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giovedì 3 ottobre 2019

E-L-R - Mænad: Andare nel profondo

(Recensione di Mænad dei E-L-R)


Quante persone sono mai riuscite a toccarvi l'anima? Quante persone sono realmente riuscite a vedervi nudi senza necessità di spogliarvi? E voi, quanta gente siete riusciti a capire profondamente, in quante persone avete lasciato un segno indelebile? 
Viviamo in un'epoca così frenetica e superficiale che la profondità ci fa paura. Ci spaventiamo di fronte alle aperture delle persone pensando che cercano qualcosa in noi per il loro proprio interesse. Non vogliamo correre rischi e se qualcosa va male allora sentiamo che su di noi c'è una congiura cosmica che ci impedirà di essere felici. Ma conoscere qualcuno significa viverlo, significa dare e trovare conforto e confronto. Significa imparare a interpretare ogni sua piccola gestualità. L'intesa vera si raggiunge ad occhi chiusi e senza parlare, solo così ci si annida nell'anima dell'altro.

Mænad

Che responsabilità quella di pubblicare un primo disco! Basta un nulla per fare un passo falso che forse ci condannerà per sempre! E invece, se il disco diventa strepitoso si sarà mai in grado di superarlo? Mænad è un signore debutto, è uno di quei album che ti fanno capire con chiarezza una cosa, cioè che dentro ai cassetti interni dove custodiamo la nostra musica del cuore bisogna liberare spazio per un nuovo gruppo, in questo caso gli svizzeri E-L-R. Trio intenso, impressionante, mai banale che regala uno dei dischi più sorprendenti di quest'anno. Sarà per quello che alle registrazioni di questo album hanno aderito due personaggi come Ryanne van Dorst dei Dool Colin van Eeckhout degli Amenra, cioè due tra i musicisti più intensi e originali che si possono trovare oggi in circolazione. E perché avranno deciso di collaborare con questa band? La risposta cerca non ce l'ho ma ne posso ipotizzare una, perché hanno capito quanta profondità ci fosse nella loro musica e quanta emozione fosse messa in gioco.

Mænad

Mænad è un disco intenso, un disco che ti cattura e non ti lascia mai perché l'interesse a proseguire con l'ascolto cresce di momento in momento. Come sempre fatico a mettere etichette a quello che gli E-L-R sono ma probabilmente la miglior definizione è quella di un atmospheric post doom con spiccate influenze sciamaniche. La loro musica dev'essere capita da dentro. Non c'è altro modo. Vista dall'esterno non rende quanto rende viverla dopo essersi addentrato quanto più possibile. E l'esercizio per farlo non è difficile. Necessità però della giusta predisposizione, di lasciarsi portare dentro a questi loop che in realtà sono un vortice e a ogni giro si entra sempre di più nell'anima di questo disco. Occhi chiusi, dunque, nessuna distrazione ed eccoci pronti a esplorare nuovi orizzonti di un'intimità unica. Orizzonti dove ognuno di noi viene messo al centro, dove ognuno di noi ha a che fare con la propria oscurità. Ma qual è il trucco? Che quando lasciamo andare via l'ansia e la paura i nostri occhi si abituano e iniziano a capire, a scovare dettagli e a cadere nel fascino di aspetti che forse non pensavamo di avere dentro di noi. 
Ogni brano è un viaggio, un'avventura, una specie di rito che ci permette di toccare vette nuove. Questa è la magia della musica, la sua condizione impressionante che diventa molto di più di quello che è. Ogni brano diventa un discorso con noi stessi, con uno sguardo nuovo che permette di vedere tutto da una nuova prospettiva, intensa e sentita.

Mænad

Qui sorge spontanea una domanda. Quanto siete disposti a mettervi in gioco quando ascoltate un disco? Ci sono lavori che necessitano di un coinvolgimento emotivo pieno e Mænad è uno di quelli. La musica degli E-L-R  non è stata concepita per essere ascoltata con superficialità come riempimento di una qualsiasi attività. La loro musica richiede condizioni particolari e queste devono essere seguite perché soltanto così ci fa giungere alle vette che si possono toccare. E sono molto alte e intense.

E-L-R

Come detto prima ogni brano rappresenta un rito, per quello è consigliabile seguirli tutti ma se devo scegliere i momenti più toccanti allora faccio tre scelte.
La prima è Glancing Limbs, il rito d'iniziazione. L'ombrale da oltrepassare per iniziare a capire dove si è arrivati. E come tutte le esperienze del genere l'inizio è un sconcertante ma piano piano che si va avanti si capisce che si sta per vivere qualcosa di speciale, di unico, d'irrinunciabile. Si viene catturati e poi messi di fronte a un'esperienza unica per intensità dalla quale non si può fuggire.
La seconda è Above the Mountains There is Light. Come indica il titolo questo rito ha a che fare con gli ostacoli, con quello che ci sembra insormontabile, quello che ci fa vivere in mezzo al buio più completo. Ed invece sforzandoci e perseverando ecco che si superando gli ostacoli che noi stessi ci mettiamo abbracciamo una luce nuova, pura e intensa. Brano di una bellezza sconvolgente.
La terza e quella più toccante è The Wild Shore. Forse perché è quella che sin dall'inizio ci mette in confronto con noi stessi, con quel che siamo e con la vera volontà di superarci, di essere migliori, di fare quello che veramente vogliamo fare. E' una conclusione perfetta, un modo di affermare se veramente ce l'abbiamo fatta o se ancora non siamo preparati per fare un passo del genere. Mai semplice, mai scontata, dissacrante per l'onestà e l'intensità. Uno dei migliori brani di quest'anno.


Mænad è un'esperienza intensa. E' un disco di quelli che bisogna ascoltare in certi momenti sapendo esattamente cosa si troverà dentro. Per quello è un gioiello, per quello bisogna tenerlo con cura in un angolo prediletto, pronto a prenderlo per aiutarci a essere di più. E adesso la curiosità è immensa su quante altre cose saranno in grado di regalarci gli E-L-R.

