sotto controllo.


GlerAkur

Avendo a disposizione queste informazioni possiamo addentrarci dentro a The Mountains Are Beautiful Now. Quello che penso che sia chiaro a tutti è che siamo di fronte ad un disco estremamente visivo, uno di quei lavori che non ha bisogno di parole per raccontare tante cose. Ma qua la cosa si fa interessante. Come si può comporre la colonna sonora di una storia così forte? Credo che le vie sono pressoché infinite.La via scelta da GlerAkur è una via interessantissima che porta intrinseca la provenienza geografica. Per quello c'è molto post rock e ambient nella loro musica ma ci sono altri elementi fondamentali. Anche qua è d'obbligo far riferimento ad un'altra informazione. Lo stesso Elvar Geir Sævarsson dichiara che per suonare con lui bisogna seguire due regole: suonare semplificando al massimo quello che si suona e ripetere a loop le frasi che vengono fuori fino a riuscir ad entrare in pieno dentro al mood di quello che si sta suonando. In altre parole le cinque tracce di questo disco si costruiscono su composizioni cicliche che si arricchiscono o si spogliano fino ad arrivare a trasmettere il loro scopo. Per quello c'è tanto di drone music dentro a questo disco. Ma c'è ancora altro. La accurata ricerca sonora porta questo disco ad avere delle chitarre così tanto trattate da diventare un nuovo materiale sonoro da modellare, e molto di quel materiale prende ispirazione al suono del black metal. Cioè chitarre distorte, taglianti e pesantissime. Ecco la componente più cupa e bestiale di questo disco.


GlerAkur

Forse il caso di GlerAkur è uno dei casi dove più si capisce come confluiscono una serie di generi per crearne uno nuovo. C'è una forte impronta islandese in questo The Mountains Are Beautiful Now ma c'è anche una forte componente cinematografica. Queste due linee non bastano a dare tutta l'originalità dovuta ed è a questo punto che si aggiunge un terzo mondo fondamentale: quello del metal che prende la bestialità e l'irrefrenabile forza del black metal. Ecco, con questi tre elementi sarebbe facile perdersi e rifinire rimediando un bel pasticcio. Nel caso di questo disco, invece, quello che viene fuori è sorprendente, perché certi elementi tracciano la strada e gli altri la addobbano in modo di renderla unica. Questo è un amore bestiale, tanto bello quanto distruttivo. 



Anche in questo caso mi è ben difficile far prevalere certi brani sugli altri. Di queste cinque tracce una la conoscevano già, si tratta di Can't You Wait, brano che aveva regalato titolo all'EP di esordio del progetto. Per quello delle quattro altre canzoni vi faccio un piccolo riassunto di quello che racchiude ognuna di loro.
Il disco si apre con un brano strepitoso intitolato Augun Opin. Il tappetto di chitarra sul quale si adagia tutto il resto è bellissimo. Qua vediamo come il ruolo di una delle quattro chitarre sembra rimpiazzare quello che potrebbe essere fatto da un synth, ma è questa la bellezza, l'elemento d'avanguardia che ricorda quello che viene fatto in band strepitose come i King Crimson o i Gordian Knot. E' un mondo fatato reso musica.
La terza traccia è HallAlone e personalmente è il brano che mi ha lasciato qualcosa in meno con rispetto a tutti gli altri. Il suo inizio è assolutamente drone diventando un sottile crescendo di musica, di fraseggi arpeggiati, di ossessive reiterazioni.
Strings è uno dei punti più alti di questo disco. Un brano lungo ben 15 minuti che da la dimensione perfetta di quello che musicalmente succede in Islanda. Infatti potrebbe perfettamente sembrare una canzone dei Sigur Rós con una differenza sostanziale, lì dove si ferma la spinta di questo ultimo gruppo e proprio lì che GlerAkur insiste, per quello le due batterie diventano una valanga che non vuole fermarsi, per quello i suoni si espandono fino a riempire tutto lo spazio. Bellissima
Il disco si chiude con Fagurt Er Á Fjöllunum Núna, ed è qua che i tre mondi dialogano magistralmente e che si capisce la bestialità autodistruttiva della storia narrata. Questo è un brano che inizia con la bellezza dell'amore, con intrecci preziosi di chitarre che regalano un tappetto fondamentale per lo scontro che avviene verso la fine. Su questa costruzione si sovrappone una parte perfettamente black metal di chitarre spinte al massimo nell'overdrive, delle due batterie che hanno intenzione di bucare il pavimento, perché? Perché la bestia ha vinto, e quando vince non rimane null'altro.

The Mountains Are Beautiful Now è molto di più di quello che sembra. Non è la "semplice" colonna sonora di un'opera teatrale "vecchia" cent'anni. Quello che strumentalmente ci viene regalato da GlerAkur è una metafora della vita, di quello che ciascuno di noi, in modo diverso, insegue, cioè la bellezza. Ma è anche il riflesso dell'anima bestiale che vive dentro di noi e che, quando prende il controllo, spazza via tutto quello che è stato costruito in anni ed anni. Questo è un disco che parla dell'essere umano, del nostro sforzo eterno di non essere più animali quando, in realtà, quella bestialità non ha solo a che fare con la natura ma semplicemente con la vita. Per quello si uccide, si distrugge, ci si scontra, ci si ossessiona e ci si mette sempre in conflitto, come se l'essere in conflitto con qualcuno o qualcosa fosse fondamentale. Ebbene sì, la bestia ha sempre il sopravento.

