sabato 13 maggio 2017

Bjørn Riis - Forever Comes to an End: la vostra prossima colonna sonore

(Recensione di Forever Comes to an End di Bjørn Riis)


La nostalgia è un fiore unico. E' un profumo intramontabile che stuzzica certe aree del nostro cervello portandoci davanti agli occhi le immagini di un passato. La nostalgia è la voglia di non essere dove si è. La nostalgia è il tempo che scorre così velocemente da sentirci persi, senza poter afferrarlo ed inchiodarlo. Per quello le canzoni nostalgiche sono spesso le più belle.

A quasi un anno dall'uscita dell'ultimo album della sua band, gli Airbag, il norvegese Bjørn Riis si ripresenta con quello che è il suo secondo lavoro da solista. L'album degli Airbag, intitolato Disconnected, è uno splendido lavoro che ho avuto il piacere di recensirvi qui, e molte cose sono in comune con questo Forever Comes to an End. Per esempio in entrambi questi lavori è palpabile una sensazione di abbandono, vissuto in modo molto particolare. Nel caso degli Airbag quest'abbandono era quello della società verso i singolo individui; invece per quanto riguarda Bjørn Riis quest'abbandono è emotivo e molto più interpersonale. Musicalmente ci sono tante similitudini tra i due dischi partendolo dal fatto che entrambi sono dei lavori di rock progressivo vissuti in una chiave moderna che porta alla mente nomi come Steven Wilson o gli Anathema. La differenza essenziale è costruita sulla dimensione diversa dei due dischi, questo Forever Comes to an End ha una dimensione molto più intima, sembra scritto più col cuore che con la mente. Ed è quella la sua grande qualità, che riesce a erigere dei ponti tra le note che escono ordinate e l'emotività di chi le riceve. Tutta la tecnica, tutta la complessità di un genere come il rock progressivo vengono messi a disposizione della voglia di raccontare qualcosa a cuore aperto. Per quello questo è uno di quei dischi che vengono alla mente quando si vivono certe situazioni particolari e si ha voglia di trovare uno specchio nella musica. Forever Comes to an End è pieno di quella nostalgia padroneggiata così magistralmente dal signor Steven Wilson. Quella nostalgia che non cade nel depressivo, ne nell'autolesionista ma che che è tremendamente poetica, perché le cose belle arrivano per non andarsene più.


Forever Comes to an End

Anche se vi ho già dato molte indicazioni di quello che musicalmente si trova in questo Forever Comes to an End ci sono altre cose da indicare. Per esempio il fatto che oltre alle tracce musicali dei gruppi o progetti già indicati ci siano anche altri elementi interessanti. Per esempio il tocco chitarristico alla David Gilmour con lunghi assoli molto sentiti dove la cosa importante non è il virtuosismo ma la costruzione di frasi che completano il quadro delle canzoni. C'è anche una certa cattiveria, soprattutto nella prima traccia, che riporta alla mente certi gruppi metal, ma è una cattiveria che si traduce in bellissimi riff di chitarra. Il resto è questo rock progressivo moderno, emotivo, elegante e nostalgico. Tanto importanti quanto le parti cantate sono tutti i passaggi strumentali, che costruiscono la struttura sulla quale viene messa in scena quest'opera di sentimenti. 

Forever Comes to an End

Si capisce già che Bjørn Riis è un musicista con un legame profondissimo verso la musica. Potrei azzardare a dire che è uno che riesce a comunicare meglio con le sue composizione piuttosto che con la parola. Forever Comes to an End è un disco che ha la qualità di poter diventare colonna sonora di parte della nostra vita. Anzi, se così sarà potete ritenervi fortunati perché avere delle canzoni come queste come soundtrack  vuol dire che avete una sensibilità particolare, vuol dire che siete quel genere di persone che si emoziona di fronte ad un tramonto invece di farlo avendo in mano l'ultimo smartphone uscito sul mercato. Vuol dire che siete quel genere di persone da tenersi strette e da non dimenticare mai.

 Bjørn Riis

Tre i brani che sicuramente mi hanno lasciato qualcosa in più.
Il primo è la title track che apre questo disco. E' il brano più "arrabbiato" senza però perdere la grande dose di nostalgia che intreccia tutto il lavoro. E' un brano d'acidità, dove la nostalgia è più dissacrante, come un'ubriacatura solitaria a nottata inoltrata. 
Il secondo è The Waves. Qua la nostalgia prende altra sostanza ed altri colori. Questo è un viaggio che porta ad una spiaggia desolata in una giornata d'inverno. Perché viene quasi spontaneo il voler trovare conforto nella natura quando viviamo qualcosa di tremendamente forte. Per quello il tempo è lento, la tastiera ci guida attraverso tristi armonie che ricordano gli Anathema di A Fine Day to Exit. Bellissima.
La terza è Where Are you Now. Possiamo dire che siamo in linea col brano precedente. Infatti il lavoro delle tastiere è fondamentale per colorare di nostalgia introversa questo lavoro. Anche in questo caso si canta all'utopia di tornar a vivere qualcosa che purtroppo, per un motivo o l'altro, non ci sarà mai più. 


