mercoledì 16 novembre 2016

Intervista a Ianus dei Raspail: cantare la Roma rurale e ancestrale.

Questo è un estratto dell'intervista che ho effettuato a Ianus, cantante dei Raspail, andata in onda il martedì 1 Novembre 2016 all'interno di POST, trasmissione radiofonica che va in onda su Radio Flo e su Radio RNS 93.4 FM del Salento Centrale.

La versione integrale della puntata la trovate a fine post.
La mia recensione di Dirge la potete, invece, leggere qui.


Raspail


(Lettere dall'Underground): Iniziamo dall'origine del gruppo, come nascono i Raspail?

(Ianus): Raspail nasce intorno al 2010 per iniziativa mia, di Israfil, chitarrista e principale compositore e di Zeno, bassista. L'idea originale era un po' diversa da quella che potate ascoltare sul disco (ndr. Dirge), era più orientata ad un death metal di tipo scandinavo (...) per poi evolverci in questa altra direzione che viene rappresentata nel disco. (...)

(LDU): Hai accennato a questo processo che vi ha fatto aprire il vostro in molte altre direzioni. (...)  Perché avete cercato di sviluppare così il vostro discorso musicale?

(Ianus): Se ascolti il nostro primo demo con le canzoni che fanno anche parte del nostro disco d'esordio sentirai una bella differenza. La ricerca fa parte della natura stessa di Raspail, della nostra idea di musica e chiaramente risente delle influenze delle nostre principali esperienze musicali, soprattutto per quanto riguarda Israfil che con la sua esperienza musicale legata ai Klimt 1918 si porta dietro un importantissimo bagaglio musicale. E' una cosa connatura a noi stessi, non è niente di pianificato.

(LDU): Chiama l'attenzione che i vostri gruppi di provenienza, Klimt 1918, Novembre, A Room with a View e Psychotic Despair, sono dei gruppi molto diversi tra di loro. Per te Raspail è cercare d'unire tutto in un discorso musicale unico?

(Ianus): Non credo che sia un tentativo di unire le nostre differenti esperienze musicali. (....) Semplicemente il nostro discordo musicale ci rappresenta non solo come musicisti ma proprio come fruitori di musica. Dirge non ha nulla di pianificato, è tutto naturale.


Raspail


(LDU): Ti porgo la domanda di un ascoltatore: dietro ai vostri brani c'è dell'autentica ricerca antropologica e religiosa?

(Ianus): Una ricerca antropologica-religiosa mi sembra troppo ampia come definizione. A livello lirico ci può essere influenza dell'antropologia a livello culturale (...) tanto è vero che ci rifacciamo a ricordare un mondo che non c'è più, a rituali di vita, non pensare a rituali magici, legati a ritmi che ormai disconosciamo, alla vita campestre. Però ripeto, parlare di ricerca antropologica e religiosa proprio no, soprattutto religiosa non c'è nulla nel nostro disco.

(LDU): Nel vostro disco accennate all'influenza del paesaggio rurale dei dintorni di Roma. Cosa c'è di particolare in quei paesaggi?

(Ianus): (...) Per capire cosa veramente quali sono le sensazioni che ci genera quel tipo d'immaginario devi essere proprio nato in queste zone per poterlo veramente capire. Noi abbiamo cercato di trasmettere con la nostra musica proprio queste nostre sensazioni. (...)

(LDU): Questo è molto interessante perché prendendo il vostro genere musicale non possiamo dire che sia un genere italiano ma è un genere universale ed è molto bello che ci sia questa lettura che cerca di mettere in evidenza la vostra terra e le sensazioni che vi regala.(...) Ti porgo un'altra domanda di un ascoltatore. Ci sono riferimenti satanici nel disco?

(Ianus): Non, assolutamente no. Proprio no. 

(LDU): Il vostro disco ha un ampio respiro che lo apre a diversi generi. Questo respiro può essere molto apprezzato all'estero. (...) Avete mai pensato di emigrare? 

(Ianus): Personalmente non ho mai presso in considerazione quest'idea. Uno di noi dei Raspail, cioè Zeno il nostro bassista, vive e lavora in Repubblica Ceca, dunque abbiamo un lato internazionale della band. (...) Siamo in attesa di altri risconti sul disco. (...) Non so dire se all'estero siano più aperti o meno rispetto all'Italia nei confronti di una proposta musicale così variegata come la nostra. E' vero che a volte il mondo metal è un po' monolitico e restio ad accettare che qualcuno possa "ibridare" il suono metal con cose che non vengano dal mondo metal. (...) Bisogna abbracciare anche altre cose distanti dal mondo del metal. 

(LDU): Com'è stato il processo creativo di Dirge?

(Ianus): Abbiamo lavorato a distanza. C'è stato uno scambio continuo di idee e file. Quando è stato tempo di registrare il disco ci siamo visti tutti insieme. Anzi, molte linee del basso sono state registrate direttamente a Praga, in Repubblica Ceca. Però, ripeto, grazie ad internet si riesce a lavorare abbastanza bene. Il discorso cambia, ovviamente, se si pensa ad impostare una serie di live, lì non sarebbe possibile.



(LDU): Come ascoltatore quali sono le cose che più ti piacciono in questo periodo?

(Ianus): Io non metto dietro al trend del momento, alle nuove proposte. Se vado a vedere i dischi che ho sullo stereo, oggi, per esempio, ci trovo Bruce Springteen, piuttosto che i Deftones piuttosto a qualcosa legato al death metal o i Dead Can Dance. Dunque diciamo che spazia molto il mio ascolto in questo momento.