Voto: 9/10
E-L-R - Mænad 
Prophecy Productions
Uscita 27.09.2019

mercoledì 25 settembre 2019

Kayo Dot - Blasphemy: quando la musica costruisce storie

(Recensione di Blasphemy dei Kayo Dot)


L'insicurezza molto spesso è il modo migliore di vivere una vita intensa. Può sembrare un discorso senza senso perché da sempre c'insegnano che dobbiamo cercare la sicurezza, la sicurezza di un lavoro fisso, di una famiglia, dei beni materiali che piano piano riusciamo a comprare. Ma questo discorso sembra farci cadere nell'omologazione di una vita sempre troppo simile. Non che non sia un bene sapere che si può vivere senza paure ma è bello dover affrontare sempre situazioni diverse e tenere sempre in attività le nostre capacità più grandi, di adattarci, di sopravvivere, di essere sempre intelligenti.

Blasphemy

Uno dei primi dischi recensiti su questo blog è Plastic House on Base of Sky, disco del 2016 che aveva messo in evidenza una nuova tappa della mutazione di quella creatura indefinibile chiamata Kayo Dot. Chissà come sarà esplorare la mente di Toby Driver, mente maestra dietro a questo gruppo impressionante, chissà che meccanismi mentali scattano ogni volta che affronta la tappa di composizione di un nuovo disco. Se c'è una certezza è che è impossibile anticipare le sue mosse. E' impossibile capire cosa verrà fuori dalla sua ennesima creazione. E se avete qualche dubbio ascoltate in ordine cronologico tutti i lavori della band aggiungendoci questo ultimo Blasphemy. Vi ritroverete a saltare da un'isola a un'altra senza collegamenti logici e diretti. Ebbene sì, questo nuovo lavoro continua a essere inserito in quella voluta fragilità camaleontica. Anche se, a onore del vero, qualche piccola sicurezza c'è, per esempio il fatto che l'elettronica, intesa come creazione sonora attraverso dei synth, sia ormai una sfida per la mente brillante di Driver, e ne troviamo la conferma di ciò nel fatto che gli ultimi tre dischi della band vanno sempre in quella direzione, senza mai, però, abbandonare l'apporto, essenziale, di strumenti più "standard" come la chitarra o la batteria.

Blasphemy

Blasphemy ha un'altra caratteristica fondamentale ed è il fatto che si tratta di un disco concettuale, basato su un romanzo di uno dei collaboratori di lunga data di Driver, cioè Jason Byron. Una storia che potremmo riassumere come la ricerca di tesori da parte di tre personaggi, tesori che saranno distrutti dal vero tesoro che tutti cercano, cioè un ragazza addormentata con un terribile potere chiamata, appunto, Blasphemy. Questo dato diventa fondamentale per capire le connessioni tra tutti i brani e l'atmosfera che unifica questo nuovo disco dei Kayo Dot. Siamo in un ambito fantascientifico anche se la storia tocca molti altri aspetti che sono un riflesso della vita e del nostro mondo. Per quello musicalmente tutto si basa sulla creazione di veri e propri paesaggi sonori ricchi di quella componente fantascientifica. Anzi, la sfida diventa anche molto più complessa perché è necessario avere la capacità di costruire una serie di suono che vadano bene alla storia e poi riuscire a cucire tutto insieme, dando una coerenza tra storia, musica, canto. Credo che qui sia fondamentale soffermarsi un attimo e capire che, con rispetto ai tempi dove i brani dei maudlin of the Well, band precedente alla nascita dei Kayo Dot, venivano composti cercando di riprodurre i viaggi astrali che facevano  Driver and Co., siamo di fronte a aspetti molto più concreti, molto più studiati e ragionati. Occhio, non voglio assolutamente sminuire i lavori dei maudlin of the Well perché personalmente sente che siano uno dei progetti più interessanti e sottovalutati dell'avanguardia musicale degli ultimi 25 anni. Il mio ragionamento è volto soltanto a enfatizzare il processo di maturazione dietro al modo di lavorare di un determinato musicista. 

Blasphemy

Io penso che la musica dei Kayo Dot non abbia uguali. Soprattutto per questa impressionante capacità di reinvenzione ma anche per il fatto che quello che riescono a riprodurre e qualcosa di unico che non potrà mai essere paragonato a null'altro. Blasphemy è una nuova conferma di tutto ciò, è un disco pieno di personalità, di tocchi stilistici dei quali tanti artisti sono carenti. E' un compromesso di coerenza con sé stessi, è un essere che si presenta senza barriere, senza alcuna voglia di stare simpatico a tutti. Per quello può fare impazzire o può allontanare le persone.

Kayo Dot

Pesco due brani in questa epopea musicale.
Il primo è Turbine Hook and Haul. Brano di tranquillità apparente, di disperazione contenuta, di domande senza risposta, di incomprensioni ma anche di svolti positivissimi. Per quello il suo suonare è una linea che si muove tra la tranquillità e la disperazione. Difficile da concepire? Ecco perché è bellissimo.
Il secondo è Blasphemy: A Prophecy. Dal mio punto il miglior brano di questo disco. Non soltanto perché è il punto finale di questa storia ma anche perché merita a tutti gli effetti di essere annoverato come uno dei "classici" della band. Quello grazie al pregiato tappetto strumentale guidato dalle tastiere, al lavoro della chitarra e alla forza della voce, che costruisce un mondo bellissimo. Brano magistrale.



Sono molto onesto. Blasphemy non è il disco dei Kayo Dot che più mi sia piaciuto. Non è un disco semplice, così come non lo è nessuno della band, e, come ho scritto prima, sicuramente è un disco che fa nascere giudizi molto radicali. Ma l'intelligenza e la genialità che contraddistingue la strada del gruppo trova un'ennesima conferma. Il mondo necessità di dischi come questo, di impulsi come questo, di storie come questa. E già solo per questo io sono ultra grato. 