C'è tanta bellezza nella musica triste. Forever Comes to an End è una nuova conferma. I brani composti da Bjørn Riis scorrono preziosi come un fiume vitale. Sono delle tracce di vita, di quella parte che è sempre difficile affrontare ma che ha come giusto sbocco proprio questo. E' così che bisogna condire quei momenti. La musica, ancora una volta, diventa un dono.

Voto 9/10
Bjørn Riis - Forever Comes to an End
Karisma Records
Uscita 19.05.2017


giovedì 11 maggio 2017

Thyrant - What We Left Behind: e tu, sai cosa ti sei lasciato indietro?

(Recensione di What We Left Behind dei Thyrant)


Uno degli aspetti più difficili da capire nella vita è il vero posto che ci aspetta. Ciò sapere che cosa siamo bravi a fare, con chi dobbiamo farlo per sviluppare ancora di più la nostra bravura. C'è chi nasce con le idee molto chiare e sin dall'inizio da i passi nella direzione prefissata. C'è chi deve vivere molte esperienze prima di capire qual è la sua strada. E c'è, purtroppo, chi si rassegna a vivere una vita che non è il riflesso di quello che ha sognato. L'augurio è che ciascuno di noi faccia quello che vuole e che la società lo consenta, un'utopia forse?

What We Left Behind

La storia degli spagnoli Thyrant è una di quelle storie che dimostra che non è mai troppo tardi. Amici di lunga data, dopo ben 20 anni suonando insieme, decisero di provare a dare sostanza alle loro idee. In breve tempo nacque il loro primo disco, What We Left Behind, che suscitò l'interesse della norvegese Indie Recording che ha deciso di pubblicare quest'opera di debutto. Mica male. La domanda è, allora, cosa c'è in questo lavoro da stuzzicare l'interesse di una casa discografica di colto che lavora con artisti interessantissimi? Adesso azzardo una risposta. Credo che quello che ha notato la Indie Recording sia quel mix di elementi che ricordano un passato musicale che ci riporta indietro di una trentina d'anni fatto con elementi assolutamente attuali. Vale a dire un disco con un'impronta "classica" ma con un suono odierno. Un disco che potrà piacere ai nostalgici del metal senza essere un disco old school, e, nello stesso momento, riceverà anche l'attenzione degli ascoltatori che cercano qualcosa di fresco. Non è facile arrivare a questo risultato e quello è il grande pregio di questo disco.

What We Left Behind

Ascoltando What We Left Behind si capisce con chiarezza che i Thyrant ne hanno consumato di metal. Si capisce anche la loro età e s'intravede quali sono i generi che hanno forgiato i loro profili da musicisti. Dobbiamo fare un salto indietro di circa trent'anni per ritrovare generi come il primo death metal, il thrash che regnava sovrano in quell'epoca e certi elementi di quell'heavy metal che ancora non si ramificava nella miriadi di generi che abbiamo quest'oggi. Ma la cosa interessante è che tutti questi generi vengono messi insieme dando vita a qualcosa di nuovo che non corrisponde ai "purismi" dell'epoca. Per quello le chitarre si divertono in armonizzazioni che, per fortuna, non sono delle copie scimmiottate dell'heavy metal classico, la voce ha un timbro che spazia tra il thrash e il death metal e la base ritmica basso e batteria è costante e concisa. Ma la cosa interessante è che abbiamo anche degli elementi propri del melodic death metal facendo capire che questo non è un disco anni 80 ma è il risultato della "digestione" di tanti elementi.

What We Left Behind

La linea sulla quale si muovono i Thyrant è molto sottile e si rischia grosso di cadere in una delle cose che personalmente odio di più, cioè la copia spudorata di generi del passato. Invece What We Left Behind ha la qualità di suonare attuale anche se le fonti sono del passato. Forse è fondamentale che il suono è quello dei 2000, che l'insieme di elementi che sono presenti in questo disco non obbediscano assolutamente a strutture rigide e che tutto ritrovi una logica propria diversa dal resto. Questo rimescolare le carte fa sì che questo sia un disco dei nostri giorni fatto da gente con un chiaro passato musicale e che non ha alcuna intenzione di nascondere.