(LDU): (...) In che formati si può trovare il vostro disco?

(Ianus): E' un cd con un libricino di 16 pagine stampato su glossy paper molto ben curato com'è tipico di questa etichetta discografica (ndr. la tedesca Sick Man Getting Sick Records). (...)

(LDU): Cambio assolutamente tematica. L'ultima scossa di terremoto com'è l'hai vissuta?

(Ianus): E' stato uno shock, anche se, purtroppo, ormai siamo abituati. Ci ha colto di sorpresa, molto presto al mattino. E' stato molto scioccante vedere poi quello che è successo nelle terre martoriate. Ci sono state delle importantissime perdite dal punto di vista storico culturale e chi sa quanti anni ci vorranno per recuperarle se sarà possibile recuperarle.

(LDU): Che cosa ti auguri che succeda con questo vostro primo disco?

(Ianus): Mi auguro che abbia un'accoglienza positiva, di ricevere buone recensioni. Dal punto di vista musicale mi auguro che ci siano delle buone vendite anche se non si vive i musica, soprattutto suonando questo tipo di musica qua. Ma sarebbe importante per dare un susseguo al discorso Raspail. Per il momento le prime reazioni sono molto positive grazie alle prime recensione ed i primi feedback che abbiamo ricevuto, speriamo di continuare su questa strada. La speranza è che vada tutto per il meglio e che il disco venga percepito per quello che è. (...) Per i prossimi due anni l'idea è di continuare il nostro discorso musicale, c'è già qualcosa in cantiere. Anche per che i pezzi del disco, almeno per noi, cominciano ad essere abbastanza vecchiotti. 

Podcast con l'intervista intera:



lunedì 14 novembre 2016

Ornaments - Drama: la teatralità mitologica della vita reale

(Recensione di Drama degli Ornaments)


La verità è che gli umani siamo veramente stupiti. Abbiamo alle spalle secoli e secoli di storia, di esperienza, di testimonianze, di racconti ed invece di ascoltargli e capirgli facciamo sempre gli stessi errori. Una volta ed ancora un'altra volta. Forse è una pulsione di autodistruzione o altro ma l'impressione che viene fuori è che non impariamo mai del passato. Eppure a scuola ci insegnalo la mitologia, i conflitti relazionali che non hanno nulla a che fare con un livello superiore ma che, alla fine, sono esaltazioni della nostra vita. Tutti abbiamo dell'epica, tutti abbiamo rabbia, tutti ci capiamo per poi essere completamente lontani per poi, ancora una volta, riavvicinarci, inseguendo quello che, forse, è l'unico grande scopo che ci unisce: essere liberi.

Agli Ornaments piace fare le cose in grande. Amano imbattersi in discorsi ricchi di background che sono tutto tranne che scontati. Ad aggiungere "difficoltà" al loro discorso c'è di mezzo il fatto che la loro musica è, essenzialmente, strumentale. Hanno, dunque, a disposizione soltanto i loro strumenti per affrontare dei leitmotiv complessi che danno senso ad ognuno dei loro lavori. Questo loro nuovo LP, che s'intitola Drama, non poteva esserne di meno. La storia che viene sviluppata in questo nuovo disco affronta una delle tematiche più spietate del discorso mitologico: cioè la violenza. Violenza che in questo caso tinge uno dei racconti epici più strazianti: quello del Prometeo incatenato di Eschilo. Questa tragedia dimostra come i dei, in questo caso Zeus, esercitino il proprio potere non soltanto attraverso la saggezza ma, soprattutto, con la violenza straziante inflitta a chi rompe le regole o dimostra la vicinanza a chi, in teoria, è inferiore. La vittima della tragedia è Prometeo, condannato dal dio ad essere incatenato su una rupe dove, in eterno, un rapace li mangia il fegato. Un'immagine orrenda, al limite delle peggiori torture che ci possono venire in mente. E purtroppo l'uomo, nei corsi dei secoli e tuttora, ci ha riempito di esempi ben peggiori di torture inflitte al "diverso" o a chi, teoricamente, è inferiore. Adesso, io non so se gli Ornaments hanno voluto dare questa lettura più "attuale" a questo mito o se sono rimasti legati soltanto alla tragedia classica ma mi azzardo a dire che la verità sta nel mezzo.



Drama è un disco tosto, acido, violento, ma in un modo particolare, cioè intrinseco di poesia. E' un disco pieno di immagini sonore che traducono i ruoli di diversi personaggi protagonisti di questa tragedia. Ma è anche un disco di resistenza, d'orgoglio, di sopravvivenza. E' un identikit fedele di quello che è ogni personaggio del mito, e per quello è mutevole. Ma non soltanto. Bastano poche parole, o, in questo caso, immagini per definire un personaggio? Assolutamente no. Come si potrebbe tradurre in un tratto caratteristico la valanga di sentimenti che si sentono quando ad eseguire la tua condanna è proprio tuo fratello? Gli Ornaments usano la musica, la loro musica, per comunicare tutto ciò. Non si basano in un'infinità di suoni ma soltanto nei loro quattro strumenti, due chitarre, basso e batteria chiedendo un piccolo aiuto, alla voce di Lili Refrain, usata però più come un nuovo strumento, presente in due canzoni, ed al violoncello di Daniele Rossi che regala i propri interventi in quattro brani. Queste "aggiunte" non distolgono assolutamente il discorso musicale della band, a cavallo tra il post harcore ed il post metal, ma regalano quei tratti che regalano miticità ad una storia così particolare come quella presente in questo disco.