Voto 9/10
GlerAkur - The Mountains Are Beautiful Now
Prophecy Productions
Uscita 21.07.2017

Pagina Facebook GlerAkur
Pagina Bandcamp GlerAkur 

lunedì 10 luglio 2017

A Stick and a Stone - The Long Lost Art of Getting Lost: perdersi, sempre

(Recensione di The Long Lost Art of Getting Lost dei A Stick and a Stone)


Ci sono piccole grandi rivoluzioni che l'umanità, poco a poco, si è conquistata. Per esempio la tolleranza sessuale e l'accettazione di qualsiasi scelta personale venga presa da ciascuno. Per quello, e grazie anche ai progressi in campo medico, chi nasce con la consapevolezza di non avere il genere sessuale giusto può intraprendere una strada che lo porti ad essere quello che veramente vuole essere. Credo che quelle persone sono veramente coraggiose ed abbiano un bagaglio di esperienze ricchissimo e che molto ci può insegnare.

Perché introduco questa mia nuova recensione parlando dei transgender? Perché uno dei due membri di A Stick and a Stone lo è, e non credo che si tratti di un dato aneddotico e basta. Credo che il sound particolare e ricercato di questa band si nutra del terreno particolare di qualcuno che ha cambiato sesso e che guarda il mondo da un'ottica unica. Il loro disco che sottopongo alla mia lettura è  The Long Lost Art of Getting Lost ed è la terza tappa nella storia di questo gruppo statunitense. La voce e mente di questo progetto risponde al nome di Elliot Harvey e si nota che la sua impronta è fondamentale nel risultato finale. La sua voce sembra più femminile che maschile ma si sorregge in una timbrica unica e molto interessante. Come è anche molto interessante la scelta strumentale che mette in primo pieno il basso e la batteria contando con interventi di violoncello che danno un carisma unico alla musica dei A Stick and a Stone, ricordando quello che viene fatto dagli Amber Asylum. Per capirci meglio posso dirvi che questo è un disco molto elegante, ben curato, di piacevolissimo ascolto dove la solitudine acquista delle tonalità vellutate. 


The Long Lost Art of Getting Lost


Sicuramente lo sforzo musicale della band tende ad abbracciare il mondo più cupo che si traduce in sonorità che hanno qualcosa di doom, qualcosa di metal d'avanguardia e una buona propensione di costruire oscuri, ma bellissimi, paesaggi musicali utilizzando al meglio gli impulsi del dark ambient. C'è qualcosa di molto intimo, di molto sentito in questo The Long Lost Art of Getting Lost. Non c'è alcun bisogno di urlare quello che si sente, basta dare la forza della poesia e dell'immaginario scelto per riuscir a far capire il messaggio. Come indica il suo titolo questo dei A Stick and a Stone è un album per anime solitarie che non sono in guerra col mondo perché hanno capito di poter costruirsi un proprio mondo, fatto di tutto quello che la maggioranza della gente rifiuta. Per quello c'è anche una specie di anti conformismo nella scelta strumentale di questo disco. Più che mai la base ritmica, basso-batteria, fa di collante perfetto a tutto il resto, facendo procedere con salite e discese le strutture musicali della band. A quello si aggiunge la voce unica e particolare di Harvey e gli interventi mirati delle corde. Tre mondi che s'intrecciano con l'intenzione di costruire qualcosa di unico. E ci riescono.

C' è qualcosa da spirito errante dentro alla musica di A Stick and a Stone, qualcosa che universalizza, e quasi divinizza, la loro musica. Quello che fanno non merita di essere qualificato con leggerezza ed urgenza cercando di paragonarlo a cose già sentite. Una cosa che mi ha chiamato molto l'attenzione è che citano tra le loro influenze Lhasa de Sela, strepitosa musicista multiculturale scomparsa prematuramente. Ecco, quella nostalgia universale presente nella musica di Lhasa è la stessa che si può ascoltare e soppesare in The Long Lost Art of Getting Lost. E' qualcosa che va sentito, che s'insinua fino al cuore, perché non è qualcosa di ragionato. Questo disco è uno specchio nel quale soltanto poche persone vedranno il proprio riflesso.


A Stick and a Stone

Due brani da vedere più nello specifico.
Quello che apre il disco e che si chiama Erosion. Curiosamente è forse il brano più energico dell'intero lavoro, anche se per questo non bisogna pensare che sia un brano "tirato". Si apprezza perfettamente l'equilibrio tra le parti dove ogni strumento sa cosa deve fare.
Il secondo brano è Hawk e lo scelgo perché permette di capire la particolarità e qualità della voce. Un brano pieno di pathos dove è fondamentale avere una guida forte e chiare come quella vocale. E' un brano più viscerale, dunque per niente facile.