Thyrant

Due brani che pesco da questo disco.
Dammed at Midnight che oltre a le chiare influenze anni 80 si tuffa anche nel melodic death metal dei 90, genere che ancora oggi suona molto attuale.
Carving the Throne. Brano di chiusura di questo disco e per certi versi quello più epico. Qua la band si distende molto di più ed evidenza quello che è la loro impronta principale accentuando ancora di più l'intreccio di generi. Ne viene fuori una bellissima traccia che prende l'ascoltatore senza lasciarli respiro. 


What We Left Behind può anche essere visto come un bilancio di quello che realmente ci siamo lasciati indietro. Non tanto intesso come le esperienze che abbiamo superato quanto l'eredità della quale spesso ci dimentichiamo. I Thyrant hanno la capacità di ricordarci che quella eredità è fatta di un insieme di cose e che bisogna prenderle tutte per guardare in avanti. Questo non è un disco nostalgico, è un disco riflessivo con vista al futuro.

Voto 7,5/10
Thyrant - What We Left Behind
Indie Recordings
Uscita 12.05.2017

lunedì 8 maggio 2017

Show of Bedlam - Transfiguration: l'orrendo spettacolo della realtà

(Recensione di Transfiguration dei Show of Bedlam)


Per fortuna il nostro rapporto verso la pazzia si è modificato negli anni. Scene raccapriccianti di manicomi gremiti di pazienti trattati come l'ultima feccia della società sono sempre più rare. Verso quei posti c'è ancora tutta una serie di racconti quasi mitologici che parlano di torture, di sperimenti spietati facendo diventare il manicomio uno dei luoghi più terrificanti sulla faccia della terra. Invece di cercare di capire la pazzia l'abbiamo imprigionata, torturata ed obbligata ad avere una normalità che non le aspetta in assoluto.

Show of Bedlam è una band canadese che prende nome da una delle pagine più tristi del rapporto tra la società e le persone mentalmente insane. Nel diciottesimo secolo le persone potevano recarsi al manicomio di Beldlam, Inghilterra, e pagando qualche spiccio potevano entrare nelle celle per stare con i pazienti o assistere a dei veri e propri spettacoli dove sesso e violenza tra i malati erano i principali argomenti. Nel 1814 ben 96000 persone visitarono Bedlam. Transfiguration è il nuovo "spettacolo" della band. Uno spettacolo che in un certo modo capovolge la dinamica che ha portato a scegliere questo nome. La capovolge perché si sente che l'urlo conciso, che qualcuno potrebbe definire "pazzo", è un urlo che tira in faccia la realtà della nostra società, così fiera di essersi evoluta ma così retrograda da non accettare e capire fino in fondo la diversità. Forse anche quella è una forma di malattia mentale, forse l'omologazione è la peggiore peste dei nostri tempi, perché siamo dei burattini che credono di avere una certa libertà ma veniamo usati per alimentare le dinamiche di chi ha in mano in potere. Siamo peggio dei pazzi e dischi come questo servono a dimostrarcelo a farcelo capire.

Transfiguration

Transfiguration è un lavoro che coinvolge una serie di generi dando nascita a delle caratteristiche ben precise. Possiamo dire che il sound dei Show of Bedlam è unico e si nutre anzi tutto di un forte contrasto, molto originale tra la voce femminile e la base strumentale. Musicalmente questo mare di suoni viene alimentato da variopinti fiumi come il doom, lo sludge metal, il post punk ed una dose massiccia di avantgarde metal. Vocalmente, invece, il timbro di Paulina Richards, ricorda figure come Lydia Lunch dando l'impressione di essere stata pescata da un discorso musicale molto più vicino al gothic o alla no wave. L'incontro di questi mondi fa nascere un risultato molto originale, con la potenza avanguardista degli strumenti e la voce stregata. 

Dischi come Transfiguration sono dei lavori che non hanno alcuna intenzione di essere "piacevoli". Di bello ed ottimista c'è ben poco. Per quello funziona così bene. Per quello è come un pugno in faccia che ci scuote dal nostro rincoglionimento. Per quello è necessario. Lo Show of Bedlam non è più un macabro spettacolo al quale si assiste recandosi volontariamente in quel tragicamente celebre manicomio. No, lo show è per le strade, sui social network, dappertutto. I nostri disagi sono diventati normali, per quello un gruppo di bulli che massacra di botte qualcuno non è più un evento raro, per quello le "perversioni" sono all'ordine del giorno facendoci credere che siamo così evoluti da averle inserite nelle nostre routine senza esserci minimamente chiesti se è corretto inserirle. La povertà culturale ed intellettuale viene messa a nudo con questo disco. Per quello tutti dovrebbero ascoltarlo e farsi un paio di domande.