La chiave di lettura di questo Drama sta nella teatralità propria delle tragedie classiche. Teatralità presente in ogni nota suonata in questo disco. Ed occhio, perché la grande teatralità ha una caratteristica essenziale, cioè quella di racchiudere in un certo numero di battute la verità. Un'opera teatrale è un successo quando ti suscita emozioni, ricordi e riflessioni e gli Ornaments adempiano questo scopo. Non fa niente che quello che ha mosso la band a scrivere questo disco sia una tragedia classica che parla di essere sovrumani. Qua c'è del vero com'è incredibilmente vero, il suono del sangue della prima traccia, Efesto. Questo Drama è, paradossalmente, attualissimo e fa riflettere, perché ormai siamo giunti ad una commercializzazione delle tragedie dove ognuna ha un valore specifico dipendendo da dove viene e chi è il protagonista. Peccato, però, che il sangue versato ha lo stesso suono ovunque. 



Le tracce di questo lavoro racchiudono nei loro titoli sia i nomi dei personaggi che le tappe del calvario del protagonista Prometeo. Mi è molto difficile limitare la mia proposta d'ascolto ad una parte parziale del disco perché diventa come consigliare soltanto qualche capitolo di un libro quando, invece, il senso finale viene dato soltanto dall'intera lettura. Dunque consigliandovi vivacemente di ascoltare con cura, ed in ordine, tutte le tracce di questo lavoro mi limito ad accennarvi tre canzoni che, forse, hanno qualche aspetto in più da sottolineare. 
La prima è Prometheus. E' un calvario che va al di là del dolore fisico. E' un vortice infinito dove le domande non trovano risposta. E' un silenzio che urla, e ferisce, molto di più delle parole. Musicalmente è energica e compassata. Gioca, senza difficoltà, tra momenti di grande esternazione ed altri di completa ed assoluta riflessione introspettiva. E' lo sguardo che comunica molto di più di qualsiasi discorso.
La seconda canzone a segnalarvi è Oceano. E' una canzone che bisogna ricercare tra la nebbia ascoltando l'eco di sussurri antichi e, ad un primo ascolto, incomprensibili. E' drammatica quanto la decisione di andar avanti anche se tutto porterebbe a decidere di abbandonarsi alla rassegnazione. Lili Refrain regala un'interpretazione mistica e teatrale unica cantando in una lingua inesistente ma comunicando molto di più che tante altre canzoni scritte in lingue vive. Musicalmente è una canzone tormentata che fa capire lo sfinimento del protagonista di fronte ad una scelta devastante. 
Per finire vi segnalo Zeus. E' la canzone che chiude il disco e che fa capire la magnitudine dell'immagine e della personalità del dio dei dei. E' un rullo macina sassi che nessuno può fermare. E' inopinabile ed intoccabile. La forza strumentale di questo brano fa capire il potere e la cecità che provoca a chi ce l'ha. Devastante.



Quanti Zeus e quanti Prometeo ci saranno stati e ci saranno nel mondo? Credo che siano tanti e penso che questo Drama dia una dimensione musicale a questi due personaggi che sono molto di più che i protagonisti di questa tragedia. Infatti questo nuovo disco degli Ornaments riesce a costruire dei ponti tra la tragedia classica ed il ripetersi delle dinamiche in essa raccontate. E' un disco crudele perché il mondo continua ad essere un posto crudele, ma è anche un canto di speranza, di coerenza e di resistenza. Tutte caratteristiche che definiscono tanti piccoli eroi che, almeno per qualche attimo, ci fanno vedere il mondo con altri occhi. 

Voto 9/10
Ornaments - Drama
INRI/Tannen Records
Uscita 18.11.2016

venerdì 11 novembre 2016

Galactic Pegasus - Phantom of the Hill: questo è il metal oggi

(Recensione di Phantom of the Hill dei Galactic Pegasus)


La nostra mente è affascinante. Spesso viene detto che non riusciamo ad utilizzarla in tutta la sua potenzialità. Un aspetto sorprendente è quello dei ricordi e della capacità di farci tornare indietro nel tempo grazie a qualche impulso esterno. Basta quel lampo e dei ricordi che ormai erano completamente sotterrati riemergono. 

Questo processo mentale mi è capitato ascoltando il primo LP dei canadesi Galactic Pegasus che s'intitola Phantom of the Hill. Mi sono bastati pochi minuti per farmi riaffiorare alla mente un gruppo che una quindicina di anni fa mi piacque parecchio per l'originalità del proprio genere. Parlo degli svedesi dei Gardenian, autori, per quanto ne so, di due pregevolissimi dischi. La cosa particolare è che il biglietto di visita di entrambi i gruppi è abbastanza diverso. Mentre i Gardenian basavano la loro musica su un death metal melodico sulla falsa riga degli In Flames, aggiungendoci degli elementi "sintetici", i Galactic Pegasus si presentano come una band di metalcore progressivo con delle aggiunte di uno dei generi più in voga di questo periodo: il djent. Non è l'unico appunto da fare in questa comparazione. Sebbene sono diversi gli elementi che creano questo collegamento temporale tra i due gruppi ci sono altrettante cose che appartengono ad ogni gruppo. Le sonorità dei Galactic Pegasus sono estremamente moderne e non si limitano a pochi elementi. E' così che, partendo dal metalcore progressivo, sono costanti, ma ben ponderate, le incursioni in altri generi come l'elettronica, qualche passaggio post rock e qualche strizzatina d'occhio verso il death metal melodico prima accennato. 