The Long Lost Art of Getting Lost è l'esempio perfetto di quello che significa costruirsi un mondo a parte da quello convenzionale. Non si tratta soltanto delle caratteristiche del leader della band, o delle tematiche che vengono cantate; è proprio un modo di guardare il mondo con altri occhi, con la particolarità di voler esprimere qualcosa che è al di sopra di qualsiasi convenzionalismo, moda o corrente. Questo è uno di quei dischi che non hanno età, che vanno, e fanno, sempre bene. A Stick and a Stone ci insegnano a perderci, ed oggi quella è forse la miglior cosa che possa capitare.

Voto 8,5/10
A Stick and a Stone - The Long Lost Arto of Getting Lost
Sentient Ruin Laboratories
Uscita 21.07.2017

Sito Ufficiale A Stick and a Stone
Pagina Facebook A Stick and a Stone

venerdì 7 luglio 2017

Ueno Park - Feu Clair/Dix Mille Yeux: la fortuna di vivere

(Recensione di Feu Clair/Dix Mille Yeux di Ueno Park)


Un elemento chiave nell'insegnamento della musica e di qualsiasi strumento è quello di fare capire agli allievi che quello che aiuta a fare musica deve essere l'estensione del nostro corpo. Per quello suonare musica non è un qualcosa alla portata di tutti, o piuttosto, diventare un musicista non è alla portata di tutti. E forse è proprio quella la barriera che bisogna oltrepassare per diventare un musicista vero. Non c'entra la tecnica, non c'entra la capacità di suonare quante più cose possibili. C'entra soltanto la confidenza estrema col proprio strumento, in grado di riprodurre quello che ci frulla in testa e quello che abbiamo nel cuore.

Il disco che cercherò di spiegarvi quest'oggi è un lavoro molto diverso da tutto quello che vi ho raccontato fino ad adesso. Lo è perché è costruito solo con l'utilizzo della chitarra classica, senza amplificazione, senza effetti, senza altri strumenti e senza voce. Una chitarra solitaria e basta. Ma è anche diverso da tutto il resto perché questo disco è un diario lungo un anno. Si tratta di Feu Clair/Dix Mille Yeux di Ueno Park, nome artistico scelto dal chitarrista francese Manuel Adnot per il suo progetto solista. Più che mai diventa fondamentale che lo strumento, in questo caso la chitarra, sia la proiezione del corpo, della mente e del cuore. Non solo, ma questo disco diventa, in un certo modo, un album fotografico di un anno affascinante, un anno dove si intende che ci sono stati viaggi, scoperte, innamoramenti, grandi osservazioni e, di conseguenza, grandi riflessioni. La cosa più interessante è che quello che prevale più di qualsiasi altra cosa è l'emozione. Non c'è una ricercatezza tecnica, armonica, stilistica. Non serve, serve solo impregnare in ogni nota quello che si è appena vissuto. E l'ascoltatore riceve tutto ciò. Per quello queste "fotografie" sonore hanno una doppia vita, la prima quando sono state composte e registrate, cercando di congelare un'emozione, un sentimento o un momento vissuto; la seconda, quando vengono decodificate e reinterpretate da chi ascolta. In entrambi i casi la carica emotiva è immensa.

Feu Clair/Dix Mille Yeux

Come definire musicalmente questo lavoro? E' difficilissimo e per quello la via più semplice è quella di dire che siamo di fronte ad un disco sperimentale. Dove l'aspetto sperimentale giustifica l'ampio ventaglio di sensazioni sonore che vengono fuori da questo Feu Clair/Dix Mille Yeux, ma anche il fatto che è stato registrato in modo passeggero, veloce ed onesto, con la stessa urgenza con la quale sono nate queste tracce. Per quello il lavoro di registrazione non è stato svolto in uno studio ma Ueno Park ha scelto i posti dove immortalare queste canzoni in base ai momenti e al conferire alla suo musica altri elementi che facessero diventare questo disco qualcosa di unico. Per quello una galleria, una chiesa, una stanza vuota sono tanti degli spazi che andavano bene per questo disco. Scelte che sicuramente hanno a che fare con l'acustica e con la possibilità di arricchire quanto più possibile il suono senza l'utilizzo di elementi esterni, ma anche scelte circostanziali che indubbiamente hanno rafforzato la carica emotiva di ogni pezzo. Come vi dicevo prima questo è un disco fatto col cuore, con sentimento, e per quello i brani presenti sono molto diversi, qualcuno diventa quasi un mantra con piccoli fraseggi che si ripetono ossessivamente; altri sono fiumi in piena di note che si accavalcano con urgenza e voglia di uscire, una dopo l'altra, forti e presenti. Infatti sento che la difficoltà di suonare questo disco non stia tanto nella complessità delle sue composizioni, anche se certi brani sono difficili, ma nell'essere in grado di restituire la carica emotiva che hanno.

Feu Clair/Dix Mille Yeux

L'immagine che mi viene in mente pensando a questo Feu Clair/Dic Mille Yeux è molto bella. Per uno come me che ama la fotografia e che cerca di immortalare i momenti essenziali della propria esistenza, come i viaggi, è bellissimo pensare al fatto che il ragionamento fatto da Ueno Park è quasi lo stesso, ma invece di avere in mano la macchina fotografica e una chitarra che parla, che disegna, che cattura l'immagine per poi regalarcela, preziosa, unica, irripetibile. La spontaneità di questo disco colpisce dritta nel cuore perché non è perfetta, non è priva di piccole sbavature che magari in studio sarebbero imperdonabili, ma è proprio tutto questo a rendere questo lavoro prezioso, un lavoro che tocca il cuore dell'ascoltatore perché umano.