Show of Bedlam

I deliri musicali della band canadese non trovano punti bassi in questo disco ma vado ad approfondire un paio di brani.
Il primo è Blue Lotus, traccia d'apertura del disco. Si tratta di un brano estesissimo, arriva ai 12 minuti di durata e sin dall'inizio mette in chiaro qual è il mondo del gruppo. Dissonanze musicali avanguardiste sono il perfetto tappetto per una voce stregata, acida che lascia spazio a certe registrazioni audio. Trascinante, violento, senza mai essere eccessivo, ed oscuro.
Il secondo è Hall of Mirrors. Ci si addentra nella mente malata, in quelle zone che rinneghiamo di avere. Infatti questo brano da l'impressione di essere un incubo. E' spettrale, ma non spettrale per via di un immaginario dell'orrore. E' spettrale come se fossimo sotto effetto di qualche potente medicinale che ci distoglie dalla verità. 



Transfiguration è un disco perfetto. Ha tutti gli elementi che servono a soddisfare le aspettative di chi ascolta. E' originale, è molto ben suonato ma, soprattutto, ha chiaro dove vuole andare e ci porta proprio lì, direttamente, senza prendere alcuna strada alternativa. Questo secondo disco dei Show of Bedlam è un lavoro che merita una grandissima attenzione perché non delude affatto.

Voto 9/10
Show of Bedlam - Transfiguration
Sentient Ruin Laboratories
Uscita 12.05.2017


domenica 7 maggio 2017

Ulver - The Assassination of Julius Caesar: il virus perfetto

(Recensione di The Assassination of Julius Caesar degli Ulver)


Il coraggio è fondamentale nella musica. E' quello che ti porta a prendere delle scelte non sempre facili. E' quello che ti fa dare dei passi nella direzione opposta da quella che tutti si aspetterebbero ma che alla distanza si rivela la mossa più giusta. Il coraggio è l'opposto dell'essere accomodanti, di ripetere all'infinito delle formule che funzionano soltanto per assicurarsi una continuità nella strada intrapresa. Io sono per il coraggio, e anche se qualche volta chi sceglie questa via fa dei passi falsi, perché è lì che viene fuori la genialità.

Non so cosa avrà la Norvegia ma negli anni, oltre a farci conoscere delle band pazzesche e spettacolari, ci ha anche regalato delle scelte coraggiose che hanno cambiato radicalmente la percezione della musica di tanti appassionati come me. Penso a The Third and the Mortal, una delle mie band del cuore, e a come le loro aperture musicali pazzesche mi hanno fatto iniziar ad apprezzare l'elettronica. Invece alla musica degli Ulver ci sono arrivato più tardi, quando le loro piccole rivoluzioni erano già in atto. L'ennesimo capitolo di questo percorso viene dato da The Assassination of Julius Caesar.
Uno dei segnali più chiari del trionfo dei questa nuova direzione è la dichiarazione di un genio pazzesco come Toby Driver. Il leader di band magistrali come Maudlin of the Weel e Kayo Dot appena ascoltò questo disco chiese pubblicamente se poteva far parte degli Ulver. Non è un gesto minore ma è la conferma di una similitudine di proiezione mentale nell'avanguardia musicale.
Ma la cosa paradossale è che tutti questi discorsi dovrebbero sembrare destinati ad un lavoro sperimentale, ricercato e difficile, e non ad un disco che gli stessi Ulver dichiarano essere la loro svolta pop. Arrivati a questo punto cadiamo in quella massa immensa di discorsi che cercano di definire con chiarezza che cos'è il pop. Io posso dire, soltanto, che se tutto il pop fosse come questo The Assassination of Julius Caesar io diventerei immediatamente l'uomo con i gusti più commerciali di questo pianeta.

The Assassination of Julius Caesar
© Ingrid Aas 2017

L'ultima fatica degli Ulver è una trappola. E' un virus silenzioso e spietato che cerca d'insinuarsi in tutte le menti per poi prenderne dominio. Per farlo si avvale di melodie così ben studiate che vi ritrovate a canticchiarle senza rendervene conto anche alla distanza di giorni. Utilizza anche degli arrangiamenti di grande bellezza che difficilmente trovano opposizione in chi gli ascolta. E' a quel punto che l'ascoltatore è fottuto, perché pensa di avere di fronte un disco facile che mescola rock ed elettronica come fanno i Depeche Mode. Ed invece o te lo prendi tutto o lasci perdere questo pacco, confezionato con molto altro, con quelle gocce di corruzione musicale ormai esistente dai canali più mainstream. The Assassination of Julius Caesar è un disco pieno di deliri musicali, di una profondità sonora figlia di una coesione musicale figlia della genialità. E' anche un disco di densa oscurità. Non di quella superficiale ma di quella che ha un'anima inguaribile. Ma tutto questo entra di nascosto, rifugiato all'ombra della prima lettura di questo disco.