Phantom of the Hill è un bel lavoro per via della sua dinamicità. I suoi brani sono abbastanza diversi tra di loro anche se uniti da un'impronta indelebile. La pesantezza delle chitarre distorte, la voce growl e le ritmiche molto ricercate piene di stacchi e di sincope sono una costante che all'occorrenza lascia spazio alla voce pulita e a dei momenti di rilascio dove arpeggi di chitarra o synths si divertono a creare dei piacevoli tappeti sonori. C'è da dire che questo è un disco che denota un gran lavoro di studio, anche per via della programmazione di batteria e synths, e si sente. Si percepisce una certa "freddezza" dettata da questa tipologia di registrazione ma la cosa interessante è che quest'aspetto non diminuisce affatto questo lavoro ma regala una dimensione più moderna ed in linea con i conflitti personali che vengono cantati in quest'album. In altre parole questo disco potrebbe essere una colonna sonora perfetta dei nostri giorni.

Sta proprio nell'ultima affermazione la chiave di lettura di questo disco. I Galactic Pegasus sono un compendio molto fedele dello stato attuale di una parte importante del metal. La musica rappresenta l'evoluzione di certi generi che, per fortuna, sono cambiati col corso degli anni. Non solo, c'è anche da ringraziare che il concetto di "purezza" ormai è superatissimo. Più che mai fare musica significa, almeno dal mio punto di vista, spalancare le porte a quanti più impulsi provengano da diverse direzioni, sia musicali che tecnologiche. In Phantom of the Hill questo si sente. E' un disco che "nasce" nel metal dei primi duemila per stendersi e "rubare"  delle belle soggezioni di altri generi senza essere un processo macchinoso ma regalando nuovi orizzonti sonori.



Homecoming è il primo brano che vi consiglio. Inizia con una bella sfumatura djent che lascia poi spazio ad un bel dialogo tra voce growl e quella pulita. Ed è la voce principale ad essere molto protagonista, molto teatrale.
The Fault Line è un altro brano che mi è piaciuto particolarmente. Sicuramente grazie alle parti strumentali che, per certi versi, ricordano i grandi Cynic, per poi prendere una piega che richiama tanto il melodic death metal dei prima nominati Gardenian ma aggiungendoci una lettura moderna e progressiva.



Phantom of the Hill è il primo LP dei Galactic Pegasus ed è stato preceduto da un paio di EP ma rappresenta il loro vero primo biglietto da visita, anche perché da una dimensione più da band che da progetto di pochi singoli. E' un ottimo lavoro perché ci fa capire che le potenzialità della band sono molto alte. C'è un bellissimo compendio di generi suonati molto bene che danno nascita ad un discorso musicale originale e coerente. Denota che i musicisti che ci sono dietro a questo Phanton of the Hill hanno masticato tanta musica ed hanno voglia di buttare qualsiasi muro che possa limitare i loro processi creativi. Una prova molto onestà e ben riuscita.

Voto 8,5/10
Galactic Pegasus - Phantom of the Hill
Famined Records
Uscita 18.11.2016

mercoledì 9 novembre 2016

Black Hole Generator - A Requiem for Terra: profondo quanto l'universo

(Recensione di A Requiem for Terra dei Black Hole Generator)


L'oscurità. l'ignoto. Il mistero. Un portale che in tanti non sono disposti ad attraversare per paura. Il segreto, però, è che quando si sta in mezzo al buio gli occhi si abituano e, piano piano, il nero inizia a decomporsi in diversi sottottoni che svelano quello che fino ad un attimo prima non vedevamo. Penso che nella musica sia lecito fare un paragone simile. La stra grande maggioranza degli artisti hanno deciso di fare la loro propria musica "alla luce" rimanendo sempre dentro ad un mondo fortemente limitato e di uso e consumo spietato. Non è quello che a me interessa. Come ormai saprete, questo blog si nutre dell'altra categoria di artisti. Quelli che hanno il coraggio di muoversi nel buio e di raccontare quello che vedono, immaginano e vivono. Perché? Perché lo fanno con onestà e passione.

Il buio ha molte forme. Quella che viene raccontata da Black Hole Generator è la sua forma energica ed intensa come l'ignoto cosmico. Il secondo LP di questo progetto, uscito alla notevole distanza di 10 anni dal debutto, ne è la conferma. A Requiem for Terra è un lavoro che spazia tra testure e contaminazioni sonore che ricreano un discorso musicale assolutamente originale che potrebbe trovare qualche paragone, volutamente non casuale, nei Vulture Industries. Questo perché l'uomo che c'è dietro a questi due gruppi è lo stesso, cioè Bjørnar E. Nilsen. La differenza sta nel fatto che Black Hole Generator rappresenta il suo punto di vista personale co-aiutato da altri musicisti. Dicevamo però che il linguaggio musicale presente in questo disco ha degli aspetti molto particolari. Il punto di partenza è sempre il black metal ma le vie musicali che intraprendono le sette tracce incluse nel disco prescindono da limiti e definizioni. C'è qualcosa di cosmico che unisce tutto.