Voto 8/10
Kayo Dot - Blasphemy
Prophecy Productions
Uscita 06.09.2019

lunedì 15 aprile 2019

Crowhurst - III: scavare e scavare nella terra nera

(Recensione di III di Crowhurst)


Nell'oceano di complessità che l'uomo è la musica deve sempre essere lo specchio fedele. Per quello bisogna diffidare da chi dice di ascoltare solo pochi generi o di chi non ascolta proprio musica. Essere vivo vuol dire mettere in gioco tutta una lunga serie di ascolti o, al massimo, il perdersi dentro a gruppi dove la varietà lo è tutto. Dove le cose si susseguono con una violenza crudele ma brillante.

III

III è il nuovo lavoro dello statunitense Crowhurst. Un lavoro che si nutre di collaborazioni illustri e della voglia di espandere quell'universo sonoro che ormai è già un marchio di fabbrica. Si parte dalla necessità di mettere in atto due sentimenti tanto potenti come devastanti, cioè il dolore e la violenza. Per quello tutto quello che si ascolta in questo disco è violento, distorto, immediato ma anche, e questo è il punto più importante, molto curato. Anzi, oserei dire che questo album è pieno di bellezza, una bellezza che sorge ancora con più chiarezza grazie al gioco di contrasti che si crea. Come quando scavando e scavando vengono fuori i tesori più luminosi. Ecco, la terra che ricopre questi tesori in questo specifico disco è una terra nera ma anche ferrosa. Una terra che non lascia passare la luce ma anche una terra che ha un profumo denso, zolfato. Ma quando, scavando e scavando, la terra va via quello che si vede è uno di quei oggetti ipnotici che prendono in mano tutto l'ambiente, come se nulla fosse. 

III

III è un disco che può sembrare ostico per via della combinazione tra black metal e noise. Un connubio che si esalta per via dell'intenzione oscura che ha dentro. Ma come detto prima c'è anche tutto un altro piano dove questo nuovo lavoro di Crowhurst prende tutto un altro colore, dove l'intimità non è più dovuta all'aspetto viscerale dei generi prima citati ma a una poetica quasi gotica e molto intensa, che intraprende anche chiaramente una strada dentro a quello che è l'avantgarde metal. Come se il primo passo dovesse essere quello di buttare giù i muri e una volta dentro le parole arrivassero al cuore, ancora più sentite di quanto fosse possibile. Questa è la bellezza di questo disco, un disco dove l'aspetto cinematografico è anche molto presente perché ogni brano vuole essere una traduzione musicale di un'immagine che c'è dietro. Ma il gioco interessante è che questo non è un disco con la pretesa di essere una colonna sonora. E' un disco che vuole essere un'interpretazione, una rilettura, un'opinione. Per quello aggiunge un altro elemento fondamentale, quello dell'onestà. Può piacere o meno, più allontanare l'ascoltatore troppo educato ma quello che invece verrà catturato non potrà fare a meno, perché forse quell'ascoltatore in concreto ha anche chili e chili di terra oscura che coprono l'essenza nascosta, alla portata solo di poche persone.

III

Penso che la chiave essenziale per capire questo disco sia la capacità o meno di ritrovarsi in esso. Lo sforzo musicale di Crowhurst avrà il suo perché soltanto quando questo III crei dei legami in chi lo ascolta, trovandosi di fronte ad uno specchio, a un modo di vedere la propria complessità trasformata in musica. Chi siamo? Cosa cerchiamo? Come ci ha forgiato il tempo e la vita? Forse proprio come questo disco, forse proprio come quello che c'è dentro. Se è così, allora bisogna tenerselo stretto, perché diventa una fotografia di quel che siamo.

Crowhurst

Prendo due brani strepitosi che vanno a tradurre fedelmente quello che ho voluto spiegare fino a ora.
Il primo è Self Portrait with Halo and Snake. Potrebbe sembrare un brano a metà strada tra il new age e il noise ma è molto di più. Per me questo è il punto più alto del disco, lì dove la parte d'avanguardia si esalta, dove la musica di nuovo urla che c'è qualcosa di nuovo, che non tutto è stato già inventato. Uno dei brani migliori di questo 2019.
Il secondo è The Drift. Anche se molto delle cose che vengono messe in gioco vanno nella stessa direzione del brano precedente in questo qui c'è un grado minore d'intimità ma non per quello d'intensità. Si tratta di un brano sentito, ipnotico come se fosse qualcosa di post rock cinematografico. Bisogna scivolarci dentro, bisogna farsi portare dalla corrente e tutto andrà bene, tutto, sempre.


III diventa così un disco che ha, anzi tutto una fortissima personalità. Non si nasconde, non cerca di essere quello che non è. E come quando si ha a che fare con una persona di carattere deciso o lo si ama o ci si sta alla distanza. Ecco, chi vorrà avvicinarsi alla musica di Crowhurst sentirà che molto di quello che c'è in questo lavoro è quello che ognuno di noi ha, quello che vogliamo, quello che siamo, quello che amiamo, quello che ci ha reso così come siamo, quello che ci differenza dalla maggioranza. 

Voto 9/10
Crowhurst - III
Prophecy Productions
Uscita 05.04.2019

lunedì 3 settembre 2018

Khôrada - Salt: quello che è essenziale diventa complesso

(Recensione di Salt dei Khôrada)


Tutte le relazioni nella vita sono processi separati, sono storie inedite che piano piano si scrivono essendo molto difficile sapere l'epilogo. La musica è piena di relazioni, come quella dei fans nei confronti di un determinato disco, come quella dei musicisti in confronto alla musica che fanno, alla possibilità di insistere su una stessa strada o decidere di cambiare. Ma c'è un'altra relazione principale, cioè quella che si verifica dentro a un gruppo stesso, alla possibilità di scrivere insieme tutto un percorso o di modificarlo strada facendo, magari cambiando componenti o altro. In certi casi l'unica via possibile è quella della fine. Quella di decidere che non è più possibile andare avanti. Forse è quella più difficile, ma, in un certo modo, è quella più rispettabile.