Trip hop, trance, elettronica, rock e una dose essenziale di metal sono i pilastri di questo disco. Quello che sorprende e che regala l'immensa originalità di The Assassination of Julius Caesar è il modo nel quale questi elementi vengono messi insieme. Lo sviluppo dei brani presenti in questo disco è inimmaginabile prima di ascoltarli. Gli Ulver riescono a prendere dei ritornelli di un'effettività che qualsiasi artista pop ricerca per poi imbarcarsi in parti complesse, profonde, dove di commerciale non c'è neanche l'ombra. E' quella coesistenza quella che regala a questo disco un profilo molto alto, perché è sempre la musica degli Ulver, con le caratteristiche che conosciamo da tempo, che va in contrasto con questa ricerca di essere diretta, facilmente avvicinabile. 

The Assassination of Julius Caesar
© Ingrid Aas 2017

Dunque la nuova svolta degli Ulver è una svolta a metà. E' un approfondire un filone già presente in altre lavori precedenti senza mai perdere l'identità che ormai è diventata l'impronta della band. The Assassination of Julius Caesar scende comodo come un liquore pregiato che si gusta in un momento di pace, ma come qualsiasi liquore pregiato ha delle caratteristiche che lo rendono unico. Nel caso della band norvegese è quella costruzione architettonica della loro musica e quella profonda oscurità autentica. Se il pop è diventato intelligente allora questo è pop.

Ulver

Due brani da segnalarvi anche se l'intero lavoro non conosce punti bassi e merita di essere ascoltato con maniacale attenzione, soprattutto per poter apprezzare le costruzioni sonore del gruppo.
La prima è la meravigliosa Nemoralia. Forse il miglior brano del disco, riesce a far capire qual è l'intento della band, dove tutto ci porta a quella creazione di melodie di un'effettivamente incredibile che coesistono con la complessa trama sonora costruita dalla band. Uno dei migliori brani dei questo 2017.
La seconda è So Falls the World. E' un brano che ci riporta al passato della band, a lavori che avevano questa stessa dose di nostalgia e di poesia. Una bellezza dissacrante che lascia poi spazio ad un bellissimo viaggio strumentale.


Ormai con gli Ulver è inutile fare delle previsioni su quello che verrà nella loro musica e nella loro capacità di comporre dischi che a prima vista sono molto diversi tra di loro. A prima vista perché il loro modo di concepire la musica ormai è abbastanza chiaro, e anche se spaziano tantissimo dentro al loro orizzonte musicale quella sicurezza c'è sempre. The Assassination of Julius Caeser è il riflesso della loro parte più estrosa, è un disco rivolto all'esterno dove le fitte trame mentali e musicali della band trovano un linguaggio universale. E' difficile dire se è uno dei migliori dischi dei norvegesi ma credo che una cosa sia abbastanza chiara, è uno dei dischi che meglio funziona e che ti cattura senza lasciarti via di scampo. Per quello è uno dei quei dischi del 2017 da avere assolutamente.

Voto 9/10
Ulver - The Assassination of Julius Caeser
House of Mythology
07.04.2017

venerdì 5 maggio 2017

Nihiling - Batteri: due è il numero

(Recensione di Batteri dei Nihiling)


L'equilibrio è un concetto fondamentale nella vita. Non c'è luce senza ombra, giorno senza notte, bene senza male. Qualunque cosa sembra destinata ad avere un opposto senza il quale non sa vivere. E' noi stessi come umani cerchiamo sempre quel contrasto, quel modo di coesistere prendendo da una parte e dall'altra. Sembrerebbe che la chiave stia nel mantenere un giusto dosaggio di entrambi le parti senza mai esagerare con uno dei due poli.

Il quarto disco dei tedeschi Nihiling, intitolato Batteri, in realtà non viene costruito su due opposti ma riesce a far convivere due parti molto diverse. La prima è una parte più vicina al concetto di "canzone", in quanto conta con la presenza importante delle voci e hanno una struttura di strofe e ritornello. La seconda parte, invece, da via libera alla parte più evocativa di un lavoro strumentale che si avvicina in modo importante al mondo del post rock, dove la capacità d'illustrare dei paesaggi sonori che si tramutano in immagine è molto presente. Un lavoro di due anime, quindi, ma che si mantiene in un perfetto equilibrio e dentro ad una encomiabile coerenza che non fa spiccare di più nessuna delle due parti.