Approfondendo, infatti, il discorso musicale di A Requiem for Terra, viene fuori che c'è una grande dinamicità che genera una serie di discorsi indipendenti abbinabili ad ogni canzone. Tutte unite, però, da una grandissima energia. Occhio però, perché quest'energia non si traduce in ritmiche impazzite o riff massacranti di chitarra. No, anche le canzoni mid tempo hanno la stessa intensità fatta da un trattamento sonoro che tende ad omologare molto la parte strumentale presentandola come un blocco compattissimo e funzionante. La voce cosmica di Nilsen non trova problemi a spaziare tra registri e modalità variopinte di cantare dando ancora di più questa dimensione fantascientifica. Dunque sì, c'è del black metal ma è un black metal che poco e niente ha a che fare con quello di tanti altri gruppi. E' l'aspetto avanguardista quello che conferisce a questo disco una dimensione molto più interessante di tanti altri dischi. E' il trattamento sonoro che gioca con i suoni a regalare l'intensità ed il coraggio presenti nella musica dei Black Hole Generator.

A Requiem for Terra è l'ennesima dimostrazione che in Norvegia lo stato di salute del metal è quello che tutti ci augureremo per noi stessi. Non ci sono limiti ed imposizioni ma un solo obbiettivo: quello di far arrivare il proprio discorso musicale utilizzando tutto quel che possa servire per ingrandirlo. Black Hole Generator è un esempio palpabile dove la spazialità è presente in ogni singola nota. C'è una costruzione accuratissima di ogni brano che sorprende l'ascoltatore. Non appena viene accennata una parte tutto cambia e veniamo catapultati in un nuovo discorso musicale che potrebbe sembrare incoerente ma che guardato alla distanza si giustifica completamente. E' questa la forza di questo disco: l'assenza assoluta di limiti, è chiaro, soltanto, il punto di partenza. Il resto è un'avventura.




Tre consigli di canzoni d'ascoltare.
La prima è la title track che apre il disco. Sin dalle prima note che evidenziano delle chitarre sommerse, trattate quasi come se fossero un materiale, si capisce la genialità del disco. Anche la voce viene trattata come se provenisse da un'altra dimensione. E poi c'è il ritornello, e tutto esplode e si ficca in testa. Il brano si evolve sempre di più strizzando l'occhio al black metal.
Titan è invece un brano dove la dimensione astrale è molto più presente. Ricorda a tratti gli Arcturus, ma successivamente fa capire qual'è la forza di questo disco. I costanti cambi. La dinamicità della voce. I break strumentali pieni di energia. Un grandissimo brano. 
Per chiudere vi segnalo Spiritual Blight. Canzone ciclica che diventa quasi un rituale che ti cattura. Dentro a questo vortice sono tanti gli spunti spunti sonori che ingrandiscono il discorso rappresentando una perfetta chiusura di un album. 



A Requiem for Terra
 ha tutte le caratteristiche che fanno che la musica sia viva. E' un disco senza limiti e quest'apertura mentale regala l'inedito. Non è la replica di qualcosa sentito e risentito ma è una voce nuova con una forza naturale. Dieci anni sono tanti ma l'attesa è valsa vedendo cosa hanno sfornato i Black Hole Generator. Dal cosmo ora torno sulla Terra.


Voto 8,5/10
Black Hole Generator - A Requiem for Terra
Dark Essence Records
Uscita 18.11.2016

Pagina Facebook Black Hole Generator
Pagina Bandcamp Black Hole Generator

lunedì 7 novembre 2016

Vinum Sabbatum - Apprehensions: guardare il passato con gli occhi d'oggi

(Recensione di Apprehensions dei Vinum Sabbatum)


La forza della musica è che non ha tempo. Ci ritroviamo ad ascoltare e riascoltare fino allo svenimento dei dischi vecchi di decenni riprovando sempre la stessa gioia del primo ascolto. Poco importa se la tecnologia si è evoluta, se i generi si sono sviluppati dando nascita ad un numero incontrollabile di "figli". C'è gente che esalta questa condizione e vive "immersa" nel passato musicale affermando che, ormai, non esiste niente di nuovo. Uno dei ruoli di questo blog è dimostrare il contrario ma questo è un discorso che ho già affrontato in passato e che, sicuramente, riaffronterò in futuro. Oggi quello che m'interessa è parlare, invece, dei gruppi che basano il loro motore creativo in generi del passato. E' un esercizio rischioso perché, da una parte, sono messi a paragone con mostri sacri che sono riusciti ad attraversare il tempo, e, d'altra parte, perché rischiano di essere quasi ridicolamente anacronistici. 

Il rischio corso dai finlandesi Vinum Sabbatum è grande perché sono uno di quei gruppi che sembrano usciti da una macchina del tempo che ha fatto un salto in avanti di, almeno, una quarantina d'anni. La loro musica passeggia indisturbata tra il proto-doom di scuola Black Sabbath e l'hard rock primordiale che porta in mente band come i Deep Purple. Cosa ha, dunque, il loro LP, Apprehensions, che valga un suo ascolto invece di prediligere i mostri sacri del passato o dei generi più attuali? La risposta è: la loro interpretazione. Anche se ci sono quelle tracce così vivide e si sente che la loro musica guarda al passato certe sfumature fanno capire due cose. La prima è che si tratta di un disco del 2016. La seconda è che la band non proviene dalla patria madre dei generi prima nominati ma non ha problemi a riconoscere la propria appartenenza geografica. 
Il primo aspetto viene sottolineato dalla contaminazione sonora della band. I Vinum Sabbatum non hanno un legame di "fedeltà" con alcun genere e riescono a spaziare tranquillamente non solo tra il proto-doom e l'hard rock ma mettono delle pennellate di rock psichedelico per dare una dimensione speciale a quello che fanno. 
Per quanto riguarda il secondo aspetto un indizio essenziale viene dato dalla quarta traccia del disco, Autuuden Maa, cantata in finlandese. Non è un dettaglio minore perché spesso si ha a che fare con gruppi che sembrano voler rinnegare la propria patria di nascita eliminando qualsiasi indizio che lo faccia capire. Invece questa traccia di Apprehensions, esalta l'appartenenza della band.