Salt

Khôrada nascono dalle ceneri. Nascono come l'intreccio delle esperienze musicali essenziali che mettono insieme musicisti che si celavano dietro a due progetti fondamentali per l'avantgarde metal. Parlo degli Agalloch e degli Giant Squid. Due gruppi che hanno regalato un modo diverso di capire l'avanguardia musicale creando dei linguaggi propri e inimitabili. Salt è la loro prima creatura ed è un grandissimo piacere andare a girare le pagine di questo nuovo capitolo musicale. Lo è perché tutto sembra presagire che si tratta di qualcosa di interessante, di complesso e di assolutamente originale. Come cercherò di raccontarvi in queste linee vedrete che effettivamente tutte le premesse sono corrette e giuste. La band è una costruttrice di trame musicali nuove ma occhio, le band di appartenenza, o del passato musicale di questi musicisti sono molto presenti, come se questo lavoro fosse a tutti gli effetti la normale evoluzione che doveva, per forza avvenire. 


Salt

Salt è, senza alcuna ombra di dubbio, un disco che nasce nell'avanguardia musicale di quel oceano chiamato metal. Ma se il metal è un oceano l'avantgarde è un mare bello grande e le acque sono molto diverse mutando dove si naviga o nuota. Nel caso dei Khôrada questo modo di vivere la propria musica si basa in un impulso: quello di non dover rendere conto a nulla e nessuno. Mi spiego meglio, l'idea che viene fuori ascoltando questo disco è che si tratta di un lavoro nato buttando giù delle idee che non tenevano assolutamente in conto quello che può essere un determinato percorso della musica in genere e di quello che è l'avanguardia nel metal. Naturalmente sarebbe da ingenui non aspettarsi di ritrovare tracce di quello che è il passato musicale dei componenti della band e per quello viene da pensare che questa nuova creatura sia, in un certo modo, la logica evoluzione di un discorso che viene da lontano.


Salt

Salt è, in un certo modo, un disco apocalittico. La chiave di lettura per capire al meglio tutto questo lavoro sta nella contrapposizione tra le strutture musicali complesse e ricercate dei Khôrada e l'essenzialità dei loro messaggi. Quando tutto viene distrutto, quando la polvere domina tutto quanto, quando è ora di rinascere allora certe cose diventano preziose, come l'acqua, come l'affetto materno, come il sopravvivere un giorno in più. La musica di questo disco descrive quali sono i percorsi mentali che portano a visualizzare tutto questo: per quello il semplice diventa complesso, per quello ci si ricorda che cosa significa essere umani.


Khôrada

Pesco due brani da questo lavoro, anche se sono in obbligo, come fatto in altre occasioni, di indicare che ogni traccia merita di essere ascoltata attentamente, di essere approfondita con uno sguardo molto più globale.
La mia prima scelta ricade su Augustus. E' il punto più toccante del disco, quello diverso, quello intimo. Per quello bastano 110 secondi, perché le parole sono tutto, perché questo è il giusto omaggio alla promessa che non si è avverata, al mondo che cambia, che è crudele e spietato molto spesso ma che lascia sempre un insegnamento, per essere migliori, per andare avanti.
La seconda canzone è Ossify e in un certo modo è un brano che può sintetizzare in modo importante quello che possiamo ascoltare in questo lavoro. E' un brano critico, un brano che riesce a profetizzare il motivo della morte della nostra epoca. E bisogna viverlo così, bisogna vederlo come i segnali del futuro che devono essere ascoltati, in modo di cambiare direzione. Musicalmente è grandioso, diventa quasi allegro come se le parole cantate fossero un poema epico, un poema che esalta la nostra stupidaggine. Un'altra volta è il conflitto a dettare tempi, tensioni e grandiosità. 



Il sale è stato prezioso per poi diventare una delle cose più economiche che ci siano. Non credo sia un caso se il debutto dei Khôrada si chiami proprio Salt. E' un modo di richiamare quello che siamo stati e quello che, se non cambiamo, torneremo ad essere. E' un modo di dire basta, di far capire che senza rendercene conto ci stiamo autodistruggendo, mettendo a rischio il nostro mondo, ignorando che siamo noi a dover stare alle regole del mondo e non viceversa. Questo disco è un monito fatto in modo magistrale. 

Voto 9/10
Khôrada - Salt
Prophecy Productions
Uscita  20.07.2018

Pagina Facebook Khôrada
Pagina Bandcamp Khôrada

domenica 25 marzo 2018

Tengil - shouldhavebeens: scorrono nel sangue le stelle che moriranno

(Recensione di shouldhavebeens dei Tengil)


Il conflitto che da sempre accompagna l'uomo è quello della vita e la morte. In un certo modo mentre viviamo, cerchiamo a tutti i costi la possibilità di "ultra-vivere", di toccare, per pochi attimi, una sensazione d'immortalità. Cerchiamo una specie di connessione con l'universo, vogliamo sentirci parte di una logica che spesso ci sfugge, e vogliamo che in quei pochi secondi l'universo giri intorno a noi, come se tutto dipendesse da noi stessi, dalla nostra estrema felicità che finisce per contagiare tutto. Sono attimi fuggenti ma gli inseguiamo con tutto il nostro essere.