Batteri

L'analisi che bisogna fare di questo Batteri diventa dunque doppio, oltre alle considerazioni generali che valgono per l'intero lavoro. 
Nella prima parte, primi quattro brani, i Nihiling mettono in gioco una serie di composizioni dove l'elettronica dialoga perfettamente sia con la parte rock del gruppo che con l'interessante, e bellissima, tessitura vocale. Sono dei brani che vanno dal post rock a quella, molto mal definita, dimensione indie rock. Sono brani divertenti per via della loro originalità, seducenti, perché giocano con i contrasti di voci maschili e femminili, e complessi, perché si nutrono di diversi elementi volendo, volutamente, sporcarsi. 
La seconda parte, invece, è esclusivamente strumentale ed in lei prevale l'aspetto post rock della band tedesca. Ma ancora una volta non si può dire che la musica del gruppo sia unidirezionale. Così come i titoli delle canzoni suggeriscono una serie di storie molto diverse, che vanno dalla solennità all'ironia, anche musicalmente accade lo stesso. I Nihiling sono camaleontici, pronti ad assumere le tonalità più adatte allo spazio che stanno attraversando.

E' questo contrasto tra le due parti di questo Batteri a essere la chiave di lettura di questo disco. Lo è perché si sviluppa in tante direzioni. Non soltanto nella netta divisione tra i due quartetti di canzoni che conformano questo lavoro ma anche dentro a queste stesse parti. I Nihiling sono molto bravi a mettere tanti elementi nei loro brani che giocano con un'aura mistica che poi decade completamente per abbracciare qualcosa di molto più goliardico. Per quello questo non è un disco serio, ma ciononostante non ha alcuna sbavatura, e nello stesso momento non è neanche un disco scherzoso, anche se musicalmente e testualmente c'è anche spazio per il gioco. Due anime inquiete che potrebbero sembrare opposte ed impossibili da mescolare, ma, invece, quello che viene fuori è questo accoppiamento azzardatissimo ma molto ben riuscito. 

Nihiling

Contando con queste due parti così nette e normale approfondire sia l'una che l'altra. 
Per la prima parte pesco due brani che ci permetteranno di capire quel contrasto sempre presente. Sono Ottersong e Power Rangers. Già il titolo lo dice tutto, la seconda non può essere che un'interpretazione ironica basata sul famoso, e spesso ridicolo, telefilm statunitense. Ottersong è bellissima, è un intreccio tra post rock piacevolissimo ed un'elettronica mai invasiva. Sorprende per come si evolve, per i luoghi che ci fa visitare. Power Rangers è un'evasione, un mondo che non esiste dove tutto acquista un'altro peso, molto più leggero, dove la crudeltà di certi sentimenti sembrano scomparire completamente. E' un gioco è la band si diverte, si diverte a mescolare voci, a passeggiare con la musica, a farci ballare anche se è l'ultima cosa che vorremmo fare, ma il ballo sarà un ballo sconosciuto.
Il binomio Idiot/Funeral è quello che scelgo per la seconda parte. Anche qua entrambi i titoli fanno capire che saranno molto diverse queste due canzoni ed è proprio così. Idiot è il brano più distorto dell'intero disco facendo confinare il post rock col  post metal. Ma è questo il modo di entrare nella mente di un idiota, spiegando la dimensione distorta nel vivere tutto quanto. Potrebbe sembrare una canzone rabbiosa ma non lo è. Funeral invece è dissacrante e solenne. In che altro modo si può spiegare un funerale? E' malinconica e triste ma mantenendo sempre i confini della cerimonia. Per quello servono arpeggi tristi, melodie malinconiche e atmosfere cupe, non per l'oscurità ma per la tristezza.



L'azzardo dei Nihiling è molto grande, hanno costruito una specie di split album ma che non ha due gruppi. Questo sdoppiamento presente in questo Batteri potrebbe sembrare forzato, strano, poco definito ed invece è molto coerente. Lo è perché in entrambe le parti ci sono stati costanti indizi che ci hanno permesso di capire al meglio l'altra parte. L'universo presente in questo disco è così ampio da essere fottutamente alle nostre vite. Chapeau.

Voto 8,5/10
Nihiling - Batteri
Kapitän Platte
Uscita 05.05.2017

mercoledì 3 maggio 2017

The Ruins of Beverast - Exuvia: dietro nel tempo e sotto negli abissi

(Recensione di Exuvia dei The Ruins of Beverast)


La natura è sempre saggia, tanto che dovremmo ascoltarla molto di più. Ci insegna l'adattamento, ci dimostra come è saggio cambiare como cambia il tempo, cambiare per affrontare tutto quanto da un'altra ottica. Per quello ogni spezie ha il suo proprio modo di vivere i cambiamenti, di difendersi, di preservarsi, di evolversi per essere ancora più forte.