L'elemento sonoro che più spicca è l'organo Hammond, impronta indelebile di un'epoca del rock. L'utilizzo delle tastiere non si limita a questa tipologia ma gran parte dei banchi sonori scelti riportano alla mente quell'epoca di maestosità del rock a cavallo tra gli anni sessanta e settanta. Non c'è dubbio che la ricerca sonora, e il lavoro in studio di registrazione, ha portato i Vinum Sabbatum ha impregnare il resto degli strumenti in questo mood sonoro. Le chitarre presenti in questo Apprehensions, ricordano il lavoro di due eroi delle sei corde come Jimmy Page e Ritchie Blackmore ed il lavoro della sessione ritmica ha la compattezza, e contemporaneamente, la spazialità di tandem basso-batteria sentiti nei Led Zeppelin o nei Black Sabbath. A completare il quadro c'è la voce che non trova paragoni chiari come quello degli strumenti ma che rientra perfettamente nella tradizione hard rock. Cioè una voce con personalità senza pretese di virtuosismi inutili.

Apprehensions ha come forza il fatto di essere un compendio, un'insieme di generi e di artisti che si articola in un discorso musicale coerente ed autosufficiente. La nostalgia sonora è molto chiara ed è ricercata perché i Vinum Sabbatum non hanno alcuna intenzione di mascherare il loro discorso musicale, ma da questa nostalgia nasce una creatura "nuova". Senz'altro questo disco troverà dei consensi tra gli amanti del rock vecchia scuola ma non farà storcere il naso a nessun amante del hard rock in ampia scala.



Due esempi sonori molto energici e chiari del discorso musicale della band sono Shadows of Tears e Profane Soil.
Nel caso della prima canzone e facile apprezzare tutti gli elementi che coesistono nella musica dei finlandesi. E' un brano trascinante che ricorda molto i Deep Purple con dei fraseggi dove all'unisono tastiera, basso e chitarra sottolineano la forza del brano.
Profane Soil, invece, è più oscura dimostrando più evidentemente la parte proto-doom della band. E' un bravo ossessivo ed ipnotico non privo di epicità. 



Un disco come Apprehensions difficilmente sarebbe esistito quarant'anni fa anche se la base musicale sulla quale viene costruito è proprio quella. Questo perché la distanza degli anni e lo stacco che consente da la possibilità ai Vinum Sabbatum di trovare un giusto compromesso tra tutti gli elementi a disposizione. E' un esercizio di osservazione, di ponderazione messo a disposizione della creazione persone e soggettiva. Un tuffo nel passato con gli occhi d'oggi.

Voto 7/10
Vinum Sabbatum - Apprehensions
Northern Silence Productions
Uscita 11.11.2016

venerdì 4 novembre 2016

Saor - Guardians: l'orgoglio scozzese urlato al mondo

(Recensione di Guardians di Saor)


L'uomo è un animale sociale. Necessita di creare dei legami che possono tradursi in diversi modi: famiglia, cerchia d'amicizia, città, nazione, ecc... Alla base di queste unioni c'è sempre il concetto di autodeterminazione. E' fondamentale sentire che quando qualcosa ci mette insieme non ci toglie la libertà. Per quello, storicamente, i popoli hanno lottato e continuano a lottare per avere la capacità di governarsi da soli, senza alcuna imposizione da fuori.

Non so se Saor sia un sostenitori dell'indipendenza della Scozia ma so per certo che la sua nazione è il motore che muove la sua musica. Il suo nuovo album, Guardians, ci regala un sacco di elementi per verificare questa tesi. Basta pensare che le parole dei cinque brani che compongono questo LP sono spirate a cinque poesie di altri tanti poeti scozzesi. Non soltanto, la tematica di queste parole parla spesso del patriottismo verso la propria patria, storicamente oppressa e scenario di conflitti. E se il concetto non fosse ancora chiaro c'è la parte musicale ad approfondire il discorso. E' doveroso, però, indicare che qua c'è l'originalità di questo lavoro. E' così perché quello che ascoltiamo in questo Guardians è un compendio di generi che origina un lavoro universale che riesce a raggiungere un pubblico vasto che troverà, senz'altro, dei punti d'unione con questo disco. Mi spiego meglio. Come detto in precedenza anche la musica si nutre di questo sentimento patriotico tramutandosi in folk metal di chiara influenza celtica. La presenza di strumenti tipici della tradizione scozzese sono apprezzabili per tutta la durata dell'album ma c'è ancora altro ed è quello che fa la differenza. Questo disco non è soltanto folk ma si tinge di black metal, d'ambient e, in certi momenti, di post rock. Un mix di elementi che "universalizza" l'intenzione artistica di Saor.