Ueno Park

Come capita con la fotografia i gusti sono molto soggettivi e qualcosa che ci tocca in uno scatto non necessariamente emozionerà tutti quanti, per quello è molto difficile slittare una qualsiasi "classifica" all'interno di questo disco adulando maggiormente qualche brano con rispetto agli altri. Io provo a raccontarvi due che in questi momenti sono riusciti a toccarmi di più.
Il primo è Cosmos, brano concretissimo che supera appena i due minuti. Mi piace per la sua emotività, per la sua pioggia infinita di note che assomigliano alle stelle cadenti che percorrono l'universo solo per essere viste da noi. S'impazzisce di fronte a tanta bellezza, così alta, così pura.
Il secondo è Eau Clair. Questo è un brano diverso dalla maggioranza di questo disco perché la chitarra viene sottomessa ad una serie di processi che la trasformano nella seconda parte facendola diventare eterea. Questa acqua scorre limpida, ancora una volta pura, quale tesoro ormai nascosto. Perché nel nostro mondo sembrano essere questi i tesori, la purezza, gli spazi vergini ed incontaminati. Ecco, questa canzone sembra narrarci tutto ciò, sembra essere l'emozione di fronte a qualcosa di così buono da non dimenticarselo mai. Anni fa andavo in campeggio e camminavo moltissimo. In queste escursioni assaggiare l'acqua che spontanea s'insinuava vicino ai sentieri era un'emozione unica. Non si trattava soltanto di saziare la sete ma di voler fissare nella mente quel sapore, sapore di acqua di montagna, di acqua incontaminata. Questa canzone mi ha restituito quella sensazione. 



Prezioso è questo Feu Clair/Dix Mille Yeux. Prezioso nella sua onestà, prezioso nelle sue imperfezioni, prezioso nella sua emotività. Provate ad essere trasportati dalle sue note, provate a lasciarvi guidare nei mondi che sono passati d'avanti agli occhi di Ueno Park, provate a perdervi in quei mondi e poi uscite. Uscite a camminare senza meta alcuna, uscite a respirare, uscite a fissare nella vostra mente i dettagli che vi sono sempre sfuggiti ma che erano sempre lì urlandovi: "guardami!". Uscite ad innamorarvi e poi, quando tornerete, sarete migliori.

Voto 9/10
Ueno Park - Feu Clair/Dix Mille Yeux
Atypeek Music
Uscita 07.07.2017

Pagina Facebook Ueno Park
Pagina Soundcloud Manuel Adnot

mercoledì 5 luglio 2017

SEER - Vol. III & IV:Cult of the Void: dal macro al micro, questa è la vita

(Recensione di Vol. III & IV: Cult of the Void dei SEER)


Forse una delle fonti d'ispirazione più importanti nella storia dell'arte è la natura. Quanti capolavori sono stati dipinti cercando di riprodurre o d'interpretare un paesaggio che s'insinuava di fronte agli occhi? Quante odi cantavano alla magnificenza di un evento naturale? E quante canzoni hanno riprodotto le emozioni che si provano di fronte alla bellezza infinita del nostro mondo? Come sempre è importante ricordare che facciamo parte della natura e dobbiamo rispettarla capendo qual è il nostro ruolo come parte di essa.

Ho parlato della natura perché è proprio lei a essere grande protagonista del disco che vado ad illustrarvi quest'oggi. Si tratta del secondo lavoro dei canadesi SEER ed ha per titolo Vol. III & IV: Cult of the Void. Come indica il suo nome questo disco dovrebbe essere la continuazione del primo lavoro della band, ma più che percorrere lo stesso sentiero quello che vediamo qua è un cambio di rotta ampliando tutti gli spazi della band. Tradotto in altre parole questo nuovo disco ci presenta un gruppo che ha cambiato pelle, senza per quello abbandonare del tutto quello che ha fatto in precedenza, per riuscir ad esprimere meglio le proprie idee ed i propri concetti musicali. Per quello questo disco presenta l'utilizzo molto presente di voci pulite e di un approccio più melodico con rispetto al lavoro precedente. Verrebbe facile pensare, come si fa molto spesso, che la band abbia ceduto a percorrere una strada molto più semplice, fatta di un linguaggio molto più semplice e dunque alla portata di tutti. Nulla più sbagliato. La nuova direzione dei SEER risponde alla voglia di esprimere al meglio il loro disco. Questo è un disco che sa di boschi, di fiumi, del crepitare del fuoco, dell'odore della terra umida, dei raggi di sole a prima mattina che piano piano svegliano il mondo.