shouldhavebeens

shouldhavebeens è già di per sé un titolo molto significato. "Quello che potrebbe essere stato", quel spirale infinito di possibilità che sarebbero venute fuori se in ogni momento della nostra vita le nostre scelte ci avessero portato altrove e non dove siamo. E questa sensazione di emotività estrema è quello che nutre questo secondo disco degli svedesi Tengil. Questo disco è una trappola che ti porta su una dimensione dove tutto sembra bellissimo, eterno e felice per poi farti ricordare che purtroppo non è così, che anche se "respiriamo la luce eterna portando le stelle nel nostro sangue" quelle stesse stelle sono destinate a morire. Tutto è felice ma allo stesso tempo è irrimediabilmente triste. Tutto è magico come può essere magico un momento da perpetuare eternamente ma quella non è la realtà, quella non è la vera felicità. Per questo questo disco passa da quell'estasi di completa felicità a la nostalgia di sapere che tutto finisce e perisce. Potrebbe essere stato, potrebbe essere successo, poteva essere una vita diversa, ed invece siamo noi che lottiamo contro una logica che non abbiamo mai accettato, che ci è venuta imposta sin dal primo giorno nel quale siamo nati.

shouldhavebeens

Come vedete shouldhavebeens è uno di quei dischi che sblocca le porte, lasciando una via libera a tutta una serie di sensazioni e di pensieri. Punto assolutamente a favore dei Tengil. Se riescono a produrre quest'effetto è perché c'è una grandissima coerenza tra musica e parole, tra il loro modo di essere emotivi, poetici e dissacranti con i testi delle loro parole e quello che viene restituito dalla parte strumentale. Questo disco è un lavoro dove post harcore, shoegaze/blackgaze e tanti aspetti di atmospheric music si mettono insieme. Questo è un disco dove ricorrentemente si va riferimento al "rumore bianco" ed è proprio un'immagine fedelissima da quello che si vuole comunicare, da questi salti dentro del rumore, per poi uscire e capire quanto meravigliosa è la musica. Ecco, questo è un lavoro che esalta i contrasti, è quasi un disco borderline, dove diventa essenziale esagerare tutto quanto, sia la bellezza che la dissacrante verità. Diventa tanto necessario riuscir a creare dei paesaggi sonori bellissimi quanto portare questi paesaggi al limite del rumore fuori controllo. Per quello è anche un disco pieno di dinamica, di frase cantate, e quasi urlate, senza il soccorso di alcun istrumento per poi venire sommersi dalla parte musicale che fa diventare quasi intellegibile qualsiasi parola. Potrebbe essere un disco pulitissimo, potrebbe essere un disco rumorosissimo ma per fortuna non è nell'uno nell'altro. Perché così diventa vivo, reale, uno specchio di quel che siamo.

shouldhavebeens

shoulhavebeens è un disco che ti fa amare la vita, il mondo, la natura, l'universo, le idee poetiche come quello che c'è alla fine dell'arcobaleno, e proprio quando sei dentro a quest'estasi profondo ti ricorda che nulla di tutto ciò è per sempre. Che sia il nostro mondo che i nostri cari e noi stessi siamo destinati a morire. Per quello la musica dei Tengil è piana di contrasti, per quello regala dei momenti di bellezza sublime e altri dove il rumore è l'unica via percorribile. C'è qualcosa di più simile alla nostra vita?

Tengil

Pesco due brani che sintetizzano al meglio i pensieri che mi suggerisce questo disco.
Il primo è I Dreamt I Was Old. La formula della band viene messa subito in evidenza. Tutto deve arrivare con forza, con quella sensazione che tutto dev'essere pieno, esagerato, che il passaggio dalla felicità alla disperazione è breve e fragile. Che basta un nulla per trasformare il bello nell'orribile e viceversa. Che una vita dalla quale andare orgogliosi può trasformarsi in una catena di errori.
Il secondo è It's All For Springtime. Qua regge la ponderazione, le pause, le oscillazioni. Questo è un brano meraviglioso perché sorprende, perché ogni secondo che passa ci porta in una dimensione che non era immaginabile. E' un brano toccante dove il conflitto che sorregge tutto il disco è più presente che mai, dove la bellezza di avere a che fare con aspetti eterni viene spezzata via dalla certezza che in realtà nulla è eterno. Brano pazzesco.


shouldhavebeens diventa una riflessione su quello che è il nostro mondo, e anche questa è un'altra dicotomia fondamentale. Potrebbe sembrare che questo lavoro sia assolutamente intimo e personale, che sia l'urlo di una persona complessa ma alla fine è soltanto quello che siamo, quello che è il nostro mondo, l'idea dalla quale cerchiamo sempre di sfuggire. I Tengil ci regalano un disco reale che ha senso di essere grazie alla veracità di quello che ci racconta. Viviamo per vivere o per sfuggire alla morte?

Voto 9/10
Tengil - shouldhavebeens
Prophecy Productions
Uscita 13.04.2018 

mercoledì 7 marzo 2018

Sol Invictus - Necropolis: amare la città dei morti

(Recensione di Necropolis dei Sol Invictus)


La relazione che si crea con qualsiasi città è una relazione tanto complessa come quella che si può creare con qualsiasi persona. Ci sono aspetti che ci fanno innamorare, dettagli che sembrano essere stati fabbricati solo per noi. C'è una geografia urbana così ricca risultarci preziosa. C'è anche la storia, pensare che sulle stesse strade si sono vissuti degli eventi che hanno segnato delle epoche intere. Ma c'è anche l'odio. L'odio generato dalla cattiva organizzazione di una città, del suo caos, della crescita esponenziale, di come la città fatica ad adattarsi ai nuovi tempi. Tutto cambia, e non sempre le città sono pronte ad affrontare questi cambiamenti. Ma, alla fine, la relazione che si crea con una città è come la relazione che si crea con una persona, ci conquistano i pregi ed accettiamo i difetti. 