Exuvia è il titolo del disco del quale mi occupo quest'oggi. E' il quinto LP dei tedeschi The Ruins of Beverast, one man band già protagonista di un'altra recensione su questo blog, quando vi ho descritto il loro EP Takitum Tootem! (se avete voglia de leggere la recensione eccola qua). Alla distanza di pochi mesi eccoci qua con un lavoro ambizioso, complesso, denso e molto intelligente. E forse proprio l'EP che ha fatto da apripista ci ha fornito degli indizi fondamentali per capire anche questo disco. Grazie alle due tracce di quel lavoro, un brano inedito ed una cover dei Pink Floyd, era chiaro che oltre al black metal c'erano altre due anime che convivevano, cioè quella tribale e quella psichedelica. Exuvia è la conferma. Come se ci fosse il bisogno estremo di cambiare pelle e di rinascere con nuove caratteristiche, ecco cosa c'è in questo lavoro. Il black metal  è molto presente, molto ben suonato ma tutto il resto da una dimensione unica a questo lavoro, un'intensa originalità che lo rende un lavoro bellissimo, sentito e tutt'altro che scontato. 

Exuvia

Sorprende la durata dei brani di questo Exuvia, perché tutti i brani superano i sette minuti arrivando addirittura ai quindici minuti. Questa è una prerogativa che generalmente appartiene al metal progressivo o alla musica d'ambiente, dove la reiterazione ossessiva di certe idee diventa fondamentale per guidare l'ascoltatore attraverso una serie di paesaggi sonori. La lunga durata dei brani di questo lavoro di The Ruins of Beverast trova giustificazione più nel secondo punto. C'è bisogno di seguire un filo logico onnipresente che fa capire qual è il mondo nel quale siamo condotti. Un mondo d'abissi, di ombre, di mistero. Un mondo dove l'assenza di luce naturale è pesante quanto la reiterazione di certi frassegi, come a ricordare che quello che manca è prezioso. Il quadro si completa con la coabitazione di altri stimoli. Come quello dei cori ecclesiastici, quello di un'acidità lisergica, quello della potenza irrefrenabili del black metal e quello del ritorno alle origine regalato dai suoni più tribali. 

Infatti Exuvia da l'idea di un viaggio ancestrale che va oltre a quello che ci è stato insegnato a scuola. Questo viaggio va all'essenza dell'origine dell'ombra, alla creazione degli abissi, perché sotto la superficie c'è sempre tanto. The Ruins of Beverast regala questo relato musicale complesso, intenso che ci fa immergere completamente in questo ambiente dove l'aria è rarefatta, dove ci sono forme inimmaginabili, dove l'ombra regna sovrana senza alcuna voglia di essere illuminata. Ma la cosa interessante è che questi posti sono esistiti da sempre ma l'uomo ha cercato di starne alla larga, alimentandone la dimensione di occulto e di vietato ma, nello stesso tempo, divinizzandola. Per quello questo disco è monumentale.

The Ruins of Beverast

Vi ho parlo della lunghezza dei brani che formano questo disco ed adesso voglio approfondirne due:
Il primo è Exuvia. Il brano più lungo, più oscuro, più ricercato. Apre questo disco magistralmente perché sin da subito ci porta in un mondo che non è il nostro mondo di tutti i giorni. Una linea dissonante di chitarra ci accompagnerà praticamente durante l'intera durata di questo disco facendoci capire che quello che abbiamo di fronte è diverso da quello che abbiamo sempre conosciuto. E' un brano di un'intensa unica, che non si disperde mai anche se la sua durata supera i 15 minuti. Un capolavoro.
Dalla canzone più lunga a quella più breve. E' la nuova versione di Takitum Tootem! Ma mentre nell'EP omonimo il sottotitolo era War dance in questo caso è Trance. Perché quella è l'intenzione di questo disco. Quell'anima tribale c'è sempre ma non è più di questo mondo. Non è soltanto primitiva ma diventa anche cosmica, come se la guerra che bisogna combattere si sviluppi anche in altre aree cosmiche. Come se il mondo che pensiamo sia nostro mondo in realtà sia solo la punta dell'iceberg, e tutto quello che non si vede deva essere affrontato, finalmente.



Exuvia è uno di quei dischi dei quali è difficilissimo trovare un appunto negativo. Non solo è molto ben costruito ma lo è partendo da un'opera monumentale, con brani che crescono sempre di più toccando delle vette molto alte in lunghi sviluppi. Il suono dei The Ruins of Beverast è un contributo prezioso ad un black metal che ha bisogno di queste aperture come il deserto ha bisogno dell'acqua. C'è molto da imparare da questo disco.