Vol III & IV: Cult of the Void

Il punto di partenza con il quale i SEER si era presentato in società era un doom metal misto ad uno sludge metal. Questo binomio non scompare affatto in questo Vol. III & IV: Cult of the Void ma viene messo a pari livello di quello che possiamo chiamare un goth metal, cioè un metal con una fortissima componente oscura ma relativamente più diretto e vicino ad una concezione più rock. Anzi, aggiungerei che questo disco ha molti elementi che ci riportano indietro agli anni 90. Ma ci sono anche altre caratteristiche che bisogna assolutamente sottolineare in questo lavoro. Per esempio la coabitazione dell'elettrico con l'acustico. Per quello la prima parte di questo disco ci regala una serie di canzoni grintose, molto dirette, sempre piene di quell'oscurità molto ben concepita. Invece la seconda parte abbraccia dei suoni acustici dove l'intimità diventa protagonista. Ed è proprio questa coabitazione a fare di questo disco un lavoro molto completo. Come capita in molti casi l'esistenza di una delle parti esalta l'altra, e viceversa. La parte elettrica diventa ancora più diretta e grintosa, quella acustica sa invece d'introspezione e di luce tenue. Passiamo dal macro al micro, dal fascino di una montagna alla complessità di un microrganismo. Passiamo al fascino di perderci guardando le stelle a pensare a noi stessi, piccoli granelli di un insieme molto più importante.

Ecco, credo che il punto perfetto per capire questo disco stia nell'idea di macro e micro e nel labirinto pazzesco che nasce pensando al vuoto. Sono due concetti molto diversi e cercherò di spiegare meglio la mia tesi. Il vuoto è un concetto così difficile da spiegare che pensare proprio ad avere un culto verso di lui è una provocazione strutturale che può stuzzicare tante riflessioni filosofiche. Ma forse è proprio in mezzo a questo vuoto che si capisce che tutto e nulla ha senso. In altre parole, siamo dei leggerissimi granelli di sabbia e la nostra esistenza individuale sembra non significare nulla di fronte alla grandezza dell'universo, ma nello stesso tempo io mi ritrovo a scrivere le mie riflessioni venute fuori dall'ascolto del disco di cinque ragazzi canadesi, e tu, lettore, completi questo cerchio. Ecco, sicuramente questo processo non cambierà il destino del nostro mondo ma abbiamo stabilito una serie d'interazioni che non devono assolutamente sottovalutate. Questo è quello mi ha provocato questo Vol. III & IV: Cult of the Void dei SEER.

SEER

Vi ho parlato di due parti molto diverse di questo lavoro, di quella macro e di quella micro. Scelgo un brano per parte per spiegarvi cosa intendo.
Per la parte macro scelgo They Used Dark Forces. Credo che il titolo sia già molto chiaro. Siamo di fronte ad un brano che non scende a compromessi. Un brano sludge che prende quella  forza scriteriata delle opere di quel genere ma la sua intenzione è anche quella di guidarci attraverso bui sentieri che sono quel che siamo e quello che è la grandezza del nostro mondo. 
Per la parte acustica scelgo il brano che chiude questo lavoro, dal curioso titolo di संसार, termine hindi che indica il Samsara, cioè il ciclo infinito della vita. E' un brano bellissimo che da perfettamente l'idea di nascita, morte e rinascita. Perfetta chiusura del disco che ancora una volta dimostra che anche con sonorità acustiche è possibile toccare altissime vette sonore.



Vol III & IV: Cult of the Void è un disco molto completo, un lavoro che nasce con grande potenza per poi addentrarsi nell'anima di ciascuno. E' il nulla ma anche il tutto. E' il vuoto ma è anche la capacità di dare un senso ad ogni singola esistenza. Per quello ben venga l'evoluzione sonora dei SEER.

Voto 8/10
SEER - Vol III & IV: Cult of the Void
Art of Propaganda
Uscita 07.07.2017

martedì 4 luglio 2017

Intervista a Telepathy: l'umiltà di essere una cosa sola con la folla

(Intervista a Telepathy)


Dopo aver apprezzato il loro disco Tempest era quasi un dovere conoscere più approfonditamente i Telepathy. La mia recensione di questo disco la trovate qui.Invece qua sotto trovate le loro interessanti risposte alle mie domande. Buona lettura!

Tempest


● (Lettere Dall’Underground) Ciao ragazzi, è un piacere parlare con voi. Approfondiamo Tempest. Possiamo dire che ciascuno di noi ha una tempest all’interno? 
(Telepathy) Assolutamente sì, il concetto del nuovo album è nato da un momento turbolento delle nostre vite e abbiamo dovuto regolarci con un sacco di tematiche che erano prevalenti per noi in quel periodo. Dunque sì, possiamo prendere il concetto metaforicamente o letteralmente.

 (LDU) Mi piace un sacco che avete costruito delle storie senza utilizzare le parole, e penso che ogni persona che ascolterà Tempest sarà in grado di vedere chiaramente qual è stata la vostra intenzione, pertanto la mia domanda è: avete pensato prima all’idea di quello che volevate raccontare o la musica è stata la prima cosa? 
(T) La musica è venuta fuori per prima. Dopo che abbiamo scritto le prime due canzoni siamo riusciti a vedere la storia che stava venendo fuori dalla musica. Da quel punto abbiamo strutturato l’album per farlo calzare nella narrazione.
Tempest

 ● (LDU) Un’altra cosa grandiosa della vostra musica è che non avete limiti. Suonate tranquillamente post metal, doom, sludge, post rock. Quanto è importante non avere limiti quando componete?
(T) È la cosa più importante per noi, non vogliamo essere socchiusi in un genere o formula. Essere catalogati in un certo genere è qualcosa che c’interessa ben poco, preferiamo seguire I nostri istinti e scolpire la nostra propria strada. 