E' possibile che Necropolis sia l'ultimo lavoro dei Sol Invictus. Il gruppo che ruota intorno alla figura di Tony Wakeford, regalando trent'anni di carriera dentro a un mondo complesso ed interessante come il neofolk o dark folk, si ritrova a fare un viaggio all'interno di quello che sono le caratteristiche più interessanti della vita di un uomo, cioè la relazione con la città che ti accoglie e dove vivi da parecchio tempo se non proprio da sempre. In questo caso la città in questione è Londra e lo sguardo riservato da questo disco è abbastanza negativo come lo si può già intuire dal titolo di questo lavoro.
Ma non bisogna ingannarsi ascoltando questo lavoro perché, infondo, quello che cerca di trasmettere questo insieme di tracce è un atto d'amore, profondo e viscerale.
La Londra che viene raccontata in questo disco sembra una città sospesa nel tempo. Non è semplicemente la Londra attuale ma è una città che mescola la storia col presente, una città che dà l'impressione di cadere e ricadere nei vizi che la rendevano celebre in epoche passate. Per quello il paragone col cimitero, perché sembrerebbe che questa città mascherasse la sua voglia di modernità e di futuro in un affondarsi in quello che ormai esiste da tempo. Insomma, una città dove i morti hanno anche più forza dei vivi.

Necropolis

Necropolis è un lavoro che scorre come l'acqua del Tamigi, elemento molto presente in questo intero lavoro essendo personalizzato come un serpente che attraversa Londra e che è in eterno conflitto con un ratto, possibile metafora dei tempi attuali. Scorre veloce questo disco dei Sol Invictus, perché dev'essere così, perché la successione di tracce in realtà sembra far parte di un'unica traccia principale. Questa presenza così forte di un punto di riferimento che monopolizza il racconto di questo album conferma ancora la sensazione di essere un lavoro nato da un'urgenza di comunicare, di stabilire delle metafore interessanti tutte rivolte alla stessa idea: Londra poteva essere la capitale di un impero ed invece ci ritrova a soccombere sotto al peso di questo stesso impero. 
Se a livello di contenuti questa sensazione è assolutamente evidente lo diventa ancora di più grazie alla musica. Potremmo effettivamente continuare a parlare di neo folk o di dark folk ma c'è tanto altro ancora. Questo disco è costruito in modo prezioso, è un disco che senza alcun dubbio si ancora dietro alla voce e chitarra di Wakeford ma tutto quello che si sviluppa intorno diventa ancora più ricco. Tutta la serie di strumenti acustici, il gioco delle voci femminili, curatissime e preziose, le parte recitate, l'assenza di elementi di percussione importanti e le piccole contaminazioni di chitarra elettrica sembrano essere messe in moto dalla necessità di curare ulteriormente le idee dietro a questo disco. C'è bisogno del contrasto tra il "classico" o lo "storico" ed il "moderno". Ma la cosa più interessante è che la parte classica sembra avere il sopravento su quella moderna. Come se la città fosse vittima della propria storia, di quello che ha vissuto nei secoli, precludendosi così di vivere un vero futuro.

Necropolis

La capacità di Sol Invictus in questo lavoro è quella di portarci a vedere questa Londra decadente, questa città piena di storia dove sembra essere prevalso il negativo impedendo di glorificare tutto quello che potrebbe essere stato d'aiuto per avere un presente più luminoso ed un futuro assicurato di gioia e felicità. Necropolis è il racconto di una città governata dai morti, forse  non direttamente ma per il peso della loro presenza, della loro eredità che non può essere mascherata in alcun modo, neanche dietro alla tecnologia del nuovo millennio. Per arrivare a una conclusione del genere si capisce che chi ci racconta tutto quanto a vissuto la città nella sua pelle, l'ha vista insorgere per poi stabilizzarsi in una realtà che non era quella che doveva essere.

Sol Invictus

Essendo questo un lavoro che scorre inarrestabile riuscire ad apprezzarlo nella sua integrità diventa fondamentale. Per quello anche se posso indicare l'ascolto di singole tracce il consiglio rimane quello di lasciar andare il disco dall'inizio fino alla fine, soprattutto perché musicalmente il serpente disegnato finisce per mordersi la coda. In tutti casi metto l'accento su questi brani:
Nine Elms, brano che introduce l'ascoltatore nella necropolis, dopo che questo abbia attraversato il portale che, a tutti gli effetti, lo introduce dentro alla città. E' un brano molto breve ma fa già capire qual è l'ambiente che il viaggiatore incontrerà avendo oltrepassato la porta d'ingresso.
Turn Turn Turn, quando la città dimentica degli angoli preziosi questi angoli vanno a far parte dei pochi che riescono a viverli in pieno, quei pochi che sanno guardare la bellezza e l'importanza di quei posti. Questo brano esalta proprio quelle caratteristiche, quelle capacità di abbracciare quei posti preziosi.
The Last Man, che ci fa pensare a quello che ci portiamo di qualsiasi città, i suoni, i colori, i profumi. I ricordi sono anche delle sensazioni e questo è un brano ricco di sensazioni.


Necropolis è la voce di un folle innamorato di Londra. E' un lavoro che cerca di far capire quale sono le caratteristiche della città che devono essere esaltate e con le quali bisogna costruire il futuro. Questo disco dei Sol Invictus è in un certo modo una lezione che ci mostra come dovremmo vivere i rapporti con i luoghi dove decidiamo di vivere. E' anche una lezione di come il futuro deva essere costruito considerando sempre il passato. E anche se è un disco molto critico molto spesso sembra che questa città di morti sia molto più viva di tante altre città.

Voto 9/10
Sol Invictus - Necropolis
Prophecy Productions
Uscita 23.03.2018

giovedì 16 novembre 2017

Katla - Mó∂urástin: il risveglio del vulcano

(Recensione di Mó∂urástin dei Katla)


Si finisce sempre per assomigliare ai posti dove si vive. Come se ci fosse in atto un incantesimo dove l'intorno governa sulla personalità, dove l'ambiente ti aliena fino a farti diventare un altro elemento di quello che si vede e si vive. Dove c'è il sole la gente è festosa e luminosa, dove c'è l'ombra la gente si riserva e, così come al buio gli occhi devono abituarsi prima di vedere, bisogna saper conoscerli per vedere tutti gli aspetti del loro modo di essere ed apprezzarlo significativamente. Inutile dire che questa non è una regola fissa ma per tante cose si verifica sempre.