Voto 9/10
The Ruins of Beverast - Exuvia
Ván Records
Uscita 05.05.2017


lunedì 1 maggio 2017

Nighon - The Somme: cantare alla guerra per evitarla

(Recensione di The Somme dei Nighon)


Il secolo scorso è stato un periodo segnato dalle due guerre mondiali. Guerre che hanno significato tantissime altre cose oltre ad un "semplice" conflitto bellico. Le cicatrici che sono rimaste ancora sono abbastanza presenti, soprattutto nell'anima dell'Europa, e una lezione che sembra essere rimasta è che una perdita di vite umane così grande non dovrà mai più accadere.

The Somme

Sono le guerre ad essere il motore creativo di The Somme, secondo disco dei finlandesi Nighon. Le guerre prese in prima persona, le guerre come narrazione di quello che si è vissuto da diversi punti di vista, quelli della popolazione civile, quella dei combattenti, quella delle diverse fazioni dei conflitti. Per quello la musica di questo lavoro è a tratti aggressiva, a tratti epica ed a tratti malinconica. Ma c'è altro ancora. Lo sforzo portato avanti dalla band vuole che i gravi conflitti mondiali siano una lezione e non si ripresentino nel presente. Al giorno d'oggi tutti questi argomenti sono di grandissima attualità e lo spettro di un incommensurabile nuovo conflitto galleggia nell'aria. Per quello è importante rinfrescare la memoria e ricordare che le conseguenze si ritrovano anche dopo tanti anni.

The Somme

Musicalmente la band dichiara di fare un genere intitolato symphonic shock metal, definizione che mi è completamente nuova e che, forse, riesce a descrivere bene quello che c'è in questo The Somme. Infatti la parte sinfonica è presente sia nell'utilizzo molto epico delle tastiere, tipico del symphonic metal, che nella presenza di una cristallina voce femminile. La parte "shock" invece è più difficile d'apprezzare e penso che la band la intenda come la capacità di raccontare storie che non lasciano nessuno indifferente. Per quanto mi riguarda trovo entusiasmante il ventaglio di generi che sono presenti nella musica dei Nighon. Generi che vanno dal black metal al epic metal giocando con certe cose d'industrial metal e del symphonic metal
La musica della band finlandese sembra rispondere ad uno scopo: la monumentalità. Tutti i brani sono importanti, intensi, epici. Per quello il blocco sonoro presente in quasi tutte le canzoni e molto compatto e d'impatto, e per quello la presenza della voce femminile, che è di netto contrasto con quella maschile, trova il suo spazio nelle melodie che rimangono molto imprese nella testa, un po' come fa Cristina Scabbia nei Lacuna Coil.

The Somme

Personalmente la cultura bellica non mi è mai piaciuta. Anche se più di qualche volta ho visto con piacere qualche capolavoro cinematografico ambientato in zone ed epoche di guerra non è qualcosa che mi attira. Per quello il primo impatto con The Somme non è stato di forte attrazione, ma i successivi ascolti mi hanno permesso di capire che il disco che avevo di fronte è un disco complesso, molto ben studiato, costruito con un insieme di elementi che danno ai Nighon uno sguardo nuovo in questo oceano chiamato metal. Sono epici senza essere patetici, sono oscuri senza essere occulti, sono una novità mettendo insieme una serie di provocazioni sonore del passato.

Nighon

C'è da dire che questo lavoro ha il pregio di non essere orizzontale. E' fatto di momenti diversi, di brani che cambiano, di formule diverse. Questa varietà è da ringraziare. Per quello anche se vi segnalo questi due brani c'è molto altro.
Il primo è Reclaiming Ravenpoint. E' un brano che nella sua prima parte ricorda molto quello che fanno i Rammstein, con riff potenti di chitarra che lasciano spazio poi a la voce che si adagia su una base ritmica. In un certo modo viene in mente anche il lavoro dei Samael. Tutto ciò per la prima parte, perché dopo la canzone cambia, diventa molto più importante, grandiosa, grazie all'intreccio di voci che ricordano il lavoro dei Lacuna Coil.
Il secondo è I Fear for Tomorrow, canzone che ci riporta al presente, a quello che stiamo vivendo. Il suo suono è conseguentemente molto più moderno toccando molte influenze che ci ricordano il death metal scandinavo per poi prendere di nuovo una piega più sinfonica e riportarci alla mente i Samael.


Credo che qualsiasi persona sana di mente rifiuti energicamente la possibilità di vivere una nuova guerra. Anche perché questa corsa disperata, ed inutile, alla difesa delle nazioni ha portato a costruire delle armi così letali e pericolose da distruggere l'equilibrio naturale. Per quello credo che, in qualche modo, lo sforzo degli Nighon possa essere utile. E' per quello che, anche se The Somme è un album bellico, siamo di fronte ad un disco pacifista che regala quel buonsenso che più di qualche leader politico mondiale sembra aver perso.

Voto 8/10
Nighon - The Somme
Inverse Records
Uscita 05.05.2017