 (LDU) Di recente avete suonato al Roadburn Fest. Com’è andata?
(T) Il Roadburn Festival è stata un’esperienza incredibile ed è stato un piacere assoluto aver concluso il nostro tour lì. Tutto quel che posso dire è che tutte le cose positive che puoi avere sentito sono vere, è un festival dove tutta la gente interessata nella musica di mentalità avanguardista dovrebbe essere presente.

 ● (LDU) Avete mai pensato di aggiungere delle voci alle vostre canzoni? 
(T) Certo, con Echo of Souls del Nuovo album, sapevamo che era il punto perfetto del disco e il momento giusto per la band di aggiungere voce alla nostra musica. Non utilizzeremmo mai delle voci per il semplice piacere di aggiungerle, soltanto quando possono aggiungere qualcosa alla musica e sempre come se fosse un nuovo strumento.

 ● (LDU) Cosa vi aspettate dal vostro pubblico? 
(T) Nulla in assoluto, sappiamo di essere dei previlegiati del fatto che ci sia gente come te che sia interessata nella band e nella musica che facciamo. Siamo incredibilmente gratti di poter suonare questa musica per gente che si trova molto lontano dalla nostra casa e di avere un pubblico globale che segue tutto quello che facciamo. Vogliamo soltanto condividere un’esperienza con altra gente augurandoci che provino qualche piacere con quello che sappiamo fare.

• (LDU) Parlando da musicisti, qual è il concerto perfetto? 
(T) Quando la folla e la band diventano una cosa sola, e tutti quanti si perdono nella musica. 

● (LDU) Qual è la cosa più strana che avete mai visutto suonando la vostra musica? 
(T) Tantissime! Onestamente condividere un concerto ed il backstage con Scott Kelly dei Neurosis, Chelsea Wolfe e John Baizley è stato molto surreale per noi come band. Guidare attraverso le montagne della Repubblica Ceca e suonare in un Vecchio orfanatrofio nel nostro primo tour europeo è stato molto strano! 

 ● (LDU) Grazie mille! Mi auguro di vedervi dal vivo molto presto! 
(T) Grazie per il tuo interesse e per il tuo tempo, ci auguriamo che stiate godendovi il nuovo album!
(Lettere Dall’Undergound) Hi guys, it’s a pleasure to talk with you. Let’s talk about Tempest. Can we say that each one have a tempest inside? 
(Telepathy) Definitely, the concept of the new album was born from a turbulent time in our lives and deals with a lot of themes that were prevalent for us at the time. So yes, you could take the concept metaphorically or literally

 ● (LDU) I like a lot that you have built a story without works, and I think that every person that listen to Tempest is able to see clearly what was your intention, so have you first talk about the idea of what do you wish to tell or music came first? 
(T) The music definitely came first. After we had written the first two songs we could all see the story that was emerging from the music. From there, we structured the album to fit the narrative. 

 ● (LDU) Another great thing of your music is the fact that you have no limits. You play easily post metal, doom, sludge, post rock. How much important is to don’t have limits when you write music? 
(T) It is the most important thing for us, we don’t want to be restricted to one style or formula. Being pigeonholed into a certain genre is something we have very little interest in, we would rather follow our instincts and carve our own path

 ● (LDU) You have recently play at Roadburn Fest. How was it? 
(T) Roadburn Festival was an amzing experience and it was an absolute pleasure to end our tour there. All i can say is all the positive things you have heard are true, and it’s a festival that anyone with an interest in forward thinking music should attend.

 ● (LDU) Have you ever think to put voices on your songs?
(T) For sure, with Echo of Souls on the new album, we knew it was perfect point of the album and time for our band to introduce vocals into the music. We will never use vocals for the sake of it, only when they can add something to the music and always as another instrument

 ● (LDU) What do you expect from your audience? 
(T) Absolutely nothing, we know that we are very privileged to have people such as yourself who are interested in the band and the music we make. We’re incredibly grateful to be able to play this music for people far away from home and to have an audience around the world who dig what we do. We just want to share an experience with people and hope they take some pleasure in what we do. 

 ● (LDU) Like a musician what it’s the perfect concert? 
(T) When the crowd and band become one, and everyone loses themselves to the music.

Tempest


 ● (LDU) What is the strangest thing you have lived playing your music? 
(T) So many! Honestly, sharing a bill and backstage with Scott Kelly from Neurosis, Chelsea Wolfe and John Baizley was pretty surreal for us as a band. Driving through the Czech mountains and playing an old orphanage on our first European tour was pretty strange! 

 ● (LDU) What do you think about Italy? Have you the idea to come there to do some concerts? 
(T) We would love to play some shows in Italy, hopefully we can make that happen in the near future!