Mó∂urástin

Il senso di appartenenza si traduce in molti modi, nelle storie che si raccontano, nella lingua locale che si usa per esprimere le proprie idee, nell'orgoglio verso la propria storia e la propria cultura. In Mó∂urástin il senso d'appartenenza va anche un po' più in là. Questo perché i Katla prendono spunto per definire la loro musica da uno degli elementi più caratteristici, spettacolari e magnificenti della loro terra: i vulcani. Anzi, nel loro caso è il vulcano che regala il nome alla band a essere il punto d'inizio di molte idee. Potrebbe sembrare che ci tocca stare di fronte ad un disco energicamente illimitato, un disco distruttivo che non lascia spazio ad alcuna sfumatura ma non è così. E come al solito è qua che sboccia la magia. Come fa quest'album ad essere vulcanico essendo lo stesso un lavoro pieno di sfumature e di contaminazioni? Grazie ad un'idea molto più vasta ed ampia della loro musica. Katla, il vulcano, è un gigante che si sveglia quando vuole, l'ultima volta 99 anni fa, e quando lo fa modifica in modo significativo la geografia locale. Sopra di lui 300 metri di giaccio si sciolgono regalando al mare 5 chilometri quadri di terre inondate. Per quello è guardato con rispetto, venerazione e paura. Facciamo adesso l'esercizio di riportare questa idea a quello che può essere una personalità musicale molto definita e quello che salta fuori è la musica di questo progetto islandese.

Mó∂urástin

Come puoi modificare la geografia dei sentimenti e degli affetti? Essendo unico, essendo originale, essendo essenziale per il modo di vedere le cose e di viverle. Mó∂urástin è così. E' un disco che si nutre di ambienti oscuri bellissimi, di atmosfere post rock, di momenti di dark wave, di metal molto misurato e di elementi che sarebbe magari esagerato chiamare folk ma che denotano l'importanza di essere un disco nato in Islanda. Magari questa formula non vi è nuova, magari vi vengono in mente altri progetti che mettono insieme questi ingredienti ma la musica è alchimia, magica e misteriosa, e l'elementi che nasce da questo insieme chiamato Katla non ha uguali. Infatti è molto interessante vedere come tutto quello che si ascolta in questo disco tira fuori due sensazioni precise: sicurezza e personalità. Questo perché anche se si tratta di un disco debutto i due musicisti che sono gli autori di tutto quello che ascoltiamo sono dei personaggi navigati, di grande esperienza, visto che nel loro passato musicale possiamo leggere dei nomi così significativi come SólstafirFortí∂ e Potentiam. Ma se c'è qualcosa che fa diventare tutto quanto più affascinante è che questa creatura effettivamente può prendere spunto dal loro passato musicale ma finisce per diventare una creatura piena di vita propria. Insomma, un vulcano che si è risvegliato.

Mó∂urástin

L'impatto che si può avere quando si fa qualcosa è sempre molto particolare. Ma se una cosa è chiara è che chi lascia un'impronta indelebile non è chi colpisce più forte ma chi riesce ad entrare nella vita degli altri. Mó∂urástin fa parte di quella categoria di dischi che non passano mai inosservati. E' un disco che affascina, che ci porta a voler viaggiare in solitario o con la compagnia giusta per lunghe strade piene di curve, con i finestrini abbassati a sfidare l'aria glaciale, perché non c'è nulla di più rivitalizzante di quello. Katla si è svegliato, e per fortuna l'ha fatto, perché l'emotività esige eventi come questo.

Katla

A rischio di sembrare ripetitivo torno a fare un'affermazione con la quale mi sono ritrovato altre volte: ci sono certi dischi che devono, per forza, essere ascoltati dall'inizio alla fine. Questo ne è uno. Limitarsi a spulciare solo pochi brani è limitante. Grazie all'ascolto completo l'epicità di una chiusura come Dulsmál prende ancora più grandezza, un brano centrale e fondamentale come Mó∂urástin può non essere capito fino in fondo con i suoi contrasti, con la sua vicinanza col black metal, con la bellezza degli interventi vocali femminili. Senza quest'ascolto globale un'apertura di album come quella regalata da Aska non funzionerebbe come questo spalancare le porte  verso un nuovo mondo. Dunque fatevi un favore e ascoltate questo disco per intero.


Mó∂urástin è una metafora, un modo di dimostrare che non esiste alcuna altra connessione possibile se non quella tra uomo e natura. Quel che siamo e quel che viviamo, è la nostra capacità d'adattamento, la nostra consapevolezza di non essere governanti ma di essere governati da qualcosa di magnifico che ha una potenza che noi non avremmo mai. Lavori come questo dei Katla lasciano in chiaro che la saggezza si conquista guardando il mondo e imparando a rispettarlo, a cogliere i suoi frutti, a prendere la sua energia e farla propria. Non è soltanto la miglior via ma è l'unica. Benvenuto vulcano.

Voto 9/10
Katla - Mó∂urástin
Prophecy Productions
Uscita 27.10.2017

venerdì 15 settembre 2017

Soror Dolorosa - Apollo: la fine è un nuovo inizio

(Recensione di Apollo dei Soror Dolorosa)


"You ran, began with me and now
It ends, it's new,
it's better"

Apollo

Nei tempi frenetici che viviamo la moda cambia costantemente. Vedere delle immagini di quello che si indossava dieci anni fa diventa un esercizio quasi comico, per non parlare di quello che c'era vent'anni, trent'anni fa e così via. La cosa curiosa è che l'estetica gotica o metallara sembra, al giorno d'oggi, essere un motore fondamentale per definire quello che dev'essere indossato. Io non sono assolutamente un esperto di moda, e francamente me ne frego altamente, ma credo che se è così è perché il fascino dell'oscurità non solo è innegabile ma è anche molto più interessante, oltre a non tramontare mai. Peccato, però, che l'abito non fa il monaco.

Apollo

"Vittime" di quest'ondata di oscurità e di un'estetica che gli porta a essere dei fedeli rappresentanti del gotico troviamo i francesi Soror Dolorosa, gruppo che sin dai suoi inizi si è guadagnato l'ammirazione ed amicizia dei membri di progetti rinomati come Alcest o Les Discrets. Nei sedici anni di esistenza della band abbiamo soltanto tre LP ed è proprio dell'ultimo uscito che vi parlo quest'oggi. Questo disco, che esce dopo quattro anni di duro lavoro, si chiama Apollo e punta ad essere un disco molto importante. Essenzialmente quello che contraddistingue i 70 monumentali minuti di durata di questo lavoro è la full immersion  nel mondo gotico e nell'aspetto che forse, più che altro, contraddistingue questo modo di vivere, cioè una specie di adorazione verso il dolore. Nel caso di questo disco quest'aspetto viene fuori in tutte le cose che il gruppo canta, nel modo nel quale vengono suonate le canzoni che costruiscono questo nuovo mondo sonoro. Infatti questo è un disco che continua con la tradizione dei migliori lavori di gruppi come The Cure, Christian Death, Bauhaus o The Sisters of Mercy, vale a dire un modo di esaltare questa visione del mondo dove i dolori rappresentano il senso stesso della vita.

Apollo

Dal mio punto di vista quando un gruppo decide d'intraprendere questa strada molto spesso tende ad affidarsi a certe formule semplice e scontate che caratterizzano subito la loro musica. Per quello quando trovo dei progetti dove c'è invece un voluto sguardo più approfondito che regala elementi nuovi ad un genere come quello gotico non posso che essere felice, e questo Apollo dei Soror Dolorosa ha dei brani che sono di una bellezza scandalosa, brani che, dal mio umile punto di vista, passarono alla storia come esempi sonori di quello che è la musica gotica nel 2017. Detto questo c'è da dire che non tutto il disco è all'altezza di questi capolavori. Ci sono momenti molto alti, altri un po' più banali ed altri che danno spunti interessanti ma non sconvolgenti quanto quelli migliori. Ma nel complesso questo è un ottimo disco che merita attenzione e concentrazione, anche perché sarebbe assurdo presentare nei nostri giorni un lavoro con elementi comuni con quello che veniva fatto trenta o quarant'anni fa. Per quello è fondamentale, ed azzeccato, che la band aggiunga all'aspetto gotico dei linguaggi musicali più moderni, per quello ogni tanto abbiamo degli interventi di post rock che rendono molto più interessante il disco. Anzi, questo è un messaggio chiaro di come si può evolvere un genere affascinante ma che, qualche volta, fatica a trovare una nuova pelle. 

Apollo

La formula del successo di questo Apollo si basa su diversi fattori. Da una parte è un disco che quasi rende omaggio ai grandi classici gotici, dotati di un'eleganza irresistibile e di un compostezza bellissima, dove non si eccede mai, dove la poesia è così ben pensata che la profondità di certi discorsi diventa leggera e vellutata. D'altra parte il lavoro dei Soror Dolorosa sta nel regalare nuove sfumature che siano conseguenti al fatto di stare nel 2017 e di non poter portare avanti gli stessi discorsi del passato. Questo è il passaggio più delicato perché è molto più sottile. Non è presente nei testi delle canzoni, che non hanno un'età, né in altri aspetti, ma bensì nei modi di suonare, di regalare dei passaggi di un'altra dimensione alla loro musica. Se a questo aggiungiamo il fatto che due o tre canzoni sono veramente perfette allora viene fuori che questo è un disco destinato a lasciare una sua impronta.

Soror Dolorosa

Vi parlavo di tre brani che sono veramente splendidi, questi sono:
Apollo, brano d'apertura del disco che dà titolo all'intero lavoro. E' un brano cosmico e mitologico, un brano che è una dichiarazione d'intenti e di volontà. Uno sfogo che sembra essere rivolto a questi quattro anni di lavoro, un urlo che dice: "siamo tornati".
Another Life. C'è un elemento che si presenta più volte in questo disco, ed è quello dei nuovi inizi, del fatto che un finale è in realtà un nuovo avvio. Questo brano ed il prossimo che vi racconterò, girano intorno a quest'idea. Questa è l'apoteosi dell'immaginario gotico, il modo di urlare che il dolore dev'essere tramutato nella gioia di ricominciare. Per quello in mezzo a tutta la nostalgia che si può sentire c'è qualcosa di epico e di infinitamente bello.
The End. Indubbiamente è il punto più alto di tutto il disco ed un brano che dovrebbe essere suonato e risuonato da tutte le radio del mondo. Uno di quei brani che meritano di diventare "alla moda", non perché siano stupidi o facili, ma perché sono così belli da non vedere l'ora di riascoltarli. Questo è un brano da far imparare a memoria a qualsiasi persona che sta attraversando una rottura, perché così si capirebbe che un nuovo inizio è il modo corretto di vivere un finale, e che le prospettive future sono molto migliori di quelle passate. Divino.


Ascoltando Apollo viene fuori la sensazione di una devastante sicurezza degli Soror Dolorosa, un modo di aver capito che questo nuovo disco è una loro dichiarazione prepotente di quello che vogliono mostrare al mondo musicale. Hanno tutta la personalità per spaccare, per non essere in linea con nessuno perché non hanno bisogno di essere in linea con nessuno. La loro musica ed i loro messaggi denotano un modo di vedere la vita che è sicuramente gotico ma che esalta il perché di essere così. Sembra un disco che spingeva con urgenza la sua voglia di vedere la luce. Adesso tocca a noi raccoglierlo e spanderlo. 

Voto 8,5/10
Soror Dolorosa - Apollo
Prophecy Productions
Uscita 15.09.2017