L'equilibrio è la chiave di lettura di questo Guardians. Sono molti gli elementi che dialogano tra di loro ma alla fine nessuno risulta eccessivo o pesante. Personalmente l'eccessività di elementi folk mi scoraggia ma in questo disco ci sono due cose molto ben riuscite. La prima è che la presenza di questi strumenti tradizionali è ben ponderata. La seconda è che non sono loro a dettare tutto il resto ma è il contrario, si mettono a servizio della base metal arricchendola. Per via della tematica, dell'appartenenza e dell'epicità del disco non era semplice fare un ragionamento del genere ed invece, il buon Saor, ci riesce. La parte metal è bella, piacevole, costruita su linee di chitarra che danno il meglio sia quando devono arpeggiare per creare dei paesaggi sonori vicini al post rock, sia quando devono creare dei riff di chitarra pesanti in piena tradizione black metal. Il sostegno di basso e batteria è fondamentale. Soprattutto quest'ultima regala una prestazione piacevolissima ricca di profondità non disdegnando delle ritmiche che hanno sapore sia di folk che di black metal. La voce è versatile e, anche se appartiene soprattutto all'usanza del black metal, riesce a regalare diversi registri dov'è anche presente qualche passaggio "pulito".

Con questo Guardians lo scozzese Saor ci trasporta tra la natura , il vento, i castelli, il mare e la storia della sua patria. La sua musica ha quel tocco di epicità che parla di eroi del passato e delle loro gesta. Riesce a tradurre in musica quello che caratterizza la Scozia ma lo fa senza la forzatura d'abusare di quella simbologia. La sua musica è un omaggio, non un manifesto turistico. E ripeto ancora che il limite tra entrambe le cose era molto sottile. Questo disco sa di Scozia vera. Sa del suo orgoglio, sa della sua storia, sa delle sue tradizioni, sa di passato ma, è qua c'è la magia, sa anche di presente. L'intelligenza di Saor sta nel generare un linguaggio attrattivo, almeno per chi ama il metal, col quale evidenzia il suo messaggio patriotico.



Come consiglio all'ascolto parto con indicarvi la title track che è anche la traccia che apre questo lavoro. E' molto indicativa di tutto quello che si ascolterà nel disco. Inizio molto atmosferico che lascia spazio ad una linea di chitarra post rock per poi entrare prima nella parte folk e dopo in quella black metal che sorprende anche per l'utilizzo della voce che sembra stregata. 
The Declaration musicalmente è molto più grintosa ed energica lasciando gran parte del protagonismo, almeno nella prima metà, alla parte black metal. E' lì che si apprezza il grandissimo lavoro di Saor di utilizzare gli strumenti tradizionali come un plus e non come una cosa separata ed incollata a fortuna sul resto. E' bellissimo il dialogo tra violino e chitarra di fine canzone con la cornamusa che arricchisce questo momento strumentale di gran fattura. 



Guardians è un disco che non punta a piacere soltanto a chi ama l'aspetto folk nella musica. E' un disco che conquisterà chi sa apprezzare l'insieme di tanti linguaggi musicali messi a funzione di uno scopo chiaro e preciso: quello di cantare la propria terra. Saor è moderno seppur pesca nella tradizione ed è quella modernità che da più forza a questo lavoro rendendolo universale. Perché quando si ha un messaggio così pesante bisogna di comunicarlo a quanta più gente possibile. 

Voto 8/10
Saor - Guardians
Northern Silence Productions
Uscita 11.11.2016

mercoledì 2 novembre 2016

Intervista a Giancarlo Erra dei Nosound: un italiano ben poco italiano

Questo è un estratto dell'intervista che ho effettuato a Giancarlo Erra, leader dei Nosound, andata in onda il martedì 18 Ottobre 2016 all'interno di POST, trasmissione radiofonica che va in onda su Radio Flo e su Radio RNS 93.4 FM del Salento Centrale.

La versione integrale della puntata la trovate a fine post.
La mia recensione di Scintilla la potete, invece, leggere qui.




(Lettere dall'Underground): Partendo da Scintilla, il tuo ultimo disco, e considerando che tuoi affermato che negli anni i tuoi ascolti sono cambiati raccontaci com'è cambiato tutto e a che punto senti di essere adesso.

(Giancarlo Erra): Come giustamente ha detto ci sono delle evoluzioni negli ascolti e nella vita persone. Essendo la mia musica una musica di grande ispirazione autobiografica è normale che i miei ascolti siano cambiati, e di conseguenza anche la mia musica.
Da un punto di vista, invece, prettamente musicale è un percorso che mi ha portato dal progressive della mia adolescenza, che aveva parallelamente ascolti dell'ambient e di collone sonore, ad ascoltare post rock, art rock e un tipo di cantautorato diverso da quello italiano
Mi rendo conto che più passano gli anni più mi piace in verità scoprire cose nuove. Questo percorso mi ha portato ad ascolti sempre più lontani e sempre più vicini a un certo minimalismo, se vogliamo, che non è mai un minimalismo sonoro ma è un minimalismo inteso come essenzialità.
Sono sempre più interessato all'antitesi di quello che è considerato il prog classico per molti, per cui poche note,poca musica ,soprattutto l'idea, l’ispirazione originale, l'idea semplice presentata nel modo più efficace possibile e scevra da ogni superficialità, scevra da ogni cosa che non è necessaria a comunicare lo stato emotivo e l'ispirazione emotiva se c'è stata dietro alla composizione musicale. Credo che tutto questo cambiamento negli ascolti si sia ovviamente riflesso nella mia scrittura e quindi ovviamente in Scintilla dove, forse questo cambiamento è un pochino più evidente in confronto alle cose scritte in passato.