● (LDU) Thank you so much! Hope to see you on stage very soon! 
 (T) Thank you for your interest and time, we hope you’re all digging the new album!

lunedì 3 luglio 2017

DeRais - Of Angel's Seed and Devil's Harvest: mistero ed oscurità

(Recensione di Of Angel's Seed and Devil's Harvest dei DeRais)


Qualche altra volta ho parlato della funzionalità del mistero dentro della musica. Dell'importanza che può avere il riuscir a mantenere abbastanza nascosta l'identità di un gruppo di musicisti, di far girare delle voci che fanno presupporre certe cose senza mai avere conferme o smentite. E nel giorno d'oggi risulta sempre più difficile fare qualcosa del genere. Ormai basta inserire su un motore di ricerca un qualsiasi nome per ritrovarsi una valanga d'informazioni più o meno utili. Per quello riuscir a mantenere qualcosa al buio della maggioranza delle persone ormai è una interessante eccezione. 

Del gruppo del quale vi parlo quest'oggi si sa ben poco. Anzi tutto vi dirò cosa ne so io. So che vengono dalla Germania, so che hanno una pagina su Bancamp e basta. Non ho trovato alcun'altra informazione su di loro su internet, né sulla pagina della loro casa discografica, la Ván Records, né attraverso la rete in genere. Tanto che mi sono anche imbattuto su un forum dove un utente chiedeva informazioni sulla band senza essere riuscito ad ottenere alcuna. La band si chiama DeRais e presumo che abbiamo preso il proprio nome dalla figura di Gilles de Rais, nobile francese del quindicesimo secolo accusato di essere un assassino seriale e di praticare l'alchimia e la stregoneria, essendo condannato alla morte per impiccagione e posteriore rogo. Il loro disco di debutto ha il titolo di Of Angel's Seed and Devil's Harvest, titolo che può illustrare ulteriormente l'immaginario che hanno scelto. Non ci sono ulteriori informazioni, non si sa chi suona in questo progetto, non si sa dov'è stato registrato o altro. Anzi, se non fosse per Bandcamp non saprei neanche la data d'uscita di questo primo lavoro. E qui abbiamo un ulteriore mistero, perché questo disco mi è arrivato digitalmente soltanto la settimana scorsa quando in realtà la sua pubblicazione è già di un paio di mesi fa.

Of Angel's Seed and Devil's Harvest


Ma spazziamo via il mistero per addentrarci dentro a quello che si trova in questo Of Angel's Seed and Devil's Harvest. Questo è un disco validissimo che ci regala quattro tracce che si dividono in una di apertura ed una di chiusura di durata che va dai tre minuti fino ai quattro e quaranta. In mezzo, invece, troviamo due canzoni lunghissime che vanno dai sedici fino ad oltre i venti minuti. Musicalmente parliamo di un disco di doom con certe incursioni nel dark metal e, in misura molto più limitata, piccole sfumature di dark ambient. In realtà c'è un'altra informazione che viene semi svelata, ed è il fatto che la fotografia promozionale del gruppo, che potete vedere sopra a questo paragrafo, ci presente tre componenti della band, informazione che ci porta a pensare che musicalmente abbiamo un trio basso-chitarra-batteria. Niente voci ma la sovrapposizione di registrazioni audio regala una dimensione cinematografica molto interessante, quasi come se si trattassi di una specie di post rock dannatamente oscuro. Insomma, questo dei DeRais è un lavoro molto sentito, emotivo ed oscuro. E' uno di quei dischi che ti catturano e ti portano in altre dimensioni, noncuranti della realtà che ciascuno sta vivendo.

Of Angel's Seed and Devil's Harvest è un disco che va dritto dove vuole, che catapulta l'ascoltatore in quella dimensione oscura che la band desidera ricreare. E', curiosamente, uno dei dischi più oscuri di questo periodo senza per quello avere bisogno di eccedere in formule che suggeriscano il buio. E' un disco bellissimo nella sua dimensione nascosta, sofferta e viscerale. Ecco, la musica dei DeRais è profondamente viscerale, come se ciascuno dei tre musicisti che compongono la band fossero così addentrati in quell'assenza di luce da porre in ogni tocco dei loro propri strumenti tutta l'oscurità possibile. 

DeRais


Lo sviluppo del disco viene effettuato nelle due tracce centrali ed io voglio approfondirvi una delle due. S'intitola White Night ed è la più lunga del lavoro. In venti minuti è una canzone che sembra non cambiare mai ma che in realtà cambia continuamente. Ci porta a sperimentare questa notte di veglia dove c'è una tensione tale da non permettere di abbandonarsi neanche per qualche secondo al sonno. E' una canzone dove il doom dialoga con quello che mi permetto di definire come dark post rock, cioè delle strutture cicliche che hanno l'ausilio di registrazioni audio e che disegnano mondi cupi.



Non so se sarebbe un bene sapere qualcosa in più dei DeRais, anzi, credo che il loro intento, fino ad adesso perfettamente riuscito, di stare al buio sia un piccolo trionfo, questo perché in questo modo l'ascoltatore non deve perdersi in considerazioni e pregiudizi ma può darsi un lusso che ormai è molto raro, quello di godersi a pieno questo Of Angel's Seed and Devil's Harvest.

Voto 8,5/10
DeRais - Of Angel's Seed and Devil's Harvest
Ván Records
Uscita 04.05.2017

sabato 1 luglio 2017

Nicumo - Storms Arise: conoscere molto bene il mestire

(Recensione di Storms Arise dei Nicumo)


Quanto tempo serve fino a capire che si può realizzare qualcosa? Forse questa è una delle tematiche più controverse nel mondo della musica. Ci sono gruppi che riescono a prendere dei ritmi bestiali e sfornano un disco dopo l'altro con grande facilità. Ci sono artisti così versatili che tengono in piedi contemporaneamente diversi progetti e quando finiscono di registrare con uno fanno qualcosa con un altro. E poi ci sono i gruppi che se la prendono con calma, che non hanno alcuna intenzione di far precipitare i tempi ma soltanto quando hanno la convinzione di riuscir a fare qualcosa di buono si mettono a comporre e registrare.

Nel caso della band della quale vi parlo quest'oggi, il tempo sembra essere il consigliere più fidato. Per quello dopo ben quattro anni dal loro disco di debutto i finlandesi Nicumo si ripresentano con nuovo materiale: un full lenght intitolato Storms Arise. La relativa calma con la quale il gruppo ha deciso di produrre questo disco viene giustificata dalla volontà di offrire qualcosa di tondo che rappresentasse un passo in avanti nella carriera del gruppo. E c'è da dire che ci sono riusciti abbastanza bene. Storms Arise è un disco che suona molto bene, che sicuramente è indirizzato ad un pubblico che ha bisogno della melodia immediata, dei motivetti che rimangono ben impressi in testa, di brani che possono anche avventurarsi in diversi paraggi ma mantengono sempre una grande orecchiabilità. 

Storms Arise

Come genere dunque siamo sul melodic metal, un metal che si lascia ascoltare molto facilmente. Quello che non bisogna assolutamente pensare è che questo significhi che la loro musica sia scontata, troppo "semplice", infatti a dimostrare tutto il contrario abbiamo delle incursioni molto interessanti in territori come quelli del melodic death metal e certi aspetti più propri al progressive metal. Tutto è molto ben suonato, dimostrando che i quattro anni d'attesa per questo Storms Arise non sono stati vani. La musica dei Nicumo è molto coerente, intrinseca di una logica ricca di senso. Per quello certe cose ci riportano anche indietro nel tempo, agli anni 90 dove molte strutture di gruppi vedevano che il protagonismo all'interno delle band veniva spartito tra la, o le, chitarre e la voce. Infatti la guida di ciascuna delle canzoni di questo disco è la parte vocale, ma lo spazio perché le chitarre brillino viene ampiamente garantito con interventi che non disdegnano il virtuosismo. 

Storms Arise

Dal mio punto di vista una cosa fondamentale nella musica è sapere dove si vuole arrivare. Se c'è quella certezza e si lavora per andare in quella direzione il resto diventa abbastanza superfluo. Infatti ben poco importa se a qualcuno possa non piacere quello che si fa, perché i gusti sono la definizione stessa della soggettività. Per quello questo Storms Arise dei Nicumo è un disco con le idee chiarissime. Non ci si perde in vie alternative, non c'è mancanza di esperienza, non ci sono lacune da colmare. L'intero lavoro gira benissimo, è piacevole, ben concepito. E già tutto ciò basta a dire che hanno raggiunto il loro scopo.

Nicumo

Pesco tre canzoni da questo lavoro per illustrarvi tutto quello che intendo.
La prima è Old World Burning. Brano pieno di grinta che non disdegna però di avere un ritornello che funziona alla grande, rimanendo impresso in testa. Sicuramente questo brano serve per capire da dualità della band, il fatto di esistere dentro al metal, toccando anche certe sfumature un po' più estreme, per poi avere quest'impronta molto melodica.
La seconda è Guilt. Come la grande maggioranza dei brani di questo lavoro l'introduzione è affidata ad un riff di chitarra. Dopo di che sembra di essere di fronte ad una creazione tosta, cosa che si ripete nel ritornello, dove i costanti giochi vocali fanno coabitare le due anime del gruppo. 
L'ultima è Dream too Real, brano dove la band lascia intravedere la sua parte progressiva. Per quello è la canzone più estesa dell'intero lavoro andando oltre gli otto minuti. Infatti questa nuova caratteristica è presente non soltanto nella durata complessiva ma anche nello sviluppo del brano. Non è più necessaria la forza della formula "strofa-ritornello" ma i limiti si espandono dando nuova vita.


Storms Arise suona molto bene. Si vede che dietro c'è il lavoro di una band con idee chiare e con la consapevolezza di quali sono i propri punti di forza. I Nicumo hanno sfornato un disco molto valido e, soprattutto, molto equilibrato. C'è spazio per quello che sembra essere la certezza maggiore di quello che sanno suonare, ma ce n'è anche per tutti i limiti nei quali confinano senza paura. Sarebbe interessante vedere cosa faranno in futuro, se magari si avventureranno ulteriormente in questi territori.

Voto 8/10
Nicumo - Storms Arise
Inverse Records
Uscita 07.07.2017

Sito Ufficiale Nicumo
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