(LDU): Considerando che Scintilla è un disco molto introverso e che tu vivi in Inghilterra volevo sapere se tutto quest'aspetto ha una risoluzione in questo disco, se questo disco suona così perché vivi in Inghilterra.

(GE): Non saprei. Ormai sono 7, 8 anni che vivo in Inghilterra. Onestamente quando vivevo in Italia, dov'è partito il progetto Nosound c'era sempre un'ispirazione di ampio respiro, anche se è qualcosa che si conquista col tempo e con l'esperienza, ma c'è sempre stata la volontà di dare quest'ampio respiro. Anche perché non sono mai stato un ascoltatore di musica italiana, non mi ha mai detto nulla, non fa parte delle mie corde emotive, a parte rarissime eccezioni, forse la più grande di tutte e De Andrè. Non è un panorama musicale, né mainstream né underground, che mi ha mai appartenuto.
Ma in effetti, ora che mi fai pensare, quello che si rispecchia è che vivendo qui, e dunque prendendo gli aspetti positivi che ci sono qui, è possibile fare una vita artistica, e dunque pratica, che permette di indugiare o approfondire questa parte interna.
Questo disco è stato più percepito nel nord di Europa dove c'è più questa sensibilità musicale piuttosto che in Italia.
Nel pratico Nosound non sarebbe mai riuscito a crescere e a continuar a vivere se fosse rimasto in Italia.
Scintilla è più un album inglese che italiano.

(LDU): Parlaci dei due ospiti presenti in Scintilla, cioè Vincent Cavanagh ed Andrea Chimenti, due personaggi molto diversi. Com'è stato coinvolgerli e perché hai pensato a loro.

(GE): Sicuramente sono due artisti diversi. Nelle mie collaborazione c'è sempre il fattore d'amicizia e lo scambio artistico.
Vincent lo conosco da tempo essendo parti della stessa etichetta ed avevamo in mente da tempo di collaborare. Nel brano In Celebration of Life avevamo un legame comune con la persona che ha scritto e testo e al quale poi il pezzo è stato dedicato. E' stato un segno per dire: questa cosa bisogna farla.
Andrea Chimenti è uno dei pochi artisti italiani che seguo tuttora. Lui ha un respiro internazionale. Dopo esserci scambiati un po' di materiale ci siamo detti che, anche se la nostra musica è diversa, parte da un punto in comune che sono i sentimenti. Lavorare insieme significava fare qualcosa di diverso da quello che ognuno fa per conto proprio. Trovandoci nella stessa lunghezza d'onda abbiamo ripreso in mano il materiale che c'eravamo scambiati prima ed è nato velocemente Sogno e Incendio.




(LDU): Parlaci del processo creativo delle canzoni dei Nosound considerando che il resto della band si trova in Italia.

(GE): Non sono mai stato un fan di comporre insieme in sala prove suonando tutti insieme. L'ispirazione bisogna saperla ascoltarla, scoprirla e scriverla. Io scrivo quasi sempre al piano, registro un demo ed in studio comincio a registrare quello che ho in mente. Quando ho finito questo metto tutto in un cassetto e lo lascio riposare per mesi. In questo modo so se qualcosa e valido o meno.
Quando mi sono dimenticato di quello che ho scritto lo riascolto e capisco se è valido o meno. Avendo selezionato le cose interessanti invio tutto al resto della band e ci confrontiamo. Ognuno manda le proprie tracce strumentali e quando crediamo di aver raggiunto un buon risultato ci vediamo tutti insieme a Roma e registriamo definitivamente le tracce.

(LDU): Cosa ti manca dell'Italia.

(GE): Dell'Italia mi manca il modo d'approcciarsi delle persone tra di loro. Qua si fatica ad abituarsi al modo di socializzare fatto di pub, musica alta e molto alcool. C'è meno possibilità di affrontare discorsi più profondi. Forse questa è l'unica cosa che mi manca oltre naturalmente alla famiglia o agli amici più ristretti. Ma tornando spesso in Italia mi godo di più questi aspetti di quando vivevo lì.

(LDU): Un'impressione che mi viene sentendoti è che sei un italiano ben poco italiano.

(GE): Sì. E' assolutamente vero quello che dici. Sono ben poco italiano per la mia indole. Naturalmente non è facile lasciare il proprio paese ma ho sempre pensato che più è difficile quello che si fa più è grande quello che ottieni.

(LDU): Per arrivare dove siete arrivati avete faticato molto, raccontaci di più.

(GE): La parte musicale all'inizio era un 20, o 30 per cento. Il resto del tempo e dell'energia se ne andava facendo tre o quattro lavori facendo tutto da noi per fare un bel prodotto da presentare alle grandi etichette con una produzione diversa dalle altre. Io tutt'ora dormo 6 ore a notte perché non c'è nulla che possa sostituire il lavoro che non ti fa uscire o socializzare, e quella cosa la fai solo se hai una passione vera.




(LDU): Cosa c'è nel futuro di Giancarlo Erra e dei Nosound.

(GE): Per un paio di mesi saremmo ancora impegnati nella promozione del disco dopo di che voliamo avviare un tour che ci porti anche in America.
Personalmente continuerò a scrivere musica. Con Tim Bowness e il nostro progetto Memories of Machines dovrebbe rivedere la luci. Ripubblicheremo il primo disco e lavoreremo su nuovo materiale per registrare un disco.
Ho la fortuna di non dover sfornare un disco all'anno e dunque assecondo la mia ispirazione.

Podcast con l'intervista intera: